Romano Fea

 

 

LA RAGAZZA CHE VOLEVA UN’ISOLA

 

29

 

Il Pireo ed Atene ci apparvero gradualmente nella luce dell’alba. Annita s’appoggiava al parapetto nelle ultime ombre notturne, assorta davanti spianata candida di case fino all’orizzonte collinoso dove ognuno di noi sperava di poter scorgere elmi dorati accesi dal sole, mentre la nave avanzava tra le strutture del porto. Quando le gru nereggiarono alte nel cielo ed il vociare degli operai accompagnò l’uscita dei veicoli dal ventre della nostra nave, ella si scosse e con noi affrontò gaiamente i perigliosi itinerari pedonali verso lo sbarco.

Un’ora dopo eravamo a passeggiare lungo l’agorà in una folla di turisti sudati, sotto l’immensa rocca ed il caldo sole. A sera, alla tavola del ristorante, i camerieri consegnarono un grande mazzo di rose ad Annita, ed il biglietto d’accompagnamento riportava, sotto il marchio dell’organizzazione internazionale di vendita e consegna di fiori, il nome di Hans Döring. Contemporaneamente il portiere dell’albergo ci avvicinò e porse un cablo a Manfred: l’invito del questore di Venezia a non allontanarci dal nostro albergo di Atene, ovvero di comunicare costantemente i nostri spostamenti.

-Ma che cosa accade?- disse Sandor alla nostra meraviglia. Allora Manfred raggiunse uno dei telefoni ai lati della sala da pranzo e dopo pochi minuti tornò verso di noi col viso sconvolto.

-Hans Döring è morto. Morto di veleno sul treno diretto in Germania, dopo pochi minuti di viaggio da Venezia! –

La nube d’inquietudine scesa su noi tardò a dissolversi, mentre riandavamo col pensiero alle ultime ore trascorse in compagnia di Hans, il personaggio che aveva saputo torreggiare nelle nostre fantasie, vivido e tuttavia sfuggente, ben connotato dalle sue attività e dalla vitalità condita d’ironia che sapeva esprimere ogni momento, pur mantenendosi in un alone di mistero ed imprendibilità.

Katja mostrava gli occhi lucidi, Annita fissava il fondo della sala; qualcuno propose di ottenere nuove informazioni telefonando in Italia, eventualmente proprio alla polizia di Venezia per chiarire le ragioni dell’invito a restare disponibili, altri riflettendo sull’opportunità di rinunciare al soggiorno in Grecia per tornare a Venezia col primo battello disponibile e di là, ottenuto il benestare della polizia, raggiungere Augsburg.

Potei accertare come, manifestando alcune di quelle proposte, i nostri compagni mantenessero lo sguardo su Annita quasi ella fosse il personaggio principale del dramma. La fissavano come cercando approvazione per ogni gesto o parola, mostrandosi pronti a piegarsi a qualsiasi decisione, come sicuri che solo a lei spettasse il diritto di deliberare sui modi e tempi dell’azione. In quel momento, il solo Manfred mostrò sufficiente freddezza per spilluzzicare pensosamente i gamberi mikrolimano che sorridenti cameriere ci avevano servito.

Su tutto quel fermento, Annita non mostrò di voler prendere una decisione in relazione al fatto luttuoso ed alle possibili conseguenze per noi: davanti ai piatti ricchi di vivande se ne stava a fissare il vuoto, in apparenza senza concedere attenzione alle persone e alle parole in orbita attorno a lei.

Solo Ursula, esageratamente petulante e forse aggredita da una crisi isterica per quella morte improvvisa, continuò ad insinuare l’opportunità di organizzare convenientemente la nostra partecipazione ai funerali di Döring, fino a a scuotere Annita per un istante: il tempo di dichiarare: “ormai è tardi, siamo troppo lontani da lui” e poi ripiombare nelle sue riflessioni.

Witold s’avvicinò al telefono pubblico, lo vedemmo gesticolare parlando a lungo, concitatamente. Al ritorno ci riferì notizie recuperate presso la propria famiglia ed il personale di servizio di casa Döring: Hans sarebbe stato ucciso da un sorso di liquore bevuto alla fiaschetta personale, quella che custodiva in tasca e che tutti noi avevamo potuto osservare più volte. Il fatto era avvenuto come già ci era noto, poco dopo la partenza del treno da Venezia verso l’Austria e la Germania. Secondo i giornali tedeschi, nello scompartimento del convoglio, oltre ad Hans erano presenti due viaggiatori di commercio ed Herlinde. Dopo il decesso, sia Herlinde che i due commercianti erano stati fermati dalla polizia italiana, ma quel fermo non s’era tramutato in arresto, per cui Herlinde aveva potuto continuare il viaggio verso casa, mentre il cadavere di Hans restava custodito nell’obitorio di Venezia in attesa della conclusione delle indagini giudiziarie e delle determinazioni degli eredi circa i funerali.

‘Sull’assassinio sarà fatta luce,’ proclamava con sicurezza la polizia italiana. I titoli dei giornali nereggiavano maestosi. Analogamente, i quotidiani di Augsburg e Monaco riportavano le notizie in prima pagina montando il caso fino a sospettare involgimenti di uomini politici e di servizi segreti.

Secondo il racconto di Witold il capocameriere di Hans, di nome Walther, s’era mostrato piuttosto preoccupato e disorientato per l’enorme quantità d’incombenze ordinarie e straordinarie che gli erano piovute tra capo e collo. Egli lamentava di dover ricevere drappelli di responsabili delle diverse imprese facenti capo ad Hans, i quali insistevano per ricevere istruzioni gestionali. I più petulanti erano i funzionari dell’ospizio dei vecchi e quelli delle cliniche, con le loro richieste di disposizioni e provvidenze di ogni genere, ogni minuto a lamentare l’assenza di precise indicazioni per una corretta gestione, con tutte le conseguenze che potevano derivarne.

-Gli ordini verranno dati opportunamente dagli eredi o da un loro delegato, questo è ovvio,- borbottò Ursula, acida.

-Ma chi saranno questi eredi?- mi domandai ad alta voce, ed il mio interrogativo restò sospeso nell’aria.

Fatta la relazione, Witold sedette fra noi e bevve un po’ di vino. Quanto a me, oppresso dal silenzio che stava montando, lo imitai mandando un pensiero al piccolo mondo che per anni aveva ruotato attorno ad Hans, mondo in apparenza autosufficiente, che d’un tratto cadeva in frantumi.

Bevvi alla salute del buon Hans, l’indaffarato ed onnipresente Hans, ammesso che la salute così augurata potesse raggiungerlo nel freddo dell’isola di San Giorgio dove ora stava, solo come non mai. Perduta l’aura dell’attività frenetica e dell’ironia con cui affrontava le giornate, lo pensai ristretto nelle misure del suo corpo, mutato in null’altro che un po’ di materia bisognosa di provvidenze pratiche e definitive prestate di malavoglia  da chissacchì.

La sala del ristorante s’andava svuotando, e così forse la memoria di alcuni fra i miei compagni di viaggio che pure avevano ben conosciuto e frequentato il defunto. Persino gli ignari anziani dell’ospizio avrebbero presto distolto l’attenzione da quell’evento e lasciato veleggiare i pensieri e distillato le loro querimonie verso il successore di Hans, preoccupati soprattutto di non perdere qualche privilegio nelle prassi giornaliere dell’ospizio. Bevvi ancora il buon vino greco e m’avvidi d’Annita che indugiava accarezzando le rose estreme ordinate per lei da Hans presso un fioraio di Venezia, poco prima di partire verso il suo destino. Sollevai il bicchiere e mormorai: -All’amico Hans!-

Ella chinò mestamente il capo e sollevò il bicchiere. Anche gli altri brindarono: occhi lucidi e voci opache. Poi Annita s’alzò ed annunciò ch’era venuta l’ora di ritirarci.

