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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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ANNI DI ASPRE BATTAGLIE
 

Durante i lavori per la costruzione dei palazzi di Capannelle l’Impresa Fradusco si era assicurata terreni edificabili per la sua futura attività. Da Lamberto Micangeli era passato in proprietà della nuova società “La Stella del Sud” un’importante area compresa fra viale Cortina d’Ampezzo, via della Mendola e via San Zeno.

L’edificabilità, stabilita dalle norme urbanistiche vigenti contenute in una precisa Convenzione stipulata tra il Comune di Roma e gli aderenti al Consorzio dell’Acqua Traversa fin dal 1931, consentiva di fabbricare su quell’area diciotto palazzine. Per la progettazione fu attivato lo Studio dell’ing. Aureggi. La preparazione andò a rilento. Fu presentato alla XV ripartizione per l’approvazione, appena pronto, il progetto per la costruzione dei primi quattro fabbricati, quelli prospicienti viale Cortina d’Ampezzo. Il progetto fu approvato e il Comune rilasciò la licenza edilizia. Nel tempo che intercorse fra la presentazione degli elaborati tecnici e della documentazione per gli altri quattordici stabili e la loro approvazione, spinte corporative, accondiscendenze politiche e interessi del tutto particolari, anche locali, calarono la scure sulle possibilità edificatorie del territorio consortile. Scattarono le norme di salvaguardia e tutta la zona dell’Acqua Traversa rimase bloccata.

Intanto, però, i lavori delle quattro palazzine approvate erano iniziati e procedevano fra nuove difficoltà non sempre prevedibili.

Peppino Fradusco mise in conto che bisognava prepararsi a sostenere nuove battaglie.

Per seguire più da vicino l’azienda e per disperdere minori energie in percorsi sempre più difficili da effettuare, gli uffici dell’Impresa furono portati vicino alla casa di Peppino, in via Tolmino al quartiere Trieste. Fu un modo per sottrarsi anche ad attenzioni ormai troppo facili di carattere ambientale.

Negli anni della grande buriana nelle Università si erano intanto laureati in Architettura i primi due figli di Peppino, Tonino e Luciana. Tonino già si preparava ad esercitare la professione dedicandosi a compiti tecnici in cantiere, sotto la guida particolare di Claudio Bonanni e forte dell’esperienza che il padre gli aveva fatto fare negli anni del corso universitario.

Nel frattempo lui e Luciana avevano allestito insieme lo studio tecnico per essere pronti a collaborazioni più importanti legate strettamente al futuro dell’Impresa.

Peppino era orgoglioso per i primi risultati concreti della sua scuola di vita e dell’incidenza che la sua vigilanza e gli interventi materni della signora Mariannina mano a mano si rivelavano preziosi nel corso degli studi dei ragazzi.

La famiglia rimaneva costantemente al primo posto nei suoi pensieri e nell’indirizzo delle azioni, anche se era lecito supporre che il fervore continuo del lavoro e dei problemi connessi potesse allentare qualche rapporto. Invece, il legame rimaneva sempre saldo man mano che i figli crescevano. Ma la solidità delle relazioni dentro le mura di casa faceva crescere paure nuove, timori non ingiustificati di insicurezza nel marasma che era scoppiato all’esterno e che avrebbe potuto provocare pericoli contro cui non trovare difese.

Per questo la parola d’ordine del sergente Giuseppe Fradusco continuò ad essere, con più motivazioni e più insistenza: agire il più possibile senza clamori, fuori dei cori assordanti e delle pose boriose, prudentemente ridimensionati.

Gli avevano offerto un terreno edificabile nella zona industriale accanto alla stazione di Pomezia. Con la possibilità di ottenere gli usuali contributi a fondo perduto della Cassa del Mezzogiorno.

In quel periodo non era ancora invalso l’uso snobistico di indicare il termine “affare” con un vocabolo inglese; ma l’acquisto di quel terreno sarebbe stato definito un vero “bussines”.

Una mattina Peppino mi fece salire sulla Mercedes, diretti a visitare il posto. Che ci apparve persino migliore di quanto ce lo avevano magnificato, perché sulla collinetta subito di là della linea ferroviaria per Napoli soffiava un venticello leggero dalla parte del mare di Ardea, che aveva spazzato via anche qualche residuo di nuvole.

