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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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CAMBIAMENTI
 

La malattia improvvisa e inaspettata di Roberto mutò qualcosa nel profondo della personalità di Peppino e ne modificò almeno in parte il carattere. Alcune sicurezze diventarono ipotesi, alcuni atteggiamenti da guerriero indomabile, anche nei rapporti privati, subirono cambiamenti dovuti all’improvvisa comparsa di cautele, che non erano determinate più da convenienze studiate ma dalle vicende della vita di tutti i giorni. Davanti a certi casi — scelte o destino — anche a Peppino appariva chiara la novità dell’impotenza e del rifugiarsi necessario nella speranza.

La gravità della situazione clinica di Roberto apparve evidente subito dopo il ricovero a Villa Margherita la sera del rapimento dell’onorevole Moro.

Per tutta la famiglia Fradusco le vicende pubbliche di quei giorni non contarono più di un fatto lontano. C’era una sola preoccupazione, una sola paura costante, un impegno oltre ogni limite e un filo di fiducia che si allungava o si accorciava senza continuità. Ogni giorno si attendevano le notizie dai medici come un bollettino di guerra.

Peppino era smarrito, incredulo, impotente, colpito senza armi con cui opporsi e resistere. Forse la signora Mariannina era più certa di lui della guarigione del figlio. Intuiva come le madri. Oppure lei sapeva nascondere meglio la pena che la teneva trafitta ogni giorno.

Fino a quando, dopo gli interventi di grandi luminari romani, inutili per mesi, la gravità del quadro clinico fu affrontata dal Prof. Bismouth. Peppino accompagnò il figlio a Parigi e vi restò ad assisterlo insieme a Luciana, mentre il resto della famiglia e dei parenti continuava a trepidare a Roma.

Quando Roberto tornò dalla Francia era sulla via della guarigione. Ma il padre si portò dietro, addosso, tutti i segni della batosta. Per molti mesi.

Man mano che si andò esaurendo l’utilizzo dei terreni edificabili nelle zone di completamento fissate dal Piano Regolatore del sessantadue e dalle varianti successive, a Roma si prospettò la necessità di affrontare il problema dell’espansione della città in un territorio completamente neutro, rubato in gran parte all’Agro romano.

La mancanza di ogni sorta di elementi di urbanizzazione effettuata, come strade, collettori, depuratori, linee elettriche, condotte per il gas e l’acqua, dettò le nuove regole di associazionismo spurio che fu costituito essenzialmente dalla creazione dei Consorzi comprensoriali.

Acquistare un terreno nelle cosi dette Zone E delle nuove periferie costituì tra gli anni settanta e gli ottanta un altro coraggio estremo per gli imprenditori che non miravano alla speculazione sulle aree ma agli investimenti aziendali. Chi lo fece si trovò invischiato nei tralci di una burocrazia ramificata al massimo per l’intervento nelle operazioni edilizie delle innumerevoli cooperative prive di risorse. Molte delle quali, nell’euforia del momento favorevole, erano nate per fini di facile lucro e perciò da iniziative e furbizie estranee alla mentalità pratica di quanti si erano fatti le ossa nell’industria del mattone e, ora, si trovavano a combattere con la faciloneria degli ultimi arrivati alla greppia dei facili guadagni. La dispersione della rappresentanza e l’impersonalità delle responsabilità favoriva manovre poco convincenti e ritardi rilevanti nell’esecuzione dei programmi.

Anche Peppino Fradusco ebbe ad affrontare questo problema per la sua Impresa. Che consisteva nel portare alla condizione di edificabilità prevista dalle norme d’attuazione del Piano Regolatore comunale il terreno acquistato nel Comprensorio del Torrino sud all’Eur dall’ultima società costituita con il fratello Giovanni, la “Santa Lucia”~

Rendere quell’area, occupata da un contadino che vi pascolava mucche e pecore, pronta per l’utilizzo edilizio comportò un lavoro paziente durato alcuni anni. Realizzare le opere di urbanizzazione primaria costosissime, nell’ambito di un Consorzio nel quale la maggior parte dei partecipanti erano a corto di mezzi, oppure li attendevano dall’accumulo lentissimo delle quote dei soci delle cooperative, fu come giocare una interminabile partita a scacchi, attenti a negare con decisione finanziamenti anticipati richiesti parzialmente a chi disponeva delle risorse necessarie.

Fu l’inizio di rapporti infinitamente stressanti con chi studiava di poter arrivare a qualche risultato instaurando un sistema di confronto basato soltanto sulle chiacchiere e sul potere del cavillo.

Peppino resistette bene ai fiumi di parole, ai rimandi ripetuti; fece valere il peso dei propri mezzi finanziari; si barcamenò diplomaticamente quando sembrava che le proposte avanzate portassero fuori bersaglio. Fin quando il Consorzio arrivò al punto di poter affrontare con successo l’esecuzione delle opere.