 

Due giorni dopo eravamo nuovamente imbarcati, questa volta diretti all’isola. La navigazione era iniziata di mattina presto: piccole e grandi isole dorate dai nomi che suonavano come le miracolose parole dei sogni sfilarono di fianco alla nave, lontane e vicine. Tra noi la commozione la vinceva. Eravamo immersi in uno spazio che assomigliava alle fantasie adolescenziali: tutti i miti che potemmo evocare erano presenti e dolcemente insinuati nei nostri discorsi, con altri fatti sconosciuti ma acutamente presentiti. Indugiammo lungamente nella contemplazione del mare che, sentivamo, avrebbe potuto mostrarci la scia della nave di Odisseo, mentre ai nostri sguardi vaghi appariva placido, rotto soltanto da gruppi di delfini in tenace inseguimento della nave.

Raggiungemmo l’isola a notte inoltrata.

 

-Dove sia andato il tempo, non so; io sono rimasta qui,- mormorò Annita fissando le ondulazioni dei monti lontani.

Già di lontano avevamo notato il fantastico aspetto notturno delle case del porto: forme candide, regolari, accompagnate dai soavi tondeggianti volumi d’una chiesa pure candida: ai nostri sguardi, ancora abbagliati dalla gran luce pomeridiana, quegli edifici apparivano leggeri ed irreali, immateriali: quinte di una scenografia teatrale come fotogrammi stereoscopici. L’effetto era dato dall’illuminazione pubblica, bassa nei vicoli paralleli alla banchina portuale, che illuminava fortemente le candide facciate rivolte alle navi in arrivo, cosicché ogni casa pareva veleggiare nel nero velluto di spazi siderali, fra bagliori di stelle.

Quando la nave raggiunse il molo, nugoli di persone vestite di candidi abiti si staccarono dai portici e ci raggiunsero ed attorniarono parlando confusamente, le voci tanto basse da non poter essere intese, poi andandosene tra larghi gesti, passi di danza e canti sommessi. Altri giovani e ragazze sorridenti ci accompagnarono al nostro albergo, poi restando ad aspettarci seduti sui gradini nel proposito di mostrarci quella stessa sera un settore dell’isola.

-A quest’ora di notte?- disse Ursula tra gli sbadigli.

-Troveremo un lustrascarpe?- sobillò Sandor con una luce ironica nello sguardo.

Pochi minuti per dare i nomi ed i bagagli al portiere, e rieccoci a passeggiare nei vicoli in compagnia dei nuovi amici. L’aria era tiepida ed amichevole, la brezza quasi assente; fuori dall’abitato, l’onda marina accarezzava gli scogli notturni e profumava  i cespugli e gli alberi. Un po’ più in alto, radi uliveti ed isolati alberi di fico e poi rocce e cespugli fino alle sommità dei monti e delle colline bagnate di latte lunare che, vicine e lontane, limitavano l’orizzonte.

Camminavamo leggeri nel buio. Disse Bern, rivolgendosi ad Annita:

-Sei sicura di quest’isola?-

-Sicura di che?-

-Sicura che sia quella desiderata.-

Silenzio, mentre i giovani greci canticchiavano sottovoce. Intervenne Sandor:

-Forse non esistono altre isole possibili.-

-Esistono certamente, - disse Annita, -ma di quest’isola sono sicura.-

-Come puoi esserne sicura?-

-Me la descrisse mio padre. E poi si sente.-

-Si sente che?- aggiunse Bern, pressato da Witold. A questo punto Sandor si staccò da Ursula precedendoci di alcuni passi per poi rivolgersi a noi e parlarci camminando all’indietro:

-Credo stia riprovando le esperienze di un nascituro nei confronti della casa che lo attende. Ancor prima di nascere, mentre sta nella madre, può udire rumori, voci e vibrazioni, stabilire cadenze e orari, riprovare lo sballottamento secondo i passi compiuti dalla madre, la compressione quand’ella si china. Appena assorbito il trauma della nascita, il mondo è direttamente  a sua disposizione ed egli ritrova in sé uno spasmodico desiderio di sperimentare tutto e direttamente; mentre va confrontando le esperienze note col terribile vuoto dello spazio d’aria in cui annaspa, si carica d’un desiderio di vivere talmente forte che, sviluppandosi, gli darà forza ed entusiasmo per apprendere imponenti quantità di nozioni ad un ritmo che mai più sarà eguagliabile in altri momenti della vita. Questo sta accadendo ad Annita, se ho bene inteso quello che ha voluto dirci.-

Disse acida Ursula:- Che cosa potrà aver presentito quella ragazza in quest’isola? Non illudetevi,- aggiunse rivolgendosi al marito ed a me, -la donna vi inganna! Le sue recitazioni, insopportabilmente esplicite, sono di nessun valore. Tutt’altra cosa da Saffo. Il tesoro che un solo frammento di Saffo può donare al lettore cosciente è una carica di pathos che la vostra amica non può neppure giungere a sospettare. Ella non sa: ridice frasi a vanvera, apprese chissà come, nell’illusione di accreditarle a Saffo ed in qualche modo avvantaggiarsene. Badate bene! Non illudetevi.-

-Ti pare giusta la descrizione di Sandor?- dissi ad Annita, trascurando le  livide frasi di Ursula.

-È così. Quest’isola m’appare improvvisamente e contemporaneamente nota ed ignota, vecchia e nuova: ogni profumo familiare ed inconsueto, ogni profilo d’orizzonte ben noto e, insieme, tutto da scoprire. Dentro, la voglia di crescere e ripercorrere tutti i sentieri terrestri e marini di quest’isola, ritrovando  e precisando luoghi e sentimenti, va crescendo ogni minuto. Siete stati molto cari ad accompagnarmi in quest’esperienza.-

Disse Manfred: -Tu dichiari d’aver ritrovato l’isola, di risentire gli aromi e riconoscere i sentieri e le curve degli orizzonti, ma come puoi intimamente essere persuasa d’aver già vissuto questo luogo? Tu hai poco più di vent’anni e chissà quali altre fantasie arriveranno a sommergerti, di tempo in tempo. Come puoi essere certa che non si tratti d’autosuggestioni?-

L’interruppe Katja rivolgendosi ad Annita: -Non hai paura?-

-Paura no, di che mai?-

-Di tutto. Degli antichi fantasmi. Di perderti nei meandri dei secoli passati.  Di non perderti ed invece di doverti difendere dagli amici diventati nemici. Dal tuo patrigno. Dalla polizia di Venezia. Da questioni giudiziarie che potrebbero piombarti addosso.-

Annita rise allegramente ed a questo punto i nostri danzanti e sconosciuti accompagnatori le si avvicinarono, la circondarono con una sorta di girotondo scandito da gioiose cantilene, per indicarle la mobile scia marina della luna appena levata.

