<< precedente

INDICE

successivo >>


ANDREA PISANI
Dall'Albania a Brindisi di Montagna all'Italia
 

Lettera al Dott. Vito Pisani, Chicago

Al Dott. Vito Pisaní
Chicago Ill.
Roma, 21 dicembre 1926.

Caro fratello, nel dare pubblicità a questi scritti parlo a te, perchè meglio m'intendi, a te che hai per legge di natura a mia somiglianza spirito e tendenze, a te che hai il primato fraterno nella nostra famiglia brindisina, tra cui la presente cronistoria può incontrare un certo interesse.
Questi scritti, conservati gelosamente ed a lungo in fondo alle mie casse, mi hanno fedelmente accompagnato in tutte le peregrinazioni; e chi sa in quale nascondiglio sarebbero andati poi ciecamente a finire, se un doloroso epilogo, che mi sembrava lontano lontano e da cui ogni volta rifuggivo col pensiero, non avesse, arrestandomi nella corsa affannosa, penetrato il mio spirito, commovendolo profondamente, raccogliendolo in meditazione suprema e sollevandolo da interessi e da cure effimere verso una sfera purissima di aspirazione, in cui l'amore diventa religione e si diffonde di moto in moto verso l'infinito.
L'amore era stretta aderenza alla vita e vago sogno, era timore dell'ignoto, trepidanza e smarrimento nato dal dubbio che s'indugiava per le vie del finito. L'amore ora approda ad una perfetta armonia, in cui lo spirito s'acqueta e si rasserena, perchè si concilia con l'essenza vera delle cose e con il fine ultimo dell'esser nostro.
La morte di Celestina mi sorprese vergine al dolore, e, parendomi non vera la perdita d'una sorella così mite e buona, sentendomi circolare nel sangue una continua piena d'affetto e parendomi assurda la sparizione di una sì fiorente e rigogliosa giovinezza, non sapevo rassegnarmi alla perdita impensata, rapida, di sembianze che avevo sempre negli occhi e di parole e di canzoni che avevo negli orecchi e nel cuore. Mi recavo nelle ore di quiete e di solitudine nel nostro camposanto, chiamavo a voce alta Celestina, la chiamavo a notte alta, disperatamente, e mi pareva d'impazzire. Era la mia una pietosa insania.
Allo stato di disperazione subentrò una lenta e serena malinconia, in cui l'amore vivo dei genitori e di voialtri piccoli adorati fratelli, e la speranza e la certezza di raggiungere la morta (no, per me non era morta) nella sua eterna sede, quando fosse suonata la mia ora, mi acquetarono in una visione eterea, del di là, in una vita di amore che non si spegne più mai.
Eppure questo grande dolore non mi aveva completamente educato.
La gioventù e la intelligenza irrequiete, l'esuberanza di attività e il traboccante entusiasmo, rinnovatosi in ogni benefica impresa, mi han fatto poi trascorrere molti anni senza darmi tempo di volgermi addietro.
Però, ad ogni alba pallida o rosata, dal Piano di Mincio o dalla vetta della Serra, ad ogni trillar alto di allodola invisibile, che . . . . " tace contenta dell'ultima dolcezza che la sazia” (1), ad ogni tarda sera, quando tutto intorno taceva e dal Serro Grande si vedevano i lumicini comparire e scomparire nei vani delle finestre, e le strie luminose di stelle vaganti filavano e sparivano nell'immensità del cielo, tra innumerevoli atomi di fuoco, di mondi, nella profonda quiete era un fascino di note modulate e dolcissime che veniva di lontano, che s'insinuava nei miei nervi, in ogni atomo del cervello, e mi sospingeva, cullandomi, nell'indefinito, ove è la sede del meraviglioso. E quell'accordo mi risuonava nell'anima di poesia intima e mi lasciava assorto e malinconico. All'esordire di ogni primavera, rilucente e tersa, tepida e rorida, al bacio purissimo e lieve lieve con cui le aure aprivano mille bocciuoli e mille ali dalle fogge più smaglianti di colori, un vago senso di trepidazione mi vibrava nel cuore e nell'immaginazione e mi sospingeva di nuovo innanzi ad avvenimenti grandiosi e indefinibili; mi sentivo come all'inizio di un viaggio per lidi lontani lontani, incantevoli, non mai esplorati, ove pareva mi attendesse una visione abbagliante, la più solenne dello spirito.
Uno stato d'animo che ancora non so definire, anche quando fisso lungamente l'alto e purissimo ciel nostro di Brindisi, anche quando lo attraverso con l'ali riposate dell'immaginazione e mi par d'essere sul tuo capo, mentre baci Tommasino morente . . . .
In più di trent'anni quante luci e quante ombre! Dopo le giornate radiose, quante bufere e quanti abbattimenti . . . .
Era morta Rosina, buona e pia, da poco tempo. Tu eri, come sei, tanto lontano. La terra volgeva quella mattina ai solstizio boreale: la sua faccia era muta e fredda, eppure entro bruciava e si consumava. In viaggio da Roma, in treno, in una notte insonne e angosciosa, poco prima dell'alba, al cospetto del Vesuvio sterminatore, mi appisolavo e in sogno vedevo nostro, padre morente.
In quell'ora del ventuno dicembre il suo spirito lieve e solenne, nella stessa camera ove ci aveva data la vita e ci aveva scaldati poi sempre col fuoco più puro di amore e d'intelligenza, ci abbracciava e ci abbandonava a noi stessi nel rimanente viaggio terreno.
Per via, dalla stazione, non avevo interrogato alcuno, temendo, e mi contenevo tragicamente taciturno: piangevano per me le cose d'intorno.
Il cuore gelido mi si sciolse, entrando appena, alla vista di fiammelle tremule di ceri: quella fronte pallida, ampia e serena, traluceva ancora di bellezza e di verità, solenne, inflessibile . . . . Ma la luce degli occhi ? dove era la luce di dolce bontà, la onesta e sincera fierezza di quegli occhi castagni . . . . ?
Baciai quella fronte e quelle palpebre e poi uno schianto di cuori, un grido solo disperato ed un abbraccio strettissimo, come per morire tutti insieme: mamma, Marialuigia, Peppino ed io ci ritrovammo così davanti alla inflessibile legge della morte. E piangemmo per te : forse il tuo spirito piangeva con noi in quelle ore.
Piangemmo; piansi e mi accorai. Il dolore grande non ebbe forme di follia: mi trovò temprato nelle opere, più forte nella fede, più vicino alla mia stessa meta, allo svolto fatale verso l'infinito:

