Romano Fea

 

 

LA RAGAZZA CHE VOLEVA UN’ISOLA

 

5

Alcune delle parole scambiate con Annita sono qui trascritte fedelmente grazie alla formazione professionale di Sandor, il quale porta sempre in tasca un piccolo dittafono, col microfono che fuoriesce dal taschino della giacca come una penna stilografica.

Il mattino successivo  trovai Sandor al tavolo della colazione, intento a riascoltare quella registrazione, colla tazzina di caffè ormai fredda sul marmo del tavolino.

-La giovane pitonessa t’ha turbato, vedo.-

-La giovane e, soprattutto, la famiglia che la circonda. In quella famiglia s’indovina un disagio al limite della sofferenza, un malessere che sta galoppando a grande velocità verso il dramma. Sono tutti pazzi, evidentemente. Pazzi smaniosi di ferirsi crudelmente l’un l’altro!-

Per onestà debbo notare che il carattere giocoso ed ilare di Sandor, le sue imprevedibili improvvisazioni creative, l’ossequio che rivolge perennemente alla maestà della risata, non gli impediscono di commuoversi profondamente di presunti coinvolgimenti sentimentali altrui (in specie di donne). Così non mi meravigliai nel trovarlo sentimentalmente intrufolato nelle apparenti questioni esistenziali di quella gente sconosciuta.

Dedicammo la giornata a registrare una nenia della tradizione, cospicua in minuti utili di trasmissione, eseguita da una corale civica in una chiesa cadente; una musica  che, secoli fa, poteva aver donato gioia a qualcuno ed ora, a ben ascoltare, mostrava di non aver perduto qualcuna delle antiche virtù. Verso le fine del pomeriggio riponemmo nastri ed attrezzature in albergo e, scesi al bar, ci fissammo negli occhi sorseggiando un bianchetto.

-Non una bionda e, a completare il quadro, un indovinello letterario!- bofonchiò Sandor.

-I versi recitati dalla chiromante non paiono novità, anche se non saprei a chi accreditarli. Qualcosa che devo aver letto, negli anni lontani. Un qualche classico.-

-Sì. Anche stanotte ci ho riflettuto. Qualche sospetto, nulla di certo.-

-Ci serve un’indagine autorevole. Cerchiamo qualcuno, in questa città deserta di bionde vi sarà pure un professore di lettere. Oppure faremo un’irruzione  alla biblioteca civica.- dissi.

-Per la biblioteca siamo fuori orario. Quanto a professori ci sarebbe mia moglie. Insegna lingue classiche. Letterature latina e greca. È frigida, per soddisfarla devo compiere qualcosa che assomiglia alle sette fatiche di Ercole. Credo d’averla sposata soprattutto perché amava il greco antico quanto me. Forse, a conti fatti, più di me, dato che ha poi deciso di insegnarlo a scuola.-

-Dovremmo telefonare in Austria per una consulenza su queste stravaganze?-

-Come avrai udito, non sono parole peregrine.-

Lo guardai meravigliato.

-Le truffe e le burle si devono far bene. Vado a telefonare.-

Continuai con un secondo bianchetto, mentre Sandor si sbracciava al telefono con Ursula, facendo risuonare più volte vicino al microtelefono la registrazione della voce di Annita.

Quando ritornò da me mostrava occhi tondi di stupore.

-Si tratta veramente d’una donna, caspita. La fattucchiera ha citato una donna antica, come nei miei sospetti. Una poetessa. La più grande dell’antichità e, forse, di sempre.-

-Perdiana! Vorresti insinuare che quella sciacquetta avrebbe citato ...-

-Ha recitato Saffo, in originale o quasi!-

-A tal punto si può arrivare con certi furbetti!-

-Versi di Saffo, non omogenei, forse desunti da diverse composizioni, da documenti non in possesso della cultura ufficiale! Quali stimoli, idee, fantasie potrà accoppiare quella ragazza disorientata con una poetessa come Saffo?- domandò Sandor meditabondo.

-Chissà? Quella ragazzetta disadattata non sembra il genere persona che possa aver compiuto studi letterari. O che dedichi tempo e amore a coltivarli come te e tua moglie. Da come dispone le parole e le frasi nella conversazione normale si direbbe una licenziata dalle scuole medie inferiori. Non di più. Invece appare originale la cadenza, direi il canto con cui recita, diversi da tutte le ipotesi finora tracciate dagli studiosi.-

-Precisamente. Che dire?-

-Non ci resta che passare in libreria e trovare una raccolta dei frammenti poetici di Saffo, poi prepararci a spendere altri danari in quella sordida stamberga d’oracoli. Chissà che non ne esca qualcosa di originale per i nostri emigrati. Qualche novità che faccia inorgoglire il nostro capoprogrammi.-

-Non sperarci! Diffida delle scoperte troppo facili.-

Il curioso nei miei rapporti con Sandor sta nel fatto che, qualunque cosa egli faccia o dica, mai riesce a meravigliarmi.

 

Un’ora dopo eravamo alla porta dell’indovina.

-Che desiderate?- bofonchiò la madre asciutta e cipigliosa, sporta da un finestrotto ornato di pitture estemporanee infantili.