-Che cosa cantano?- domandò Annita a Sandor, e Sandor li interpellò, discusse, poi ripeté con loro frasi della loro lingua con la traduzione:

-La spiaggetta che vediamo laggiù dove muore la scia della luna, è riservata ai poeti isolani. Là si è al riparo dalle brezze e si può restare fino all’alba. Consigliano di scendervi. Ursula ed io aspettiamo quassù.-

Scendemmo la costa del monte per un ripido sentiero nel profumo di rosmarino e raggiungemmo la spiaggia. Sedemmo sulla sabbia ed i nostri giovani accompagnatori si distesero attorno a noi accarezzandosi e scambiando sconosciute parole. Annita rimase ritta ad aspirare l’aria salmastra e le sue labbra si muovevano misteriosamente, come nelle ore notturne le labbra delle cariatidi lassù sul monte, senza che nessuno di noi potesse udire quanto stesse dicendo. A tratti studiavamo quel suo imperfetto silenzio e ci stupimmo di sapere intimamente che in quel momento ella avrebbe potuto trasformarsi in qualsiasi cosa, persona o idea, con noi assieme. Come già altre volte ci meravigliava quella sua incredibile immobilità, la capacità di contemplare lungamente un qualchecosa, oggetto o suono, a volte senza batter ciglio per minuti interi.

Dall’alto, lo sguardo di Sandor ci seguiva  e la sua sagoma si stagliava cupa; pareva un bimbo escluso da un gioco, un vecchio in preda al rimorso.

Katja piegò il capo appoggiandolo alla spalla di Annita. Bern e Witold si accostarono e sedettero davanti a loro: tutti guardavano il mare immobile come un lago, e con saltuari gesti distratti accarezzavano i piedi nudi delle due donne. Katja sfiorò cautamente la mano di Annita appoggiata sulla sabbia, mentre io le toccai i capelli che la rugiada aveva raccolto in riccioli brevi e fittissimi. L’abbaiare d’un cane lontano ci raggiunse: sollevammo il capo e potemmo ammirare il passaggio di lontane navi illuminate come sciami di Perseidi.

Passarono alcune ore: molte volte fummo fuorviati da ingannevoli albedo, ma finalmente le lunghe dita dell’aurora spalancarono le porte della notte ed un calore rosato invase i nostri corpi.

 

 

30

 

            -Il tiaso ?-disse Annita, -chissà. Temo di non potervi aiutare. Possiamo invece tornare, trovare insieme la valletta del tempio.- A passi leggeri ci avviammo per un viottolo rivestito di selci che ben presto ci portò fuori dall’ombra delle case prendendo a snodarsi fra uliveti e vecchie querce. La sicurezza mostrata da Annita nello scegliere la via indusse Manfred a domandare una spiegazione alla  parola ‘tornare’.

Annita rise e la sua risata era serena, al di là di tutte le serenità da me sperimentate:

 -Hai ragione, voi non siete mai venuti qui! O forse sì, ma l’avete scordato. Questo è il vostro peccato.-

A un certo punto della salita ella tuttavia s’arrestò per scrutare le colline distese attorno a noi e decise di abbandonare la stradella fin allora percorsa. Scese la costa ripida e raggiunse il fondovalle dove scorreva un rigagnolo. L’attraversò, risalì brevemente e ci  trovammo in un prato quasi piano, di terra  morbida e privo di sassi. Annita camminò attraversando quel prato e procedendo in diagonale, fino ad arrestarsi in un ripiano erboso che dichiarò sede del tempio antico.

-Spererei di reperirne qualche rimasuglio, una pietra almeno,- disse Ursula, in un ghigno sardonico.

-Qui era fresco d’alberi ed il ruscello scorreva ricco d’acque,- disse Annita, - qui venivamo con le capre dei sacrifici e attorno si diffondeva il buon profumo degli incensi e delle rose. Qui persino l’aspetto della morte  mostrava dolci sembianze.-

Ci sedemmo sull’erba guardandoci attorno.

-Io ho paura,- disse Ursula con pesante ironia. -Questo silenzio totale. Le vipere che sento frusciare. Sandor, parla tu, mi occorre una tua parola rassicurante!-

-Io non provo paure,- disse Sandor. -Mi sento confuso e affascinato.-

-Davvero?- domandò Ursula strascicando le parole.  Allora si levò la voce di Annita:

 

-Dimmi una verità purchessia,

non vedi che sto per morire?-

 

Katja le si avvicinò sollecita e piena d’apprensione, ma ella continuò:

 

 

-In quei giorni lontani, son certa,

Ciprigna mi tenne la mano:

fui bimba di danza e di tempio,

scrissi versi inspiegati.

Oggi nel peso degli anni rileggo:

i  versi tracciano forme divine.-

 

Disse Witold: -Non tutto il mondo ti ama perché finora non ti sei mostrata al mondo intero.-

-Non tutti mi amano,- ammise Annita.

-E il mondo riesce a procedere nei suoi giri, e la gente a vivere ancorché priva delle tue canzoni,- aggiunse l’ambiguo Witold.

-Forse il mondo le ha già nell’anima, quelle canzoni, e la nostra Annita è la voce flebile di quell’anima. Lo strumento di presa di coscienza. Ma tu, Annita, potresti rammentare il punto dell’isola dove sorgeva la tua casa?- disse Bern.

-Io non canto per qualcuno. Canto per cantare. La mia casa, dici, dove sarà?

 

... e ricolma di Ares,

Ares mi sento, uscendo dal basso

della casa cittadina.-

 

-Ed i tuoi vicini di casa, i saggi della città, cosa dicevano di te, come ti consigliavano?-

-Parlano e parlano. Nessuno li ascolta. Anche in Càlcide e Lidia avvengono queste cose

 

Un vecchio espone il sapere

di pesca e armenti a orecchi distratti;

in ogni isola e sui monti costieri

vecchi pronti a varcare le soglie dell’Ade

narrano scienza illusa.

 

È tale il tuo sapere, Filemone,

di cui ti vanti tra l’arengo e i templi:

passerà fra le spinte del tempo,

vecchio ti troverai nella ricerca

d’un orecchio paziente.

 

-Ma quelle poesie, chi le raccoglieva, chi le cantava?-

- Non solo giovani, anche anziane donne si radunano sulla piazza nelle lunghe sere di primavera, bagnate dal forte aroma dei fiori. A turno si sale su un oratorio e, dopo lo strepito dei tamburi e dei cròtali, nel silenzio profondo dei raccoglitori d’olive e dei pescatori, si cantano le parole che nelle lunghe ore del giorno appena trascorso, hai pensato e tracciato, sempre tentando un dire semplice e diretto, comprensibile a coloro che poi proveranno il profondo brivido, lo stesso tuo, della presenza divina; eppure

 

questo che scrivo e dico è labile

come ombra di fiore sulla roccia

 

ma col tempo, nella certezza che anche i templi di parole crolleranno, sopravviene un senso di vanità e si ripensa

 

più d’ogni parola

e d’ogni carme vale

oggi apprezzare degli anni lontani

gli acuti aromi,

 

perché così siamo costituiti: impazienti, sollecitiamo il tempo a passare correndo, già pregustando l’arrivo della nostalgia. Non sopportiamo il presente, preferendo coltivare il mistero del passato.-

Katja le accarezzò le mani che teneva raccolte al petto: -Un tuo caro amore, parlamene ...-

 

-A quell’atleta Artemide mi spinse:

nello Stadio precedeva alto la schiera

ma, presso la vittoria, s’arrestò:

guardava sorridendo. -

 

Ora tutti tacevano. Il cielo cominciava a colorarsi ed  ella mormorò le ultime parole:

 

-Dolce-mente ti sfioro, Atti, la mano

qui temendo il cessar d’ogni carezza.

Invincibile un male mi ghermisce:

dolce premessa all’infinita pace.-

 

 E rialzandosi per avviarsi verso casa:

 

-... può forse passare

quello che siamo al vento delle cose?-

 

All’albergo ci riferirono che il locale astinomikòs, il poliziotto, aveva lasciato un documento da parte del comando della polizia di Venezia: in relazione all’istruttoria in corso per l’omicidio di Hans Döring,  non ci allontanassimo dall’isola in cui ci trovavamo e ci tenessimo in ogni momento a disposizione della polizia locale.