«Come la fronda che flette la cima
Nel transito del vento, e poi si leva
Per la propria virtù che la sublima ».(2)

Prima di giungervi vo' assedermi ancora sull'estrema vetta del Serro Grande, a pie' della Croce. Ho bisogno di respirare quell'aria a pieni polmoni, ho bisogno di rivedere l'oriental zaffiro sulle vette di Albano, di riposare lentamente in giro lo sguardo sulla linea ondeggiante delle alture: sul Romito, sulla Pallareta, sul bosco Cute, sulle guglie aguzze piramidali di Castelmezzano, sul calvo Pazzano, sulle campagne che declinano versò le valli e verso il Basento. Voglio guardare a lungo il vecchio castello, prima che crolli, e l'abitato e il nuovo recinto e i giovani pini del camposanto solatio. Quanti cari morti ! . . . . La mia fronte s'inchina al pensiero dei padri e il mio pensiero è lampada votiva che non si spegnerà.
«Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt »(3)
Le persone muoiono, le cose 'rimangono e quanto è destinato a perire ci commuove profondamente; ma ciò che pare destinato a perire si rinnova e riaccende gli spiriti.
«Putrescant, ut resurgant».
Gli spiriti vigili non si arrestano: consegnano la fiaccola ad altre generazioni. Nell'eterna vicenda si consacrano le più belle memorie e si tramandano.
Nella mia breve sosta che è di rapida indagine sul passato, di sobria valutazione del presente, di spinta dello sguardo nell'avvenire; sciolgo la mia giovanile promessa, di primo amore alla vita.
Bella era la fede alle mie stesse idealità e tal fede ritrovo nei principii che ebbi col sangue.
Pater creatore, primo e più grande genio tutelare in tutte le epoche, fra tutte le progenie, in ogni popolo e in ogni grado di civiltà.
E’ inseparabile l'amore per i genitori e per la famiglia da quello per il luogo natio. Ogni stilla di sangue ereditato e ogni cellula del nostro corpo hanno elementi di aria e di terra nostre; ogni vibrazione dei nostri nervi e della nostra intelligenza ha riflessi di luce, di colori e di calore dell'ambiente in cui ci siamo formati; il tono dei nostri sentimenti e del nostro idioma ha risonanze della nostra storia e dei nostri canti, e l'eco si ripercote avanti, con onde che si moltiplicano verso l'avvenire: or come note d'una musica solenne, come diana di molte fanfare unite e armoniose, che conquide e trascina, ed ora come fremito tragico di ribelle volontà che rivoluziona e riforma. E' l'animus che somma e porta con sè, in mirabile fusione, le caratteristiche e le aspirazioni della razza, che polarizza le energie spirituali e morali d'un popolo, che è potenza propulsiva straordinaria, che si fa esponente d'un periodo storico ed assurge a genio tutelare, a padre della patria.
Per questa somma nulla si trascuri, anche con la raccolta di fatti e di personaggi modesti, oggi che per la ricostruzione italica si scopre e si valorizza ogni salutare rivolo per risalire alla nostra prisca grandezza.
Il trattato di Tirana (27 novembre 1926) converge l'attenzione d'Europa suggella la fusione italo-albanese, caldeggiata per cinquecento anni.
Queste memorie si svegliano in buon punto: se non portano un considerevole contenuto storico, hanno un diritto sbocco nella vita nazionale, perchè son destinate a portare un contributo, quantunque modesto, di luce e di calore che son fiamma pura di buona volontà e di vita chiara ed operosa. ,Così come sono, di modesto valore iconografico, di genuino ed onesto folklore, dovranno soddisfare la sana e semplice curiosità dei nostri conterranei, mentre coronano il mio maturo desiderio d'innalzare un piccolo faro sul monte che ci vide nascere. F dovrebbe averlo luminoso ogni comune d'Italia.
Nell'America del Nord la «Vatria», potentissima associazione, conta più di trentamila Albanesi; mentre in cotesti Stati Uniti vi sono circa duemila Brindisini. Diffondi tra essi, se puoi, queste memorie per ravvivare il ricordo d'origine, per rafforzare l'amore alla nostra vetusta madre Ausonia ed avvincerli ad essa con migliori propositi.
Nelle memorie comuni, che sono di ponte granitico fra i due mondi, che tendono a sollevare all'altezza spirituale d'Italia novissima i suoi figli lontani, scocchi con l'ora che suona il bacio possente di figlio a padre, di padre a figlio, di fratello a fratello.

Andrea

(1) Dante Paradiso Canto XX, 73,74.
(2) Dante Paradiso Canto XXVI 85, 88.
(3) Virgilio Eneide.
 

 

 

[Mailing List] [ Home ] [Scrivici]

 

 

 

.