Al centro del terreno c’era una cascina. Quando scendemmo dall’auto fummo circondati da un’intera famiglia di pastori sardi che occupavano la casa e i campi dove un gregge numeroso pascolava al sole.

Noi pensammo subito all’entità di una buona uscita da versare, oltre il prezzo per l’acquisto. Ma quella si rivelò una preoccupazione inutile. Il capo famiglia fu chiarissimo: quella sua comunità sarebbe rimasta a custodire l’ovile e a preparare formaggi, anche a costo di qualche iniziativa fuori della legge. In dialetto sardo, ma ben comprensibile, la fine del discorso del pastore fu: “ogni padre ha da difendere il bene dei suoi figli a modo suo con i mezzi che tiene!”. L’atteggiamento degli uomini che lo circondavano, coriacei e dallo sguardo tagliente, non diceva niente di diverso dalle sue parole.

Durante il ritorno al cantiere, Peppino era di umore nero. Disse poche parole. Mi domandò:

“Che ne pensi?”

Cosa potevo suggerire? La ritirata non è sempre l’inizio di una operazione da sconfitti.

“Gli preme di più l’azienda o la famiglia?”

“Allora hai capito esattamente quello che ho capito io!”

Dopo qualche mese sapemmo che un importante costruttore romano, strafottente e privo di scrupoli, aveva comprato il terreno.

A distanza di qualche tempo i giornali raccontarono che qualcuno aveva rapito sua figlia, restituita dopo lunghe trattative e congruo riscatto. Il caso volle che dopo un altro intervallo di tempo venisse sequestrato lui stesso. Si parlò di possibili operazioni compiute da pastori, interessati più ai ricatti che alla custodia del gregge.

Nei giorni della costruzione dei palazzi di via del Calice si erano allentati i rapporti dell’Impresa Fradusco con la Banca Nazionale dell’Agricoltura. Non c’era assolutamente soddisfazione per la contabilità che veniva presentata trimestralmente dagli uffici di via del Corso e che, regolarmente, dovevo provvedere a correggere. Da parte dell’Istituto c’era regolarmente il tentativo di scaricare su singoli funzionari la responsabilità dell’evidenza degli errori. Si andava incrinando lo specchio di una fiducia che aveva resistito per quasi venti anni. Peppino non scelse di sostituire quella Banca con diverse altre, come allora andava di moda per tenere agganci da più parti.

Invece, gradatamente, trasferì tutta la gestione finanziaria presso la sede romana della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, in via delle Quattro Fontane.

Il “commendator” Fradusco diventò subito di casa al primo piano dell’antico palazzo, dove presso la Direzione si prendevano le decisioni importanti. Lui continuava la sua manovra ormai consolidata: quella di farsi valere perché padrone dei propri mezzi finanziari, senza far pesare la circostanza.

La collaborazione diventava evidente con le continue manifestazioni di amicizia che Peppino si conquistava da parte dei vari Direttori man mano succedutisi: Gianpaolo

Rugarli, il Dott. Sales, Gianfranco Testa... Lui frequentava volentieri l’ambiente della Sede perché vi incontrava stima e rispetto. L’unico neo che lo infastidiva era dato dal fatto che doveva compiere ogni volta tre o quattro manovre quando tentava di infilarsi con la Mercedes da via Rasella nel parcheggio interno, dove aveva un posto riservato... Ma compensava il fastidio scambiando poi simpatiche battute in napoletano con il commesso addetto alla guardiola. Lo rasserenava già il poterlo apostrofare: “A’ bbellezza nostra!”

In quel periodo, e in modo più continuo durante le lavorazioni di via Cortina d’Ampezzo, cominciò in ufficio la formazione di Roberto, il terzo figlio, che intanto frequentava la facoltà di Economia e Commercio. Il disegno di Peppino si delineava con precisione: in un’Azienda, nata come ambiente di famiglia, le capacità di conduzione dovevano essere assorbite dall’interno in tutto il campo di azione: per le mansioni creative e tecniche si erano preparati i due figli architetti, per la copertura amministrativa si stava preparando con la pratica d’ufficio un figlio che sarebbe diventato esperto di finanza e di commercio. Mancava l’occupazione della zona di movimento dei problemi legali, che si profilavano con più insistenza. Per questo, Peppino pensava già allora che in quel campo avrebbe potuto cimentarsi il figlio minore, Fabio, che già mirava alla facoltà di Legge nei primi anni del Liceo al San Leone Magno.