-Una seduta dalla chiromante.-

-Dovrete aspettare. Non è orario. Non è pronta.-

-Aspetteremo.-

Seduti nella saletta potemmo udir nascere lontani lamenti ed implorazioni femminili, dei no, no di tormento se non di pianto, intervallati da frasi esortative in stretto vernacolo locale d’un’altra voce femminile, verosimilmente della donna che ci aveva ricevuti, alla quale la voce  giovane opponeva rifiuti. Qualche minuto di quiete e poi lenti passi s’avvicinarono e la nostra indovina entrò, occhi umidi e guance ancor molli di pianto sotto cipria chiara. Sedette senza una parola e rimase a fissarsi le mani appoggiate al centrino di pizzo sul tavolo dei vaticinii.

In quel silenzio potemmo percepire grida soffocate pervenire attraverso le pareti, un uomo ed una donna molto infervorati e insultanti nello stesso incomprensibile vernacolo di prima, un litigio che si concluse con un’esclamazione di dolore e un pianto soffocato. Fu allora che Annita si scosse, dette un sospiro e la sua  voce dolcemente roca si disse a nostra disposizione.

-Possiamo aiutarti?- disse Sandor.

-Solo con le vostre domande, e andandovene via dopo aver pagato.-

-Ne sei certa?-

-Si, Sandor. Non temete per me. Il mio essere è appagato dalle visioni...-

-Perbacco,- sbottò Sandor rivolto a me,- mi ricorda Lindsay. E mi ha chiamato per nome!-

-Lindsay chi?- gli dissi all’orecchio.

Mi rispose mormorando in tedesco: -Vachel. Vachel Lindsay. Il cantore errante. Puoi ricordare? ‘My breast with vision is satisfied’[1]. È impossibile che la ragazza lo conosca!-

-Aspetto le domande,- disse la giovane.

-Noi ora sappiamo il tuo nome, quello vero, - le dissi.

-Parlate.-

-Chi sei?-

-Solo ... una ragazza che piange.-

Guardai Sandor per gustare il suo stupore nell’aver udito qualcosa arieggiante i versi di Corazzini. Poi trasse un respiro profondo e fu lui a recitare:

-’Tu un tempo eri fanciulla e amavi cantare’[2],- disse con voce tremante, un verso in greco antico, nel dialetto eolico che gli era quasi famigliare per studio e frequentazioni di studiosi tedeschi oltreché della moglie Ursula. Adesso, ripensando a quel momento, mi convinco ch’egli lo fece non solo per gioco o provocazione, ma soprattutto per infliggere alla ragazza una sorta d’esame. Ella non parve sorpresa e rimase a guardarsi le mani immote. La sera calava rapidamente: i colori della stanza andavano smorzandosi, il silenzio locale, fino ad allora sterminato, si caricò di coordinate nel latrare d’un cane lontano e l’insistenza d’un clacson d’automobile.

-...’Ormai la vecchiaia mi dissecca la pelle e il dolore m’avvolge la mente mentre il desiderio se ne vola via da me ...[3]’- continuò Sandor, non conscio di un’imminenza preoccupante che io sentivo aleggiare. In quel timore, sollevai un braccio per fermare il mio amico, ma era ormai tardi. La ragazza s’era rincantucciata in una nicchia di penombra fra due pareti ed aveva rivolto il viso verso di noi, gli occhi sfavillanti: una voce morbida e chiara, con qualche timbro infantile si levò nella stanza.

Ella riparlava una lingua a me sconosciuta e dura da intendere anche per il mio amico, come mi confessò in seguito, ma dolce di cadenze e lunghe vocali, resa con voce cantante che, all’attacco, mi fece pensare  alla vecchia canzone che fa ‘Fior di giaggiolo/ gli angeli belli stanno in cielo a mille’. Il significato delle frasi che recitò, a volte incomplete come se derivassero da cocci d’anfora e consunte tavolette invece che da una dicitrice contemporanea, mi venne in seguito rivelato per faticose trascrizioni in italiano:

 

-Narrano d’una terra

di levante, ove prìncipi sereni

coltivano molli giardini

di vergini costrette.

Narrano che il sole caldissimo

fa lampeggiare orribili uragani

fra gli sguardi di trepide vergini.-

 

-È in funzione il videoregistratore?- domandai sottovoce a Sandor, ma questi stava fissando il vuoto, la bocca aperta e gli occhi sbarrati per la sorpresa, come  stregato. Emerse da quella sorta d’incantamento solo per porre una domanda:

-Che cosa dici? Dove hai imparato i versi che stai recitando?- Ma ella riprese con voce più roca:

 

-Ascolta Temone, io vidi

nel mattino rosato una vela

in conflitto scegliendo fra acqua e aria.

