A. M. Cervellino - Gente lucana contro luce
 

Antonio

il sagrestano 

Generalmente nella Parrocchia di Oppido Lucano, lontano dalle feste e da speciali ricorrenze religiose, si svolgeva un normale lavoro di manutenzione e pulizie che Antonio, sagrestano ufficiale, ritenendolo leggero, lo affidava alla moglie ed ai figli. Lui nel frattempo si esercitava sull'armonium che Monsignore custodiva nella Sagrestia. Diversamente, se nella Chiesa c'erano da fare lavori alquanto impegnativi, Antonio si ammalava di strani morbi, sconosciuti anche ai più famosi luminari della Scienza Medica. Prima d'ogni cosa, s'impossessava di lui una rara zoppia, anzi unica, da far ridere durante le funzioni religiose anche persone adulte di provata serietà e, sia che accendesse una candela, sia che spostasse il leggio sull'Altare, dava uno spettacolo senza pari. Ma presto veniva fulminato dallo sguardo di Monsignore e subito il volto di Antonio si tramutava in quello di San Luigi o di San Francesco. Ma questo repentino cambiamento, peggiorava le cose al punto tale che noi ragazzi si rideva ancora di più, senza inibizione alcuna, mentre per gli adulti era una prova di forza resistere ad un improvviso ed incontrollato scoppio di risate nel silenzio della Chiesa ed alla presenza dello sguardo severo di Monsignore che osservava uno per uno, tutti i fedeli specie quando a celebrare era un altro Sacerdote. Un giorno bisognava spostare mobili, banchi ed arredi sacri e Antonio, appena appresa la notizia, si cosparse il volto col borotalco e con gli occhi fuori dalle orbite, emetteva sibili di voce da far diventare un pizzico le anime buone ed i bambini. Monsignore capiva tutto e sapendo che i fulmini dei suoi occhi non avrebbero risolto niente, mandava a chiamare i figli e la moglie per aiutarlo nel suo lavoro. Appena questi giungevano in Chiesa, eccolo su una sedia svenuto che non dava più segni di vita. Ma moglie e figli, sapendo che era una perdita di tempo andare a porgergli gli ultimi conforti, si piegavano subito a lavorare. Ma le cose cambiavano quando in paese moriva un personaggio importante, vale a dire ricco. Subito Antonio buttava via il bastone, si radeva accuratamente, indossava il vestito nero che gli aveva regalato Monsignore per le occasioni importanti, ma soprattutto si atteggiava ad una compunzione tale che, guardando gli occhi fissi nel vuoto in un volto rigido e austero, si poteva ridere e piangere nello stesso tempo. Intimamente lui era oltremodo felice perché entrava nel personaggio a lui congeniale: l'organista. 
Da personali ricerche effettuate, mi risulta che in Oppido nel 1500-1600 ci fu un vero e proprio Rinascimento artistico-culturale: Teatro, Architettura, Musica. Il primo lo facevano i signori di ogni età e sesso nelle "gallerie" dei loro palazzi gentilizi. L'Architettura è testimoniata dalla presenza di tanti bei palazzi in paese. Per quanto riguarda la musica l'unica e certa testimonianza ci è data dal magnifico Organo del Convento che risale al 1630 circa, con ancora validi registri che, ben usati fanno accapponare la pelle, naturalmente, a chi piace e capisce tanto la musica, quanto la sonorità dell'organo. Analogamente a questo Organo e ancora più grande, era quello della nostra Chiesa Madre. Ma durante i lavori di restauro della suddetta, misteriosamente sparirono le preziose canne costruite in magnifica lega di piombo più argento, il somiere con la tastiera di ben cinque ottave con relativa pedaliera, sparirono anche i decori della facciata dell'Organo in legno scolpito e patinato e infine due puttini scolpiti in legno che reggevano il leggio sulla tastiera. Facendo finta di non ricordarmi quando avvenne questo orribile scempio, torno a guardare il volto rigido e austero di Antonio con gli occhi fissi nel vuoto che, con le mani sulla tastiera da