        

 

 

31

 

 

Il barcaiolo ci aspettava al porticciolo dei pescherecci presso uno dei moli di legno. Lo raggiungemmo impazienti e sedemmo lungo le fiancate della grossa barca. Eravamo avvolti in candidi accappatoi, come in  uso sull’isola, e ci accompagnavano due dei molti giovani conosciuti in quei giorni, impegnati per sola simpatia con il nostro gruppo a fungere da guide e interpreti.

Il barcaiolo slegò le cime ed operando coi remi si staccò dall’ormeggio. Proseguì remando gagliardamente fino a raggiungere l’imboccatura del porticciolo, poi ripose i remi, sollevò una snella vela che subito si gonfiò; a quel punto infilò il timone di legno nei suoi scalmi, lo bloccò sulla rotta e vi si mise tranquillamente seduto accanto, accendendo la pipa.

Nella spinta della brezza la barca acquistò leggerezza: l’onda piccola ed amica si fendeva facilmente; procedevamo in un incredibile silenzio e io risentii il miracolo operato dalla spinta a vela: il corpo alleggerirsi e procedere come navigando nel vuoto.

Eravamo diretti ad un isolotto, poco più che uno scoglio, che per il momento non si poteva scorgere, e non riuscivo ad allontanare i miei sguardi da Annita, seduta sul bordo della barca, bella come ritenevo di mai averla vista, Annita s’avvide dei miei sguardi e disse:

-Debbo ripetere. Vi amo per avermi seguita in questo viaggio. Comunque possa concludersi, contate sulla mia gratitudine.-

-Che cosa troveremo sullo scoglio?-

-Non penso ad un semplice scoglio. Si tratta d’un isolotto ricco d’erbe e con qualche tempio poco noto.-

Uno dei giovani greci parlottò col barcaiolo e disse che talvolta qualche pastore  trasporta pecore per fruire dell’erba che vi cresce nella buona stagione. Le pecore rimangono per un mese sullo scoglio, senza la presenza dell’uomo, tendendo ad inselvatichirsi. Infatti, tornando il padrone a riprenderle, esse conosceranno ogni via di fuga. Nei periodi di ferie, l’isola diventa un luogo piuttosto ambito soprattutto da nuotatori subacquei. Nei luoghi bassi e riparati dai venti esistono relitti di edifici antichi, ma l’attrazione maggiore è data dalla possibilità  d’immergersi ed ammirare i fondi marini che sono selvaggi, ricchissimi di pesci, molluschi e vegetazione. Buon posto per  palati fini, ma alquanto periglioso per correnti marine non costanti per itinerari e portata e dunque imprevedibili, che in pochi minuti possono trasportare il tuffatore a centinaia di metri di distanza dalla barca. Correnti maliziose ma non perfide poiché, a conoscere i luoghi, sempre si potranno ritrovare cammini azzurri di correnti opposte per tornare all’isolotto od alla barca che avrai ancorata al riparo di un costone.

-Un avviso essenziale,- brontolò Manfred, impegnato a riparare dagli spruzzi le attrezzature fotografiche.

-Una splendida isoletta,- dichiarò Bern attento a scrutare l’orizzonte in precario equilibrio sulla fiancata della barca.

Raggiungemmo l’isolotto in un’ora e sbarcammo sulla sabbia d’un porticciolo naturale, fra alti contrafforti rocciosi. Il marinaio ancorò il barcone nella sabbia asciutta, trasse una bottiglia di vino ed un tondo cesto di dove occhieggiavano pagnottelle, un cacio e delle olive, ed andò a sedersi nell’ombra delle rocce. Noi ci raccogliemmo attorno ad Annita che studiava la costa per individuare una via conveniente per un’escursione. Intervenne anche Sandor col suo bagaglio di scienza linguistica e parlando con i nostri accompagnatori ben presto si decise per un sentiero che s’inerpicava verso le zone alte. Ci arrampicammo volonterosamente fino a raggiungere una piana che preludeva ad una conca naturale fresca e verdissima, circondata di rocce. Là sedemmo a riposare tra l’erica  ed il rosmarino. Annita fissava il verde dell’erba, e non batteva ciglio.

Katja e Sandor la lasciarono tranquilla fino a quando la curiosità li vinse e domandarono: -Che c’è qui di tuo, che cosa rammenti?-

-Non mi crederete, ma in questo luogo troppo a lungo desiderato ed evocato ripensavo al nostro treno.-

-Il treno?- Ci raccogliemmo tutti attorno a lei.

-Quello che ci condusse a Venezia. Ci ho pensato a lungo in queste ultime notti. Ho rivisto ad uno ad uno i nostri movimenti, risentito le parole.-

-Ebbene?- domandò Frieder.

-I movimenti di tutti noi, fino a quando fummo in vista di Mestre ed il treno rallentò. Allora molti di noi s’accalcarono ai finestrini per individuare i primi slarghi di laguna.-

-Questo lo ricordo anch’io, una sorta di gara,- disse Bern.

-Tutti ai finestrini, anche Hans, che aveva appoggiato la fiaschetta tascabile del whisky sul tavolinetto. Bene, la cosa avvenne in quel momento.-

-Che cosa avvenne in quel momento?- interloquì Sandor, fremente. Annita rimase immobile come una statua parlando o piuttosto mormorando nel sibilo del vento fra mortelle e ginestre: -Ecco, proprio allora mani furtive s’avvicinarono alla fiaschetta e la sottrassero.-

-Ebbene?- dissero più voci contemporaneamente.

-Pochi istanti. La  fiaschetta venne rimessa sul tavolinetto dopo pochi istanti.-

Restammo a riflettere sulle parole di Annita, poi Ursula sibilò parole fiammeggianti:

-Questo che hai detto sottintende che sapresti indicare a chi appartengono quelle mani! E perché non l’hai rivelato all’astinomikòs? Non hai fatto la tua denuncia a tempo opportuno? Ma no, tu non puoi essere precisa e fattiva perché il tuo è un mero sogno, un’ipotesi, una sorta d’allucinazione piovuta nella tua incolta fantasia  nelle insopportabili ore di solitudine notturna. Tu stai tentando, se non di peggio, la costruzione d’un’ipotesi, attraverso la concatenazione di gesti soltanto immaginati e dunque fuorvianti, pertanto sarà bene astenersi da continuare a parlarne.-

-Potrebbe anche non essere come dici tu, -intervenne Manfred,- se Annita può spingere la sua memoria a ricordare qualche particolare in più e noi possiamo stabilire ch’ella non s’inganna. In tal modo diventerebbe sostenibile una prima verità.-

-Sarebbe?-

-Sarebbe che il buon Hans è stato veramente vittima d’un omicidio, secondo i sospetti della  polizia di Venezia. Verrebbe così a cadere l’ipotesi di suicidio, che forse piace  particolarmente a qualcuno di noi!-

-Di conseguenza l’omicida sarebbe uno del nostro gruppo,- commentò Witold con voce apprensiva.