Lontana, non vidi  a bordo pellegrini:

quella prua puntava verso sud

dove terre non sono ...-

 

-Non arrestarti,- gemette la voce di Sandor, e la ragazza continuò come in un soffio:

 

- Teco sorella, nudi i rosei piedi,

corro di lungo il fiume dei cavalli;

la corsa e il riso agitano fronde

in arco sulle nostre trecce instabili:

a bianche ondate irrompono i cavalli

fra i più teneri fianchi di collina.-

 

La porta venne silenziosamente aperta, la testa coperta del fazzolettaccio fece capolino accertando che tutto procedesse con ordine e, nel ritirarsi, un braccio si tese lungo la parete e accese la lampadina elettrica sotto un paralume di pizzo bianco con ricami blu. Noi due ci riscuotemmo, ma Annita se ne rimase muta cogli occhi fissi su  noi e, giurerei, senza mai battere le ciglia.

Minuti passarono ed io mi trovai imbarazzato, fra l’altro temendo il sopraggiungere su tutta quella tensione del bruto intravvisto il giorno prima  . Questa volta parlai io.

-Non avevo mai sentito una voce... come la tua; - ella rimase zitta. -È molto diversa da quella di ieri; anche tu sei diversa,- aggiunsi, persuaso ad incoraggiarla: alcune volte nella vita è necessario abbandonarsi alla follia! Il suo volto s’atteggiò a grande serenità e, seppure non sorridente, assunse una tenerezza imprevedibile in una ragazza tanto giovane, di rudi esperienze, certamente povera di rapporti umani e pienamente emarginata. La sua voce parve arrivare da nicchie celate nella parete di tufo.

 

-Non allodole di sole, ma un tordo

fischiava stamattina verso il fondo dell’orto

ove umide e fitte son le canne.

Laceri suoni segati dalle foglie:

non so chi lo spinse a cantare,

quella è  adesso la mia voce.-

 

Qui udimmo grida d’ubriaco, che s’approssimavano: la donna col foulard rientrò precipitosamente per avvisarci che la seduta doveva concludersi. Pagammo quanto pattuito ed uscimmo rapidamente in strada, ancora sconvolti dalle molteplici sorprese che il caso e l’ostinazione di Sandor ci avevano procurato.

A passo di carica ripercorremmo vie e piazzette immerse nelle prime ombre notturne. Non parlammo se non dopo aver raggiunto le rassicuranti sale del nostro albergo.

 

 

6

 

S’imponeva una riflessione sui fatti accaduti. Sandor giurò sull’impossibilità di un grado di sofisticazione troppo elevato per la modestia delle persone incontrate in quella casa; tuttavia la novità che fiutavamo poteva valere il sacrificio di sottostare a una possibile truffa. Il divertimento era assicurato per qualche giorno e la spesa, peraltro onestamente giustificabile come indagine conoscitiva in vista di un’inedita produzione radiofonica, non esagerata. In aggiunta, di fronte ai rischi possibili con l’energumeno ch’era il  patrigno di Annita, ora che ne eravamo distanti e fuor di pericolo, l’irridente Sandor ostentava sicurezza e, anzi, esuberante allegria.

 

Malgrado attente ricerche, nel volume contenente l’insieme dei frammenti delle poesie di Saffo,  rese in italiano col testo originale a fronte, non riuscimmo a trovare neppure l’ombra dei versi recitati dalla ragazza. In più l’indaffarata Ursula, interpellata telefonicamente più volte anche in piena notte, ci aveva dichiarato e ripetuto che quei versi, ascoltati tramite il registratore, erano recitati in una lingua difficile da precisare; la lingua poteva corrispondere a dialetti antichi delle isole del mar Egeo ma a parer suo i versi non appartenevano a nessuno degli autori greci vissuti prima del terzo secolo avanti Cristo. Propendeva piuttosto per un cocktail verbale, opera di qualche sfrontato e maldestro imitatore, probabilmente nostro contemporaneo. Inoltre, solo in rari momenti quei versi corrispondevano formalmente alla ben nota e celebrata strofe saffica.

Di conseguenza non si sentiva di effettuare un’analisi critica dei versi di Annita alcuni dei quali, tuttavia, non le erano parsi disprezzabili, risultando abbastanza coordinati e senza troppe smagliature. Poteva trattarsi fors’anche d’una ricostruzione fraudolenta effettuata con l’ausilio di mezzi informatici, aveva opinato Ursula, eventualmente fruendo disinvoltamente del recupero d’una qualche tradizione orale pervenuta chissà come, non esclusi i mezzi paratrascendentali invocati dai fautori delle idee innate, come gli odierni neocatecumenali. Di più non disse la voce assonnata della povera moglie di Sandor, fra mugugni di contrarietà perché le nostre improvvide telefonate internazionali continuavano ad interrompere il sonno dei bambini i quali, in piena notte, stavano pretendendo la colazione.

Per noi due sfaccendati, di tutta la vicenda l’aspetto meno piacevole era quello d’apparire, presso la popolazione dei Sassi, la personificazione della macchietta del forestiero gonzo. Della grossezza di chi s’illude di poter acquistare dai venditori ambulanti statuette etrusche e romane predate nottetempo nelle tombe sotterranee. O del candore di coloro che, innamorati, vanno e tornano all’infinito supplicando udienza dalla bella sdegnosa. Tutti i giorni a bussare senza speranza alla porta della chiromante calcolatrice e truffaldina, per pagare lautamente chi, con un semplice artificio di svelta immaginazione, riesce a sbarcare il lunario senza lavorare e divertendosi per soprappiù.