cinque ottave, attende che la salma del defunto entri in Chiesa. Il figlio, Rocco, pronto a girare la ruota del mantice dà il segnale al padre: "arriva". Dal momento che la salma faceva il suo ingresso in Chiesa Antonio, entrando in una mistica "trance", iniziava a far respirare flebilmente i bordoni accompagnati da un cupo sottofondo di bassi, così caldi e penetranti da far rabbrividire tutti. Quel suo personale DIES IRAE suscitava uno strano sgomento evocando l'oscura presenza della morte con quel susseguirsi di accordi minori, alternati a ben studiate cadenze. Ognuno sentiva dentro di sé l'inesprimibile, ognuno per un po' rimaneva senza fiato. Chi aveva insegnato ad Antonio l'improvvisazione di arie e tematiche fino a quel momento sconosciute di uno spessore tale, che solo altri musicisti potevano ponderare ed apprezzare? Antonio, quasi visibilmente trasfigurato, faceva agilmente correre le mani sulla vecchia tastiera, poi impercettibilmente cambiava i registri (l'Organo era dotato di circa quindici registri il cui sapiente uso creava stupendi impasti di suoni) e, tacchi e punte sulla pedaliera, era un pittore che sulla tavolozza prepara i suoi cento colori. Ma al di là dell'ispirazione, era maggiormente felice al pensiero che questa impareggiabile Messa da Requiem da lui suonata, gli fruttava un alto onorario che per più giorni assicurava pane e forse anche carne e maccheroni alla sua bisognosa famiglia. Era così che si faceva perdonare dai suoi quegli improvvisi svenimenti, quando doveva fare lavori servili a lui per nulla congeniali. 
Seguendo ancora Antonio alla tastiera lo sentiamo trarre accordi tra strane dissonanze ed inquietanti eccedenze, creando delle pause dolorose con interrogativi senza risposte... Era questo il momento in cui l'arciprete Monsignore veniva rapito dalla sua musica e allora Antonio, più felice che mai, suonava e faceva le boccacce ai due puttini che reggevano l'inutile leggio, mentre lanciava feroci occhiatacce al figlio stanco e sudato che menava la ruota del mantice. Lo strano genio di Antonio, tutto contraddizione, cambiava umore nel giro di pochi minuti, ma in compenso era capace di affascinare anche persone altamente qualificate, quali l'Arciprete Monsignore Donato Pafundi, musicista egli stesso (più tardi Arcivescovo di Cerignola) e l'Arcivescovo Monsignor Pecci dell'Archidiocesi di Acerenza il quale, durante le Visite Pastorali in Oppido Lucano, in privato sentiva Antonio dar vita alle sue originali improvvisazioni che ogni volta lo lasciavano a bocca aperta nonché visibilmente commosso.
Chiaramente per i suddetti prelati, uomini di grande cultura, era naturale pensare che Antonio fosse un superdotato, mentre in paese circolavano voci che egli fosse posseduto dagli spiriti. Come poteva spiegarsi diversamente la povera gente ignorante, ma non stupida, tante risorse in un uomo che nell'arco di una giornata era capace di mille trasformazioni? 
Dal musicista all'attore, dal mimo al suonatore di più strumenti senza aver avuto maestro alcuno. Talvolta al primo vederlo, alle sue prime battute o ai suoi primi accordi, ognuno rimaneva senza fiato. Ogni fonte sonora lo metteva in sintonia con nuove forme armoniche per cui anche quando suonava le campane, la loro profonda sonorità gli suggeriva nuovi ritmi ed armonie da adottare secondo le circostanze di gioia o di dolore. Grande commozione era per Antonio la morte dei bambini per i quali sfiorava appena le campane minori, con un'intonazione mesta racchiusa in un ritmo che voleva essere la vita e non la morte. Triste e lento, invece, il tocco delle grandi campane, quando celebrava l'estremo commiato di chi lascia questo Mondo. Chissà quante volte quelle vibrazioni profonde hanno palpitato all'unisono col cuore di Antonio, catturandolo forse fino al pianto. In fondo, il cuore