-Attenzione,- ammonì Manfred,- non dimentichiamo Herlinde!-

-Proprio lei,- gridò Ursula, -infatti quella donna ha avuto la possibilità di agire anche durante il viaggio di ritorno! Come possiamo sostenere, infatti, che qualcuno abbia manipolato la fiaschetta del whisky prima dell’arrivo a Venezia e che da quel momento il signor Döring non vi abbia più bevuto fino al momento fatale? -

-Questo di Ursula potrebbe essere un argomento,- ammise Bern, pensoso, -ma debole. Infatti, fra il nostro arrivo a Venezia e la successiva partenza di Hans con Herlinde, non è trascorsa che qualche ora di continui spostamenti in Venezia, noi tutti presenti. Orbene tutti noi, conoscenti ed amici di Hans, possiamo dichiarare ch’egli non ha, né mai avrebbe, commesso la scorrettezza di bere alla fiaschetta sulla via pubblica o sul motoscafo senza scusarsi con noi od offrircene. Tutti possiamo ricordare, invece, che proprio in piazza San Marco ci ha tutti invitati per un rinfresco in uno di quegli elegantissimi caffè.-

-Infatti,- disse Witold.

-E allora,- riprese Manfred, -poiché io rammento che durante il viaggio in treno verso Venezia, Hans s’era servito più volte della fiaschetta, e lo rammento con sicurezza per la sua insistenza nell’offrirne a tutti noi, ritengo di poter escludere che la fiaschetta sia stata manomessa prima, vediamo ... certo prima del passaggio della frontiera fra l’Austria e l’Italia.-

-Giusto,- ammisero Bern e Witold.

-Debbo dunque dedurre che, nel fatale ultimo viaggio in treno, Hans non abbia estratto la fiaschetta dalla tasca fino al momento esiziale ... a proposito, sapete se Herlinde usa bere liquori?-

-Non superalcoolici,- disse Bern.

-E dunque questo può averle salvato la vita poiché, prima di accostarsi al sorso mortale, Hans le avrà certamente offerto di quel whisky! Resta dunque in piedi e legittima l’ipotesi dell’immissione di veleno nella fiaschetta nell’ultima parte del viaggio ferroviario verso Venezia. Proprio come riferito da Annita, in un momento in cui la fiaschetta era in un luogo accessibile e tutti, meno uno, erano distratti ...-

-Il momento dell’arrivo a Mestre!- interruppe drammaticamente Bern.

-Precisamente,- s’infervorò Manfred che ormai s’era calato nel ruolo investigativo e pareva prenderci gusto, -l’assassino, o assassina, deve aver approfittato dell’attenzione generale polarizzata sull’imminente comparsa della laguna!-

-... ed agire nel momento descritto dalla nostra Annita, la quale  ritiene d’aver notato le mani omicide all’opera!-

L’incantesimo investigativo fu rotto dalla voce impaziente di Ursula, carica del tono ironico e sprezzante dell’insegnante spazientita da allievi protervi che continuano ad interrompere la lezione: -Quando avrete pescato l’assassino, svegliateci!- e roteò su noi occhi irati, -in caso negativo potrò aiutarvi ad individuarlo con la tiritera della civetta, e sarà un risultato altrettanto plausibile del vostro. Nella conta ci metterei anche Herlinde, non si sa mai.-

-Io ho visto per prima il mare di Venezia, e l’ho gridato ad alta voce, le mani assassine non possono essere le mie!- dichiarò Katja.

-Prescindendo da altre considerazioni, Bern ed io eravamo in gara con te per l’avvistamento, potrai ricordarlo, e pertanto dobbiamo essere esclusi dalla rosa dei sospettati,- argomentò Witold.

- Ricordo che in quel momento Ursula stava seduta all’altro capo dello scompartimento, furiosa con me per un motivo che non ricordo,- disse Sandor,- perciò non può essere stata lei a sottrarre e manipolare la fiaschetta.-

-Benissimo,- riassunse Manfred,- restiamo Sandor, Nick ed io.-

-Ed Annita!- strillò Ursula.

-Annita! Come puoi insinuare il nome di Annita quando lei stessa ha denunciato il fatto delle mani furtive ...-

-Mi meraviglio della vostra semplicità,- dichiarò Ursula didascalicamente, -oltre alla possibilità che possa sbagliarsi o sognare, quello di giocare il ruolo del detective potrebbe risultare un ottimo, sottile espediente. Penso ad un artificio per sviare l’attenzione e polarizzarla su fatti lontani dal vero. -

-Sarebbe?- disse Manfred, piccato dal rischio d’essere scalzato nel suo ruolo d’investigatore.

-Un quesito della più lontana tradizione: cui prodest?-

-Che significa?- domandò Katja.

-A chi può aver giovato la morte di Hans?-

-A nessuno!- fece un piccolo coro di voci.

-Ne siete ben certi?- aggiunse la voce sarcastica di Ursula facendo girare lo sguardo su noi.

A questo punto mi sentii ribollire di rabbia e sollevai la mano per chiedere la parola. L’ottenni.

-Proprio questa malizia e la tua improntitudine mi fanno riflettere su di te, Ursula, e sulla tua appassionata perorazione contro Annita. Perché mai quello spirito combattivo? Chi ti spinge a contrastare l’indagine di Manfred? Ci rifletterò ancora nella convinzione che, comunque questa storia vada a finire, il tuo atteggiamento è stato finora assai poco limpido. E purtroppo m’accorgo che stiamo pregiudicando l’armonia della giornata e forse l’esito dell’intero viaggio. Perciò v’invito a camminare ancora un poco seguendo Annita lungo il sentiero che ci ha portati fin qui.-

Ursula aveva ben tentato d’interrompermi ma, trattenuta da Sandor e Bern, s’era chetata, mantenendo il viso corrucciato. Intanto avevamo ripreso ad inerpicarci tra i cespugli, qua e là godendo di scampoli d’ombra o aliti di vento fresco, fino a quando Annita abbandonò il sentiero e prese a camminare nella macchia.

-Che succede,- disse Katja, -dove si va?-

Annita si volse verso noi mostrando il volto mesto, gli occhi umidi ma determinati:- Ora basta, chetatevi su Hans. Basta davvero!  È stato un uomo ricco di valori, ha vissuto una vita densa di azioni e popolata d’amici. Quando un grande uomo ci sfiora, lascia su noi una polvere che s’appiccica ai nostri abiti ed ai nostri pensieri; ne restiamo infastiditi e vorremmo scuotere quella polvere, senza accorgerci che è polvere d’oro. Hans è stato molto fortunato, in certo modo, morendo non sazio e neppure stanco, prima d’aver fatto in tempo ad acquisire la capacità e forse l’abitudine di vivere pienamente; cosicché la privazione della vita non l’ha fatto soffrire e certo ha potuto morire serenamente, come un bambino. Ora pare che ognuno s’affretti a scordare l’essenziale di quell’amico. Ha lavorato anche troppo, ammucchiato molto danaro, ma tutti siete testimoni che mai ha smarrito la limpidezza del pensiero e sempre ha cercato perdono presso di noi per i suoi eccessivi impegni, in cambio dividendo con liberalità esemplare le sue ricchezze,  non sempre ricevendo in cambio vera amicizia e gratitudine. La sua casa è sempre stata aperta ed accogliente per chiunque. Noi dovremmo ricordarlo in quell’atteggiamento di disponibilità, per evitare che la sua grandezza possa essere adombrata da nuvole di questioni transitorie come la scoperta del suo eventuale assassino, e così il cordoglio per la sua perdita si muti in ansia di punire qualcuno ed egli svanisca dalla nostra memoria come un vaniloquio.-

Detto questo ci fissò con occhi di sfida: Witold le si avvicinò abbracciandola e mormorandole di quanto fosse nel giusto; di come tutti noi ci mostrassimo aridi e sterili nel cianciare trasformando il dolore e l’ammirazione in una prassi, giocando ad investigare invece di godere del mare e dell’isola. -Perdonaci,- concluse, -e narraci del tempo in cui scendevi su quest’isola con altre donne ...-

-Come potrei, ora che mi circondate di frasi amare ed emettete fiati gonfi di sospetto?- Ma Witold non si rassegnò ed insistette:- Che cos’è questo luogo? Forse qui seppellivate i vostri morti?-

-Un cimitero vuoi dire? Non so, non so ... - si raccolse in se stessa dondolando il capo e continuò:

 

-Ora per certo so, l’onda marina

reca l’acre sapore delle umane

lacrime, e da Troia e ogni giorno

cresce il mare arrossandosi:

onde di sangue allagano le spiagge.