L’idea d’esserci mutati in zimbello per le sapide cronache riportate con gustose ricostruzioni verbali di porta in porta non poteva divertirci,  piacevole che fosse ascoltare le amenità della ragazza. La quale mostrava d’essere quantomeno una buonissima e gradevole attrice e dicitrice, certo meritevole di un palcoscenico più dignitoso di quella casupola tra i ruderi d’una città troppo antica. Un’ottima simulatrice ornata dall’aureola di vittima di quei due energumeni che, con ogni evidenza, non la consideravano se non per sfruttarla.

Nel ripensarci, furono le figure della madre ottusa e rapace e del patrigno autoritario e manesco, a mostrarci quella ragazza come una povera creatura disorientata che in un mito orecchiato a scuola cerca la consolazione per le umilianti violenze giornaliere. Angherie spinte fino al punto di indurla  a prostituirsi.

-Non perdiamoci a costruire castelli fantastici,- borbottò Sandor il quale, da buon  padre di famiglia, mostrava d’essere piuttosto sensibile alle violenze inferte a bambini e ragazzi, -dobbiamo basarci sui fatti. E i fatti in nostro possesso sono: l’incontro con Annita, celata nella parrucca bionda, che tenta di adescarci; l’esercizio d’indovina in cui ella si presenta coi capelli naturali e le sopracciglia, a suo tempo schiarite con l’ossigeno, provvisoriamente ritinte di scuro. E poi un segno d’inequivocabile simpatia e stima: con noi, invece di pronunciare stolte ed improbabili predizioni di fatti futuri, si lascia andare a recitar poesie che pretenderebbero attinenze con i frammenti poetici di Saffo o di altri poeti preclassici.-

 

Tuttavia dovemmo ammettere che la gran parte dell’interesse per Annita derivava dal piccante incontro serale nella piazza di Matera, dal volto di fanciulla ingenua ch’ella sapeva mostrare durante le sedute in veste di chiromante, ma soprattutto dalla bellezza ch’ella assumeva improvvisamente quando la sua bocca s’apriva nella recita quasi cantata di quei versi strani e fuori del tempo.

Quello che ancora non conoscevamo era il reale valore poetico delle composizioni recitate e da noi registrate, per cui Sandor sedette nella sala di soggiorno dell’albergo al centro d’una collinetta di dizionari e grammatiche italiani, tedeschi e greco-antichi, per tentare le impossibili relazioni fra un dire senza tempo e le frasi svagate dei nostri giorni, ossia le traduzioni/trascrizioni dei versi di Annita, per affidarle alla buona memoria del  nostro personal computer.

Fu un lavoro piuttosto coinvolgente: di tanto in tanto m’accadde di scoprire il mio amico intento a fissare il vuoto con occhi di fatica. Alla fine applicò al personal la piccola stampante che noi utilizziamo per inviare alla nostra stazione radio i fax strutturali dei nostri lavori. Ne trasse alcune copie che leggemmo e rileggemmo commentando e sbarcando a più riprese dall’ammirazione alla più recisa esecrazione, e viceversa, fino a conoscere quasi a memoria quelle poesie. Non sto a ripetere i mille quesiti che fiorirono nel mio animo durante quelle letture, mentre mai mi abbandonò, né mi abbandona, il sospetto che il grande amore nutrito da Sandor per i carmi dei secoli della letteratura arcaica, durante le traduzioni abbia inciso profondamente sulla reale consistenza dei versi di Annita.

Il curioso di quella ragazza consisteva nel non calare mai in un preteso stato di rapimento o estasi, come ci si potrebbe aspettare da una simulatrice. Nel clima inaspettato che ella creava con  magia spontanea, erano i piuttosto gli spettatori a sentirsi fuori luogo, noi insomma, coi nostri carichi d’abitudini e prassi giornaliere, incapaci come ci sentivamo di adeguarci a quelle trasformazioni e dislocazioni improvvise.

Non vorrei insinuare che il dire di Annita risultasse sempre neutro e privo di partecipazione od eventuale sofferenza: tali condizioni dello spirito parevano invece ben presenti. Anche così restava stupefacente quel suo sapersi trasferire istantaneamente  da una condizione all’altra senza denunciare sforzo o disagio. La continuità era perfetta, come se la giovane possedesse la curiosa facoltà di vivere contemporaneamente più vite: reale e fantastica, plebea e patrizia, e le relative vicende le appartenessero attraverso i secoli, così potendo passare da una vita all’altra con la facile noncuranza con cui si muta il foulard.

Alla fine della recitazione, quando Annita ritornava quella che noi vedevamo, una mandriana inurbata, giovane ed involta in gravi ristrettezze ambientali, una volta ancora la mutazione risultava istantanea e senza dramma.

 

Presi di curiosità per quel un fenomeno, il giorno successivo passammo alla sede del giornale locale dove incrociammo uno dei redattori. Gli domandammo notizie sulla possibile esistenza di ragazze dotate di visioni e facoltà di pitonesse, illustrando le principali facoltà di Annita, senza tuttavia farne il nome. Il giornalista ci accolse volentieri  in un ufficio d’esemplare disordine, fra cataste di giornali ingialliti ed un computer polveroso.