Peppino era soddisfatto della piega che stavano prendendo le tendenze dei figli nei confronti dell’Impresa e della possibilità che gli sarebbe rimasta tra le mani per incidere con l’esempio e le sollecitazioni sulla maturazione culturale e professionale dei ragazzi. Sperava persino di trovare il modo per inserire in Azienda, in un futuro più tranquillo, la giovane Rosella che, invece, mostrava di voler seguire strade diverse più congeniali.

I figli, da parte loro, conoscevano la fatica di seguire il padre nelle sue richieste di sacrificio costante e di inflessibilità rispetto ai principi che l’avevano sempre guidato. Dovevano talvolta sopportare le sfuriate che esplodevano quando lui non era convinto della loro applicazione e della partecipazione.

Il periodo fra il settantatre e il settantotto fu particolarmente impegnativo e duro per l’andamento dell’Azienda. E non per il ripresentarsi di una crisi economica, rituale nei brevi cicli dell’ambiente edilizio romano; ma per le giornate sempre più ostili per Peppino e Giovanni all’interno del cantiere. Si profilava la condizione di dover sostenere

una lotta più sorda e violenta di quelle del tempo di via del Calice. Ogni giorno. A cominciare dall’incuranza degli operai, in buona parte nuovi assunti, nei confronti della presenza dei due fratelli sul posto di lavoro, quasi un rifiuto ostentato per voler affermare preminenze e rivendicazioni fuori di ogni logica, a finire con lo scontro oltre i limiti di ogni norma di comportamento, che si rendeva pratico nello svolgimento caotico di nuovi schemi per gli incontri nelle assemblee, oppure nella sfacciataggine delle minacce che alcuni dei dipendenti più esasperati non risparmiavano nei confronti di Peppino. Il quartiere della loro provenienza, quello di Primavalle, era caratterizzato in quegli anni dagli scontri fra estremisti mai soffocati, nella strategia di una lotta aperta tra fazioni sociali esasperate.

Stava cedendo la resistenza di Fiorello, che non si ritrovava più nel ruolo di chi doveva esercitare il controllo e lo stimolo per il modo di lavorare degli altri, i quali sistematicamente gli negavano la possibilità di agire con riflessione e serenità.

Stava esplodendo la rabbia di Giovanni, che non resisteva oltre al clima di asfissia costante che si andava producendo in cantiere. E, da parte di Peppino, maturava la decisione che bisognasse cambiare radicalmente metodo di confronto e instaurazione dei rapporti fra le parti, per non finire come molti imprenditori, che avevano chiuso cantiere e uffici aspettando tempi migliori, stretti fra la complessità della crisi e l’incertezza del domani.

Si discuteva fra noi, ogni volta per molto tempo; e ogni volta si arrivava alla conclusione che, finito il primo cantiere dell’Acqua Traversa, si dovesse arrivare a decisioni drastiche e definitive.

Era come dirsi: prepariamoci, soprattutto mentalmente, a caratterizzare il lavoro di Impresa con altre strategie, pur mantenendo la connotazione di Azienda che doveva continuare i lavori come Ditta privata intenta a produrre e vendere secondo le esigenze dei privati.

Successe per questo che negli anni dal settantotto all’ottanta, terminati i lavori per i quattro fabbricati su via Cortina d’Ampezzo e in attesa della soluzione dei caotici problemi relativi all’utilizzo del terreno bloccato dalla burocrazia e dai cavilli, dalle prese di posizione e dalle azioni dilatorie del Comitato di quartiere e di Italia Nostra, fu smantellata l’intera attrezzatura di cantiere, fu licenziato tutto il personale e l’Impresa si predispose a studiare nuove problematiche, ad affrontare nuove presenze quali contro parte, chiusa provvisoriamente nell’ambito più sicuro delle quattro stanze dell’ufficio di via Tolmino.

Andò perduto qualche contatto, finì qualche collaborazione, come quella preziosa di Fiorello; e venne un tempo di più ponderate decisioni. Ma si guadagnò molto per un certo ritorno alla serenità, indispensabile peraltro per affrontare e portare a termine l’operazione delle vendite frazionate del complesso di via del Calice alle Capannelle, dall’ottanta in poi. Sul quale per Otto anni aveva vigilato con dedizione e impegno Corrado Marchesini, altra “scoperta” di don Peppino.

 

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