Segue il Fato i passi dell’uomo,

duri colpi risparmia ai gagliardi

e li infligge ai canuti e agli inermi.

Forse quel Fato teme l’uomo forte.

Qui Atena si tace, ma tu, indomito,

viso aperto e sicuro,

batti il tuo Fato ad ogni svolta,

ad ogni angolo sia lotta mortale.

Non temere il dolore né la morte:

temi in vita d’illuderti ...

Gli dèi provvidi fissano quadrivi

fra il tempo e l’essere tuo.-

 

Domandò Sandor: -Parla ancora, spiegaci le ragioni della venuta su quest’isolotto. Certo arrivavate con le barche portando le ceneri dei morti.-

- Non so, non so...

 

Chi di quest’isola o della costa lontana

o anche dei monti divini,

consolarti potrà d’essere nata

e viva e moritura?-

 

-Ho paura, andiamocene di qui,- disse Ursula concitatamente, ora sconvolta e pallidissima, -non posso sopportare questa precarietà, tutti questi inganni. Le vostre parole insensate, lo spazio troppo aperto, la luce accecante ... Io voglio tornare, scendiamo alla barca, ripartiamo. Questa è una condizione di estremo pericolo, né esiste una ragionevole possibilità di aiuto e soccorso! Chi cade da una roccia, o viene morsicato da un serpe, morirà per mancanza di intervento. Ho paura, dimentichiamo la mattana che ci ha condotti fin qui e ripartiamo! Torniamo alla barca!-

 

In preda ad una crisi isterica, Ursula si dibatteva tra le braccia di Sandor, sorda alle esortazioni di Bern e Manfred. E Annita disse con voce piana, nella brezza che cresceva dal mare, parole che in parte si persero nel vento segato dai cespugli dei cìtisi e delle ginestre:

 

-Quale pesce ch’è acqua addensata

l’essere nostro guizza imprendibile.

 

Non crediate che io riesca a rimanermene qui senza dolore. La pena mi abbraccia

 

... quella Saffo tremante

ch’ero quando l’impassibile Cronos

lungi mi tratteneva da questa

isola rosa tra  acque azzurre,

dall’umida terra e radiche di quercia

...

da quest’isola estiva, fin che Zéfiro

mi cullerà volando verso costa

e tra le nubi gelide alle spiagge

ed alle oscure foreste calerà…

 

Non industriatevi a consolarmi, piuttosto scrivete le cose che sono accadute e state dette. Non perdetevi fra tempi e spazi.

 

Questo oggi  vi dico, sorelle:

traccerete  parole sull’anfora cruda

e preziosa, fin quando anche Saffo

Saffo varcherà il fiume accedendo alla grotta.

E là mi troverete, e altrove;

...

il mio giaciglio e le fredde stelle

trasferendo il sudore delle notti

in umida rugiada, le mie vesti

Erinni livide ospitando,

quando le dolci Pierie

convocheranno i venti e le maree

al cospetto della fragile coppa

che rimane di Saffo.

 

Conservate le anfore e le tavolette quanto potete, pur non ignorando che anche i marmorei basamenti dei templi cadranno in polvere e oblio

 

Le più solide rocce sono un alito

lieve, e i canti  più vaghi

colonne del futuro: dunque un’anfora

trova sua vita nel dissolvimento;

non i versi di donne che l’ornano

vittoriosi sul tempo ...

 

-Voi costruite ed insieme temete l’inutilità di tutto quanto vi circonda, perché non sapete. Ed operate a nascondere ciò che sentite nel profondo di voi stessi.-

-Ma tu, non temi d’essere, come sei, mentitrice ed incoerente? Non sprofondi mai nel pozzo della tua ignoranza?- gridò Ursula furente, pur esortata a tacere e trattenuta per le braccia.

- Non alteratevi,- continuò Annita,

 

-Bazzica digesti lo scriba ufficiale,

traccia fogge di navi il pràtico,

Amone annota voci di teatro

e accumula oggetti di metallo.

Le Ascree paion tacere, indifferenti.

Soli e lune s’alternano, taciti.

 

Ed alla tenera Katja che le baciava i piedi rivolse un sorriso indicibile e disse:

 

-Come tutti, Archeanassa, in città,

fede presti a leggi e tribuni,

t’infiammi di fatti e mutamenti.

Eppure, nel tuo segreto, cresci un orto

ove di te maturerà coscienza:

in quello crederai nei tempi

di là dall’occaso d’ogni evento.

Ivi presiederanno dolci Aonie.

 

Ora scendiamo,- continuò e ci precedette lungo il sentiero che precipitava verso la spiaggetta ove riposava la nostra barca.

Durante la discesa ebbi agio di riconsiderare il gruppetto di figure pensierose che procedeva cautamente tra i sassi viscidi di salino, su cui torreggiava la cospicua figura di Sandor. La mia attenzione venne polarizzata proprio da lui, uno dei tre rimasti nell’elenco dei sospettati d’omicidio secondo la ricostruzione di Manfred. Di quei tre, dovendo escludere me stesso in prima istanza e Manfred per il notevole apporto dato alle indagini, dovetti una volta ancora riconoscere quanto Sandor si manifestasse, avendo confermato, negli ultimi tempi, gli aspetti caratteriali in parte descritti: la disinvoltura nel tradire la moglie approfittando sessualmente d’una giovane donna in condizioni d’abbandono e bisogno; la sostanziale noncuranza con cui aveva sopportato la separazione dalla moglie e dai figli; la tenacia nel frustrare i tentativi di rappacificazione; l’evidente debolezza di fronte alla moglie che, in regime di separazione legale ed in prossimità del divorzio, gli s’era imposta per accompagnarci in Grecia; la perdurante smania di possedere una giovane donna illudendosi di poter scordare i doveri di padre; la diffidenza e l’odio subito mostrati per Hans. In più, tutte le indelicatezze, le violenze, i bassi sotterfugi operati nei miei confronti, per tacere della scenata di Augsburg in cui, senza una ragione seria, s’era ferito il polso.

Quei fatti riuscivano a delinearmi un Sandor amorale, di carattere piuttosto ripugnante, incapace di inviare uno sguardo critico alle proprie azioni e sempre disponibile a qualsiasi gesto pur di soddisfare desideri e velleità. Così mi venne fatto di costruire l’ipotesi d’un Sandor assassino. Egli s’era infatuato di Annita, oppure d’un’immagine di lei edificata nella sua pazza fantasia intrisa di reminiscenze elleniche; l’imprevedibile ed appagante indipendenza in cui l’avevamo trovata ad Augsburg l’aveva sconvolto e disorientato; in più s’era dolorosamente accorto dalla confidenza di lei con Hans e col mondo vivo e brillante che gli ruotava attorno. A quel punto, frustrato dalla vivida personalità ch’ella s’era prestamente costruita, accecato dall’improvvisa e fondante esperienza greca, ove egli aveva invece acquisito la piena coscienza d’essere un semplice partecipante al viaggio, come chiunque altro, Sandor doveva aver ritenuto che forse tutte le sue carte erano state giocate e che le possibilità di far valere i passati rapporti per riavere la ragazza stavano svanendo o, peggio, già s’erano estinte.