Egli dichiarò che sì, nel tempo aveva raccolto notizie di rare persone che improvvisamente danno segni di squilibrio mentale recitando lunghe insensate tiritere, a volte in linguaggi incoerenti e altre volte, sebbene più di rado, anche attraverso insiemi di parole o frasi forse ragionevoli, ma sempre di comprensione difficoltosa. E che, tuttavia, nessun elemento di reale interesse era finora emerso da simili estemporaneità. Se un consiglio potesse dare, in conclusione, lasciassimo perdere d’inseguire tracce del genere, che nel sud italiano sono sempre state abbondanti, poiché quei fatti non portano mai a nessun luogo, ma sempre e soltanto a ritrovare la stessa persona che viziosamente recita o vaneggia o s’industria di creare ossessioni e, in qualche modo, s’avvantaggia. Gli porgemmo la trascrizione italiana delle poesie registrate. Lesse attentamente, ma senza avidità; rilesse sollevando a tratti lo sguardo su di noi senza mostrare un filo di sorpresa.

-Questa roba sarebbe scritta da un abitante di Matera?- inquisì con voce ironica.

-Recitata a memoria in greco antico. Dialetto lesbico. La traduzione è nostra.-

Ammise d’essere colpito più dal luogo della manifestazione che dalle composizioni poetiche di nostro interesse: -Che volete, uno studente liceale mediamente dotato potrebbe scrivere interi quaderni di cose analoghe. Di valore quasi nullo, secondo me. Sono velleitarie esercitazioni di studenti, semiaffogati nella palude di interminabili ore di lezioni prammatiche, pronti a qualsiasi gesto pur di sbarcare dalla nave della noia. Nauseati e frustrati dalla vita asfittica che sovente conducono, nel contrasto fra le alte luci degli scritti classici e le ombre addensate sui rapporti sociali! Immaginerete che per una risata liberatoria sono pronti a tutto. Anche a ridicolizzare crudelmente l’eventuale vittima delle burle. D’altro canto mi pare insolito il momento in cui fenomeni del genere, se di fenomeni si tratta, si sarebbero svolti. -

-Ma il giudizio estetico? Come valuta questi versi? Quale poeta classico traspare da quelle righe?-

-Che so, direi Anacreonte di Teos. Che volete? Di nebbie si tratta. Di giochi. Burle. Plagi. Perdite di tempo. Tuttavia...-

-Che cosa?- disse Sandor.

-... mi pare interessante l’idea che sottintende questo materiale. Che è fede nelle idee innate, nella trasmissione ereditaria di parole e concetti.-

Sandor sobbalzò: -Questo proprio no! Quelle sono credenze balzane, inattuali! Materiale relegato negli archivi di storia del pensiero umano, Aristotele, Platone ...-

-Chi lo dice? Vedo che avete presente gli antichi e non avrete dimenticato Cartesio, i ‘semi di conoscenza di Leibnitz’ e la scuola ‘del senso comune’ di Scozia; ricorderete che Dante non ha disdegnato un cenno al Timeo nel quarto Canto del Paradiso. Per non citare la Bibbia, dove gli antichi Profeti vengono riconosciuti in persone viventi dopo secoli. Si tratta precisamente dell’antica convinzione che le idee umane non siano altro che la riscoperta di riflessioni di altre persone da tempo trapassate nel silenzio. Idee che volano come angeli attraverso le generazioni. Per certi versi, un qualcosa di non troppo lontano da un concetto di tempo ciclico, ricco di ritorni. Un tempo consolatorio, che si ripropone all’uomo. Mentre qui noi ci dibattiamo invano nel tunnel di un tempo lineare dove ogni idea, ogni fatto, ogni fenomeno, si ammette disperatamente irripetibile ed unico.-

-Ma via! Oggi quasi nessuno crede nell’eredità di idee! I filosofi, oggi spondati dalle ricerche scientifiche, escludono la possibilità di possedere, alla nascita, delle idee. Al massimo si ammette la possibile eredità di strutture più o meno definite che fanno capo al linguaggio o a talune attività o comportamenti. Abbiamo finito con le favole! Chi può ancora credere alle idee innate? Nessuno che sia sano di mente!- dichiarò  Sandor.

-Invece sì. Qualcuno. Qualche miliardo di persone! In India, Cina, Giappone. Per tutta quella gente il problema sta nel cercare e ritrovare il bandolo smarrito fra morte e rinascita,- disse il giornalista.

-La metempsicosi!-

-Precisamente. Secondo la quasi metà della popolazione terrestre, la conoscenza delle vite precedenti è tutta presente nell’uomo, ma celata dalla mente subconscia che impasta il passato ed il presente. Per farla affiorare occorre...-

-Un guru!- celiò Sandor.