di un vero musicista non è mai sgombro da sentimenti d'amore, per cui in ogni momento anela, o canta o geme. Questa, un'ennesima sfaccettatura del grande ed altrettanto sconosciuto Antonio il Sagrestano. Tuttavia, più camaleonte di un camaleonte, approfittava subito nelle occasioni propizie per incantare tutti con sempre nuove mimiche che descriverle con parole è impresa assurda. Quando veniva invitato a suonare l'organetto ai matrimoni, per Antonio c'era sempre un buon pranzo innaffiato con tanto buon vino Aglianico. Questi lieti avvenimenti lo vedevano ugualmente impegnato con trasporto nelle sue improvvisazioni a tempo di polka, di valzer e di mazurke e, tra mimiche e comicità le più strane era l'allegria personificata per la gioia dei presenti. Veramente inaudito come Antonio con estrema facilità passasse dall'imponente tastiera dell'Organo ai pochi bottoncini di madreperla che componevano la piccola tastiera dell'organetto col quale ugualmente magnetizzava tutti. Una sera di festa gli bastò un'armonica a bocca per convincere alcuni amici di recarsi a cantare il tradizionale "cupa-cupa" presso case di agricoltori benestanti. Il successo fu straordinario e tutti volevano Antonio nelle loro case anche in serate non di festa e non mancarono cestini e panieri di salame, soppressate, fichi secchi ed altre primizie, frutto del lavoro contadino. Di Antonio si raccontava in paese che da giovane volle tentare la fortuna in America, ma, quando sul molo del porto di Napoli, prima di partire, prese a suonare l'organetto, la sua musica suscitò una tale nostalgia e commozione che fece tornare indietro molti napoletani che stavano partendo, naturalmente, lui compreso. Questo avvenimento costituisce assieme a tanti altri l'alone della leggenda di Antonio che trascinava come le sirene e, sia che suonasse l'organo o l'organetto, sia che suonasse le campane o mimasse con gli occhi, con la bocca e con tutto se stesso, ogni cosa si fermava intorno a lui e raggiungendo le alte vette del tragicomico, suggestionava adulti, grandi personaggi, donne e bambini. La strana grandezza di Antonio è degna di memoria e chi ancora lo ricorda, e fra questi anch'io, non può aver dimenticato i suoi occhi, ora chiusi, ora dilatati, il suo viso coi baffetti un po' spioventi ai lati, una faccia insomma al cui confronto ogni maschera risulterebbe insulsa se non banale. L'eredità di Antonio fu accolta in parte dal figlio Rocco. Dico in parte, poiché Rocco, persona garbata e intelligente, anche lui sagrestano, lungi dall'essere un mimo o un attore, era tuttavia dotato nell'armonizzare qualsiasi canto e all'Organo accompagnava da maestro il canto dei fedeli nelle Funzioni Liturgiche (2). Il resto dell'eredità di Antonio è andato perduto e certamente, penso, nessuno più sarà capace di imitarlo, nessuno di superarlo. 


2) Mi riferisco chiaramente all'organo del Convento del 1630 sulla cui esigua tastiera di tre ottave e mezza ed un'altrettanto piccola pedaliera di un'ottava, Rocco dette prova della sua abilità musicale fino all'85 con l'interpretazione di alcuni canti composti da Mons. D. Domenico Bartolucci (Direttore della Cappella Sistina fino a pochi anni fa). Durante gli anni dei miei studi nel Colle Sal. a Borgo S. Lorenzo (48-51) ebbi la fortuna di sentire e vedere all'organo questo giovane sacerdote il quale, commosso dalla mia assiduità nell'ascoltarlo accanto all'organo, una Domenica, dopo la Messa, mi regalò tre spartiti: In Te credo Dio nascosto - Prostrati nella polvere davanti al Tuo Santo Altar - Da secoli venisti Gesù in mezzo a noi. A mia volta regalai a Rocco l'In Te credo che egli interpretava magistralmente dando il ripieno all'organo alla conclusione del canto: Tanto il sole che le stelle passeranno e Tu non già.

 

 

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