Cosicché la sua frustrazione ed il conseguente  livore potevano averlo indotto ad addebitare ad Hans Döring, alle sue ricchezze ed al suo insinuante fare paternalistico, la responsabilità principale del suo fallimento. Per la sua fondamentale immaturità, come per la paura di dover affrontare chissà quali altre tribolazioni, ora che Annita gli era sfuggita ed Ursula aveva mostrato di saper vivere disinvoltamente anche senza di lui, poteva essersi sentito perduto fino a pensare che solo la soppressione del facoltoso tedesco gli avrebbe ridato qualche possibilità di riconquistare Annita.

A questo punto la manovra del veleno. Manovra peraltro individuata da Ursula la quale, nel suo ritorno sentimentale nei confronti di Sandor doveva averlo ben osservato ed essere pervenuta ad accertare l’odio del marito per Hans e non aveva potuto o voluto evitare di assumerne le difese. Da qui i maldestri tentativi di scalzare con impeti esagerati e senza ragione apparente, sia le aeree dichiarazioni di Annita che le ricostruzioni dilettantesche di Manfred.

Sandor! Certo Annita aveva individuato con certezza in lui l’assassino di Hans ma,  per una delle ragioni lontane dalle logiche che animano i suoi comportamenti e che d’un subito a me paiono incomprensibili, aveva rinunciato ad inchiodarlo con le sue prove, lasciandolo in attesa d’un destino fosco ed irreversibile nella falsa sicurezza dell’abbraccio avvolgente della moglie. Sì, ora potevo vedere chiaramente la quarta dimensione del povero debole ragazzone Sandor che se ne scendeva balzelloni verso la spiaggia col suo corpaccione lento e trasognato di tardigrado: egli aveva perso la sua battaglia, era stato sconfitto in tutte le lotte! Era finito.

 

Quando raggiungemmo la spiaggia, il barcaiolo ci interrogò con lo sguardo, ma Annita lo superò ignorandolo e dirigendosi a passi decisi verso alcuni scogli che limitavano la spiaggetta verso sud. Laggiù si arrampicò su uno scoglio piatto e fissò l’acqua color prugna, rotta qua e là dalle strisce più pallide delle correnti marine.

-Ora vi scenderemo,- disse a noi che sopraggiungevamo. Qualcuno la raggiunse sullo scoglio ed ella lasciò cadere il velo bianco che la copriva. Anche Katja e Bern l’imitarono.

-Siete pronti?- ci domandò.

-Dove si andrebbe?- disse Manfred con voce malsicura dal basso della spiaggia, impugnando la macchina fotografica e scattando raffiche d’immagini al nostro gruppetto. Anche i giovani amici greci lasciarono cadere le loro tuniche  e si dissero pronti. Annita, nuda e ridente, indicò il mare: -Andiamo!- esortò - compiamo qualcosa al di lá della  serenità ambigua della parola! L’ ciucce s’attacche che la capèzze e a uòmmene che la paròle.

La guardammo incerti, ma pronti a seguire qualsiasi suo ordine. Solo Ursula si agitò terribilmente, ripetendo più volte la parola illusione ed abbrancando disperatamente Sandor e gli altri rimasti in piedi sulla sabbia.

-Perché illusione?-  urlò concitatamente Sandor.

Ma Ursula aveva ripreso a gridare invocando Sandor che non ci seguisse, che la barca era ormai pronta a ritornare all’isola, e i bambini stavano aspettando lassù in Austria. E Sandor ci fissava, incerto e terrorizzato sulle decisioni da assumere, gli occhi tondi della paura. La lieve abbronzatura acquisita in quei giorni appariva sbiadita, cinerea. La sua battaglia perduta mostrava maturi i frutti tardivi del pathos: la sua pretesa di frequentare àmbiti celesti mantenendo i piedi ben ancorati nel secolo stava porgendo i suoi effetti esiziali. Le persone sono quello che sono, giurapapé, e non sarà certo un innamoramento  a farle mutare. Pesticciando imbarazzato la sabbia  Manfred si allontanò in direzione del barcaiolo. Sandor lo seguì, il capo chino, riparando vicino ad Ursula singhiozzante d’angoscia, il capo celato nei lunghi capelli troppo biondi. Presso di lei Sandor trovò un rifugio per la propria innocenza e verginità, per quel suo essere creatura d’istinto, incolpevole.

Mi avvicinai per domandargli se avesse qualcosa da svelare. Borbottò che sì. Occhi neri e vividi lo perseguitavano. Una T-shirt gonfia di pelo nero, tra la gente al porto di Venezia. Una sagoma stonata ed inconfondibile, affannata a celarsi scivolando a passetti tra la folla. Lo fissai insinuando un ironico interrogativo, ma egli scosse il capo e guardò cocciutamente il mare.

Per me quella tardiva rivelazione non rappresentò proprio nulla, poiché proprio allora ogni mia remora, ogni indecisione esalarono come per miracolo ed io potei gloriosamente sentirmi crescere dentro un’invincibile determinazione, un fiotto di lieto calore. Così lasciai cadere il mio indumento e al gruppetto di persone ritte sugli scogli gaiamente annunciai d’essere pronto anch’io.

-Addio,- gridò Katja, - saluto quelli che rimangono a terra. Vedo Sandor ... indugia, che aspetta?- Allora Annita si erse e gridò parole come queste:

- I pinne sbahanchète nd’u vente! Sandor non verrà. È atteso altrove. Ha perduto la sua battaglia. Ma voi non esitate!-

 

             Poi si tuffò, allontanandosi con lente bracciate.

 

 

 

 

32

 

 

I piedi affondati nella sabbia, Sandor s’aggrappava alle spalle di Ursula e fissava noi e il mare. Katja s’era tuffata nella scia di Annita e noialtri la seguimmo. L’acqua era tiepida ed accogliente come una placenta. Ci disponemmo a V come uccelli migratori e procedemmo con un pacato ritmo di bracciate, allontanandoci dalla riva senza mai voltarci. Quando fummo abbastanza distanti da non poter distinguere la spiaggetta dov’erano rimasti i nostri compagni ed uno stormo di pesci volanti si dilungò in allegre sarabande attorno a noi, Annita cambiò direzione piegando verso sud. Lì trovammo acque più fresche, e la segreta smania di percorrere alla ventura i sentieri azzurri del mare si accrebbe. Proseguimmo per un lungo tratto, finché Annita s’arrestò e prese a ridere d’un’allegria tanto virulenta da contagiare anche noi, cosicché ce ne rimanemmo a galleggiare a pancia in su, perduti nella nostra felicità.

-Abbiamo finito con le parole!- annunziò Annita nuotando a balzi e immersioni come un delfino: la imitammo ed il mare attorno a noi divenne  campo d’una baraonda festosa di corpi lucenti. Quando arrivarono veri delfini guizzanti e fantasiosi, l’allegria dilagò, mentre sulle nostre teste aleggiavano gabbiani e pellicani invincibilmente attratti da quell’insolita festa acquatica.

Improvvisamente i delfini smisero di saltare ed avvitarsi nell’aria e, come ubbidendo a un segnale, tutti assieme se ne andarono mutando di qualche grado la nostra direzione.