-Ovvero una mente superconscia, una mente chiara.- ribatté appassionatamente l’uomo, che in tale materia esibiva competenze piuttosto singolari per un cronista di piccolo giornale; -si fa pulizia nella mente subconscia e si perviene ad attivare la mente superconscia. E così si recupera la conoscenza delle vite precedenti e delle relative esperienze. Questa è spiritualità, come la vedono gli orientali.-

Sandor mi guardava tra il divertito ed il perplesso, e mi bofonchiò qualcosa circa la mente superconscia d’una ragazzina sventata e repressa come Annita. Ma eravamo affascinati dalla facilità con cui l’uomo riesce a parlare di questioni di sostanza con sconosciuti, piuttosto che con famigliari ed amici. Il giornalista continuò:

-Questi fatti non debbono sorprenderci. Seppure l’occidente non sia povero di menti ascetiche eccezionali, siamo mediamente modesti quanto a spiritualità: al più arriviamo a ritenerla un possibile veicolo di tranquillità, un esorcismo od una consolazione per la sofferenza nelle malattie e l’ineluttabilità della morte. La spiritualità ci chiede, infatti, di abbandonare le certezze della ragione e, tuttavia, di saper continuare a vivere; e questo pare assurdo e impossibile a chi, come noi, dalla nascita viene abbeverato alle sorgenti della ragione. Inoltre, il fatto che la  spiritualità possa fornire contributi alla scienza di  vivere, come pure alla nostra beneamata psicologia, strumenti atti ad avviarle a  percorrere strade diverse da quelle della razionalità, ci lascia increduli e sospettosi. Per un orientale quella è invece una verità succhiata col latte materno. Capirete subito che negli ambienti ove si coltivano quelle credenze, le esperienze corrispondenti a quelle attuate dalla nostra recente psicologia transpersonale, o esperienza delle vette, non rivestono carattere di eccezionalità. -

Se l’avessimo lasciato proseguire l’uomo ci avrebbe condotti chissà dove. Noi agitammo i nostri foglietti ed egli tornò sulla terra dichiarando d’aver voluto confutare, esclusivamente per amore di dibattito la nostra incredulità sulle idee innate. Per il resto non intendeva esprimersi: su certi fenomeni inspiegabili come sui grandi misteri che riguardano l’uomo, la parola risulta sempre insufficiente, se non profana. Un cronista annota e riferisce, ammonì, ed è tanto bravo quanto più omette giudizi sui fatti che osserva. E tuttavia, si dichiarò disposto a darci una mano:

-Se questa cosa l’avete davvero scoperta voi e intendete utilizzarla per farne un servizio destinato alla vostra radio, allora la cosa cambierebbe aspetto, ed eccomi pronto ad affrontare professionalmente l’autore e prepararvi la notizia sul nostro quotidiano in modo da spianarvi la strada.-

Lo pregammo di non incomodarsi e ringraziammo caldamente. Il poco che avevamo saputo ci invogliava a lasciar perdere tutto quanto riguardasse Annita, il ricordo del suo tentativo di prostituzione (ma era poi tale?) e la vicenda delle poesie. E a tornare al nostro lavoro che prevedeva attive giornate di trasferta in campagna nei dintorni di Matera, precisamente nei paesi posti immediatamente ad est del lago di San Giuliano,  Grassano, Grottole, Miglionico e poi su, su fino a Potenza. Parroci e comitati d’accoglienza capeggiati dai sindaci di quei territori ci avevano assicurato un buon bottino di materiale folclorico sonoro, adatto ai gusti del nostro direttore editoriale ed alle orecchie degli emigrati.

 

 

7

 

Tornammo a Matera dopo quattro giorni, di sera, con una discreta provvista di ottime registrazioni, un bottino di qualche ora di trasmissioni. All’albergo ritrovammo le nostre buone camere, sul tavolo riservato del ristorante l’ottimo pane locale e presso il portiere una lettera indirizzata “Al signor Sandor, ciornalista dellarradio.”

Si trattava d’una busta contenente un solo foglietto strappato da un quaderno, laboriosamente riempito di caratteri in stampatello e ripiegato più volte, come fanno i bambini ed i contadini nell’illusione di meglio proteggere i documenti. Il foglietto riportava una semplice frase di delusione ed un auspicio: “Vaspettai e non veniste. Mi maledico per mio carattere cattivo. Viinvito continuare con me lindaggine. Tariffa ridotta. So che non mancherete. Firmato A.”

Consumammo tra pensieri la pignatta di castrato ed il casiddi, e fu solo scucchiaiando le dolci coppette di grano all’ombra del quarto bicchiere di Aglianico,  che dissi a Sandor:

-Quel messaggio ci complica la vita. Da come è congegnato, pare opera della grifagna col foulard.-

-Così penso anch’io. Annita parla abbastanza correttamente. Certo scrive in modo almeno comprensibile.-

-Si torna dalla pitonessa?-

-Si torna.-

La sera successiva ci ritrovammo un poco imbarazzati davanti alla porta dei garofani, a quell’ora di colore tanto vivido da sembrare fluorescenti. La donna del foulard, questa volta sorridente, ci confidò che la chiromante si trovava ‘nu poco sconfitta’ e guidò nella saletta dove Annita stava aspettando seduta e composta, le mani distese sul centrino di pizzo. Alla sua sinistra, due bicchierini accostati a una bottiglia di liquore azzurro: evidentemente era stata predisposta un’accettabile accoglienza, nella speranza di cancellare la brutta impressione fornita nell’ultima seduta e così mantenere gli incassi. Effettivamente Annita non pareva di buon umore e ci accolse fissandoci con certa freddezza: notammo il suo estremo pallore, gli occhi cerchiati di scuro, come avesse pianto o vegliato a lungo.

-Che si dice?- aprì goffamente Sandor.

-Sta bene?- domandai io.

-Sono pronta a rivelarvi le cose del futuro. Chiedete pure.-

-Preferiremmo viaggiare nel passato,- disse Sandor che, non visto, aveva azionato il magnetofono tascabile.

-Come volete. Il passato di chi?-

-Di Eumea,- disse l’improntitudine di Sandor. Ed ecco: nell’aria umidiccia della camera, una volta ancora il miracolo si ripeté. Annita parve distendersi: s’appoggiò allo schienale della sedia e la sua voce parve giungerci non propriamente dalla sua bocca, ma da mille bocche in cui si fossero repentinamente fessurate le pareti della stanza; pareti che, d’un tratto, avevano perduto la loro lucentezza di bianco e azzurro, come se una nuvola di temporale avesse coperto il sole, o le ombre della sera avessero cominciato ad aggredire la valle.

 

-Tenera Eumea di guance maculate

di resina, di dolce sudore della corsa,

mai tu vedesti il mare, canti,

che sia mare forse intendi

cercando nel tuo cuore

gonfio di caldissimo sangue

gli spiriti ridenti e quelli mesti

in notti cupe e lunghe albe di pioggia.-

 

Mi sfuggì un’imprecazione di meraviglia, tanto appariva improbabile un’immediata corrispondenza fra la composizione poetica recitata ed il nome proposto da Sandor. Così non potei tergiversare e domandai alla ragazza notizie sulla sua vita negli anni prima di Matera.

Ella si scosse, appoggiò le mani sul pizzo e ci parlò quietamente. Apprendemmo ch’era nata sulle montagne di San Chirico di Rapara, non lontano dall’abbazia di sant’Angelo, in vista delle Murge di Sant’Oronzo. Da bimba aveva fatto la pastora, con i genitori. Perduto il padre in un incidente di lavoro il giorno in cui ella compì i dodici anni, con la madre dovette lasciare l’affittanza finendo, dopo mille traversie e molta fame nella casa di Pasquale, l’uomo da cui la madre s’era lasciata indurre alla convivenza. La casa che in quel momento ci ospitava.

-Non mi basta.-

-Volete sapere altro?-

-Altro sulla tua vita. Studi, incontri. Dove hai imparato le cose che dici.-

-Le chiromanti non raccontano le proprie storie personali. Rivelano quelle degli altri! Ben presto  Pasquale si mostrò d’indole esageratamente puntigliosa e violenta, e noi due donne finimmo per diventare  sue schiave. Questa è la solita storia di certe femmine del meridione italiano, che non sanno come liberarsi  ...-

Ammutolì, gli occhi colmi di lacrime.

Parlò Sandor: -Cosicché la sera in cui t’abbiamo incontrata in piazza, colla parrucca bionda...-

-Non fatemi aggiungere altro, siate buoni!-

-Era stato lui ad obbligarti?-

-Non chiedetemi altro di questo, è troppa pena. Studi compiuti, dicevate? La media inferiore e qualche po’ di frequenza alle magistrali. Non altro.-

-Libri letti?-

-Quelli che vedete nell’armadio. Romanzi rosa, fumetti d’avventura.-

-La nostra curiosità, avrai capito, deriva dalle poesie che reciti in lingua greca antica, come se in quei momenti, smessa la personalità d’Annita, tu diventassi un’altra donna. O, almeno, tendessi ad interpretare quella donna. Tu mostri di saper adoperare con facilità una lingua antica, come si favoleggia di alcune rare persone di queste terre che nulla conoscono di quanto vanno dicendo, mentre taluno fra gli ascoltatori scopre trattarsi di casi d’interesse eccezionale. Che so, ragazze trascurate, vecchi emarginati ed illetterati, che improvvisamente recitano antichi versi greci o aramaici. Dimmi, tu sapresti tradurre in quel tuo greco antico una frase qualsiasi, come “chiedere non è peccato”?-

-”L’addimannà nun è peccato...” non so che dirvi.-

-Conosci altre persone capaci di recitare poesie simili alle tue?-

-Non saprei. Forse sì: sì, qualche pastore. Sulle montagne se ne parlava. I miei anni più felici sono stati quelli vissuti lassù con mamma e papà, curando vacche e vitelli. Vivevamo in capanne di pietra e fango chiaro. Avevamo due tori potentissimi. Rammento una per una le notti passate alla veglia, controllando dal nervosismo delle bestie il sopraggiungere di qualche selvatico. I miei sguardi timorosi nel fondovalle dove l’estate brillano i fuochi fatui. Nel buio, la voce di mio padre ci accompagnava e tranquillizzava. Potevamo non vederlo ma, pur lontana, la voce sommessa di papà ci confermava ch’egli era sveglio e pronto a proteggerci, se necessario. Ed a svagarci, se mamma ed io ci trovavamo annoiate o sperdute.-