-Può essere l’idea giusta,- ci gridò Annita gioiosamente, e s’avviò nella scia dei delfini. Nuotando, potevamo scorgere i loro dorsi lucidi e frementi emergere, godere l’aria e la luce, e poi reimmergersi scivolando nell’acqua senza provocare spruzzi. Li imitammo e, pur non raggiungendo la loro scioltezza, ben presto ci accorgemmo della docilità con cui il mare ci si apriva davanti, ed il movimento dei nostri corpi facilmente vi s’incuneava traendo energia per il balzo successivo.

 

Intanto l’isoletta dove avevamo abbandonato Ursula, Manfred e Sandor si andava rimpicciolendo e la bruma serale cominciava a renderne meno nitida la visione. Le nuvole, l’isola e tutto quanto non fosse mare andava assumendo contorni vibranti come gli oggetti che ti circondano alle soglie d’uno svenimento: il cielo mutava gradualmente di colore verso ovest, sopra il disco del sole rassegnato a gloriosamente immergersi oltre il vicinissimo orizzonte. Qui il braccio teso di uno dei nostri giovani amici greci ci indicò un punto lontano, proprio nella direzione del nostro procedere. Aguzzammo gli sguardi e fummo certi d’individuare la sagoma d’una nuova isola immersa in un fumigare di vapori bianchi e azzurri. Katja ci guardò ridente, gli ambrati capelli incollati sul capo e sulla schiena nuda. Uno dei giovani greci le accarezzò la schiena: essa socchiuse gli occhi e si ributtò nell’elegante danza acquatica.

Nuotammo a lungo, di tanto in tanto rivoltandoci per riposarci e godere dei colori del cielo. Continuammo finché a est cominciarono a levarsi i cupi turchini della notte, mentre a ponente la gloria dei rossi e dei viola cedeva a lunghe ed estenuate lame gialle e verdi.

A quel punto Witold, trascinato dall’entusiasmo di Bern e degli altri, lanciò un nuovo grido di libertà, s’immerse per alcuni istanti e riemerse dall’acqua ripiombando di schiena allegramente indicando la sagoma scura della nuova isola e gridando che l’avremmo raggiunta in meno di tre ore di nuoto. La sua felicità ci contagiò: ci considerammo quali eravamo, nudi e ridenti, senza nulla da custodire o per cui provare attaccamento, e il nostro compiacimento s’accrebbe: lanciammo anche noi le nostre grida d’esultanza e ci accarezzammo a vicenda i capelli prima di  lanciarci nella nuova tappa del nostro andare.

Ormai attraversavamo facilmente le onde che nel frattempo erano leggermente cresciute: i nostri corpi guizzavano in movimenti apparentemente uniformi, in realtà assai diversi uno dall’altro, a seconda del mutare di posizione delle spalle rispetto all’acqua e di quanto reggesse l’impeto dell’onda amica. Avanti, avanti, trovammo una delle annunciate correnti che ci abbracciò e condusse con energica dolcezza fino in prossimità della costa dell’isola che ora troneggiava nera e ripida nel buio davanti a noi. Qui la corrente si sfece in onde irregolari e noi ci ritrovammo molto vicini l’uno all’altro, felici d’aver conquistato una tal mèta in poche decine di minuti.

Che fare? Il buio avanzava e le onde crescevano in misura e potenza. Uno dei giovani greci ci illustrò le difficoltà ed il rischio d’approdare nel buio fra onde imbizzarrite e rocce taglienti di valve di molluschi: più opportuno trovare un bacino di mare calmo, al riparo dal vento, per passare la notte appisolati nell’acqua tranquilla. Il consiglio ci parve ragionevole e nuotammo in direzione di levante lungo il perimetro dei cupi torrioni che si levavano alti su di noi. Procedemmo con cautela, attenti agli scogli affioranti, finché la costa mutò curvando verso sud, e poco più avanti potemmo finalmente trovare un versante alto e regolare che ci proteggeva dal vento dell’ovest. Qui le onde apparivano rotte e potemmo riposare distesi in quel tepore come fra braccia adoranti.

Nella notte, alcune volte ci svegliammo ritrovandoci sempre vicini, sotto il cielo di stelle grandissime, insolitamente vicine. Allora cercavamo la mano del compagno più prossimo per evitare d’essere separati da eventuali correnti o dalla brezza e poi il sonno ci riaccoglieva. Una volta fu il corpo morbido di Katja a sfiorare il mio ed io, tanto dolcemente risvegliato, rimasi a lungo in quell’incanto difficile da separare da un sogno.

Verso mattina la brezza cessò e quando le rosee dita dell’aurora s’insinuarono nel turchino, ci svegliammo rinfrancati ed allegri. Il sole sorgente ci trovò ancora intenti a nuotare in tondo lungo il perimetro di quella strana isola circondata di densi vapori, di cui non riuscivamo a distinguere per bene i contorni, finché Bern si levò diritto e ci gridò di avvicinarci a terra.

-È inutile girare in tondo attorno a quest’isola che potrebb’essere anche grandissima, alla ricerca di un varco privo di nebbia e vapori. Avviciniamoci invece alla costa e nuotiamo lungo la parete di roccia finché non troveremo spazio adatto a prendere terra.-

Così Annita corresse l’itinerario e nuotò dritto verso le brume che, malgrado la potenza dei raggi del sole, non pervenivano a dissolversi. Per prima s’inoltrò fra quei densi vapori e noi, timorosi d’essere abbandonati, le nuotammo vicini. Procedemmo a lungo fra i vapori finché le nostre teste vennero investite da correnti d’aria fresca e, subito al di là di quelle correnti, ritrovammo il mare luminoso e calmo, non interrotto in nessuna parte da scogli o altre forme stabili, salvo l’ombra maestosa formata dall’accumulo di vapori, che avevamo creduto un’isola.

La sorpresa fu grande quantunque non ignorassimo che a volte la realtà è più curiosa della fantasia poiché questa è creata dalla mente umana, e nel mattino glorioso di luce si levarono i nostri lazzi e le celie; soprattutto deridemmo le nostre simpatiche e svagate guide locali, fin allora credute preparatissime, che s’erano fatte ingannare dalle apparenze d’un cumulo di vapori. Ma disse il buon Witold:

-L’isola vista ieri sera non era certo arbitraria: ieri era reale quanto noi, infatti vi abbiamo nuotato attorno udendo il frangersi delle onde sugli scogli. Ieri eravamo presso l’isola, come oggi ne siamo chissà quanto lontani!-

Ci guardammo intorno e ad ovest, poco più in qua dell’orizzonte, scorgemmo una grande nave diretta verso noi. Allora smettemmo di nuotare per non denunciare la nostra presenza, il capo appena affiorante, finché il vascello sfilò maestosamente a poche decine di metri di distanza. Quando il rischio d’essere scorti fu passato, riprendemmo i nostri giochi e schiamazzi richiamando l’attenzione di una pattuglia di delfini, forse gli stessi della sera precedente, e di alcune grosse razze che volteggiarono con elegante distacco attorno e sotto di noi. Anche uno stormo di gabbiani pareva far festa ruotando sulle nostre teste fino ad abbassarsi a vellicarle, come fossimo navi foriere di cibo facile.

Ormai il sole brillava alto sull’orizzonte. I delfini si esibirono in salti acrobatici che Bern e Witold imitarono nel divertimento generale finché, come richiamati da un dovere o da un appuntamento inderogabile, i delfini smisero di giocare e s’avviarono rapidamente in direzione del sole.

Li guardammo ridendo e ci trovammo d’accordo, ancora una volta, di seguirli verso le cattedrali di luce che torreggiavano all’orizzonte.

 

 

FINE                                                     

 

 

 agosto 1997/ aprile 2002

 

Fine

 

 

"La ragazza che voleva un'isola":
 

H O M E

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