-Che diceva tuo padre? Canticchiava canzoni di pastori?-

-No, parlava. Raccontava sempre qualcosa, storie appassionanti che non finivano mai, notte dopo notte. Qua e là quelle narrazioni risultavano spaventose, terribili. Sapeva evocare mondi nuovi e sempre diversi in cui noi donne potevamo entrare e vivere. Mondi di dimenticanza e felicità da vivere pienamente, istante per istante. Sovente parlava senza interruzione una lingua sconosciuta, lingua che a lungo mi provai ad imparare accostandola alle mie esperienze, una lingua ch’egli mai m’insegnò e mai più udii ripetere da altri, fino a quando non arrivaste voi due!-

 

 

8

 

-Mio padre morì d’una disgrazia. Schiacciato da un trattore ribaltato mentre scassava un angolo di terra fonda. Assistei alla sua agonia mentre la mamma correva alla borgata cercando uomini per estrarlo da sotto le lamiere roventi. In tutto quel tempo d’attesa egli sempre parlò dicendomi cose affettuose ed intime, alcune nel nostro dialetto, altre in quella lingua sconosciuta e quasi incomprensibile.-

-Quasi?- disse Sandor.

-Qualcosa m’accorsi di poter intendere: verità già presenti e vive dentro me, soltanto da tirare fuori. Parole ed idee poi cresciute e fermentate, dopodiché è stato come le avessi chiaramente conosciute da sempre.-

Immobile come una statua, la ragazza guardava la parete bianca di calce, mentre noi cercavamo parole per alleviare il dramma che viveva non attenuato dal trascorrere degli anni e l’accavallarsi delle miserie. Sandor trasse di tasca il libro dei reperti di Saffo e lo sfogliò.

-Posso leggerti un pezzo di questo?-

Annita non rispose. Sandor lesse qualche riga dal testo originale greco della lirica “Simile a un Dio mi pare / chi ti siede di fronte...”. Ella si scosse e pose molta attenzione alla lettura, finché Sandor le domandò se potesse rammentare qualcosa di quei versi, qualcosa di già udito altrove, per esempio fra i monologhi del padre.

Accennò col capo, ma rispose con una breve recitazione, in quella lingua che già avevamo udito e che il genio di Sandor poté in seguito trascrivere, passando attraverso il tedesco, nel suo italiano un po’ scolastico e ridondante appreso da insegnanti di madrelingua italiana delle scuole austriache:

 

-Vergine Euterpe, canti?

Tacita Saffo, muori?-

 

-E altro, e altro?- insistemmo ad una voce Sandor ed io appena ella terminò.

 

-Molto soffersi, giovinetta in Lesbo:

ancor ne reco i sensi affinati.-

 

Ancora silenzio profondo, questa volta protratto a lungo. Tanto che, preceduto da un lieve bussare, il foulard della madre fece capolino tra porta e stipite e, accertata la regolarità della situazione, si ritirò.

Dissi: -Capisco ciò che tuo padre poté essere per te. Così come ti trovavi, isolata sulle montagne, egli rappresentava colui che sa fare, trasformare, incidere colle parole nel minuto e negli anni. Sei abbastanza matura perché ora io possa dirti la tua fortuna, e la sua, d’averlo tenuto fra le braccia mentre moriva.-

Calava davvero la sera e la scrutai: non altro che lacrime, ferme come congelate, alle sue ciglia.

 

-Vivono i morti nelle grotte oscure

vivono i morti fra nostre memorie

e le nostre memorie sono grotte oscure.-

 

Lasciai che parlasse l’amico Sandor. Io rimasi a governare un improvviso groppo in gola: -Ma tu, Annita, riesci a capire quello che vai recitando? Intendi quello che dici? Puoi darti una spiegazione di quanto t’accade quando ripeti le tue poesie? Sei conscia di conoscerle, oppure ti sgorgano da nicchie mentali che neppure sospetti?-

-Ti voglio bene perché hai parlato le parole di mio padre,- disse Annita a Sandor, e gli sorrise. Sandor le accarezzò la mano ch’ella teneva sul tavolo. -Recita una delle tue poesie, una lieta, prima di mandarci a casa,- le disse.

 

-Simile a un dio, tra il sonno della notte,

un viluppo di canti mi ghermì

e i cieli domai dal carro di fuoco.

Ora, dolente, oppressa,

scruto nuvole informi

più non trovando i suoni e le cadenze.

Quella del sonno fu la vera Saffo?-

 

-Sei stata tu a scriverci quel biglietto all’albergo?-

-Non ho scritto biglietti. Non scriverei mai a uomo che non sia parente.-

Disse Sandor: -Sai, Annita, noi dobbiamo partire, tornarcene al nord, a casa. Il nostro lavoro in Lucania è praticamente finito. Non verremo più da te.-

-Quando partirete?-

-Col treno di domani sera. -

-Capisco,- mormorò con voce neutra.


 


[1]VACHEL LINDSAY, nato a Springfield, Illinois, il 10 novembre 1879. Morto suicida il 5 dicembre 1931.

[2]SAFFO , frammento 27. N.d.C.

[3]SAFFO, frammento 21. id.

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"La ragazza che voleva un'isola":
 

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