Allora si trattò solo di controllare discretamente l’operato degli organi esecutivi.

Intanto Aureggi, Bonanni e Tonino Fradusco avevano portato all’approvazione il progetto per le sette torri di via del Fiume Bianco; e preparato i calcoli per le strutture in cemento armato e i progetti esecutivi. A via del Fiume Bianco Tonino esordì come Direttore dei Lavori.

L’Impresa Fradusco non aveva ormai né attrezzature né mentalità per eseguire le opere in economia. Ma era rimasto appiccicato alla persona di Peppino il bisogno di respirare l’odore acido della calce e del cemento, l’asprigno della ruggine sulle barre di ferro, di coprirsi di polvere, di infangarsi le scarpe in cantiere.

Così, affidati in appalto i lavori per l’esecuzione delle strutture all’impresa di Sergio Rossi e Gigetto Procaccini, il costruttore continuò da mattina a sera la sua vita tra gli operai e i tecnici sul posto di lavoro.

Forse anche per questo contatto personale le relazioni tra committente e appaltatore, che si stabilirono per anni tra Peppino e i titolari di quell’Impresa, furono decisamente differenti da quelle consuete.

Rossi e Procaccini avevano messo in piedi una buona struttura e possedevano ottime capacità di mestiere. Ma uscivano con le ossa rotte da vicissitudini poco favorevoli, invischiati nelle conseguenze del fatto di aver eseguito lavori di buona importanza per le società di un grosso imprenditore capitolino, senza aver potuto raccogliere qualche frutto e con poche speranze di raccoglierne in futuro. Trovarono la salvezza dal rapporto che poterono rendere solido con Giuseppe Fradusco e con le risorse economiche della sua Impresa, mano a mano che si consolidò una collaborazione andata avanti per quasi dieci anni.

Nell’ottantadue Giovanni Fradusco aveva compiuto settantatre anni. Gli ultimi, dedicati al cantiere fino al settantasette, l’avevano stressato fortemente con poca possibilità di ripresa fisica; e l’avevano nauseato.

Si erano manifestati i sintomi di una pericolosa cirrosi alla quale, peraltro, il vecchio leone non intendeva dare peso. Ogni volta che io avevo modo di fare un salto in Val di Chiana a trovare mia madre facevo tappa a Chianciano da dove lo rifornivo di un certo numero di bottiglie di amaro medicinale, cui lui attribuiva virtù mirabolanti per la cura dei suoi malanni. Naturalmente il dottor Cannizzaro, che lo aveva in cura da venti anni, non doveva immaginare niente di tutto questo!

Giovanni si sentiva ancora forte e lucido, ma pensava che non gli facesse male godersi un po’ d’anni da pensionato eccellente!

Aveva continuato a coltivare la propensione ad accrescere la proprietà immobiliare personale e per i figli; Peppino lo aveva assecondato ogni volta che lui aveva desiderato acquistare qualcosa di nuovo, spostando la sua attenzione alla zona dei Castelli romani.

Considerato poi che la nuova struttura dell’Impresa rendeva meno necessaria la sua opera in presenza del diverso rapporto fra proprietà e appaltatori, Giovanni pensò bene di ritirarsi dall’attività e di predisporre piano piano la definitiva sistemazione della famiglia: sperava di avere ancora tempo a disposizione per questo; e non si sbagliò.

Peppino seppe soddisfare, senza rammarico o problemi, anche questa decisione del fratello.

Fu stabilita la cessione della “Santa Lucia” - le sette torri di via del Fiume Bianco -, non appena i fabbricati furono completati nella struttura.

Si avviò una disastrosa trattativa con un noto costruttore romano nell’estate dell’ottantadue, nei giorni dei campionati del mondo di calcio. Un tira e molla senza costrutto; finché fu chiaro al nostro ufficio che, senza mezzi da parte di chi voleva assolutamente comprare, Peppino non intendeva certamente vendere. Saltata la trattativa, nel settembre dello stesso anno la “Santa Lucia” fu ceduta a una società di un importante gruppo industriale.

Qualche tempo prima era deceduto il commercialista di fiducia di Peppino, il dott. Serafino Cesare. In frangenti come quelli della vendita dei manufatti del Torrino sud la sua illuminazione sarebbe stata di molta utilità. Ma una buona memoria talvolta risolve i casi e aiuta concretamente. Anni indietro, parecchi anni, avevamo conosciuto proprio nello studio del dott. Cesare un giovane Ragioniere, Gino Paparelli, per il quale il vecchio amico aveva espresso a Peppino un vero apprezzamento, prevedendone sicure affermazioni professionali.

Dalla vedova del dott. Cesare fummo informati che il giovanotto si era laureato in Scienze economiche quando ancora frequentava lo studio del marito e ne era diventato

l’anima. C’era da immaginare una continuità, fortunata per noi, tra la serietà dell’antico studio di via Cavour e l’efficienza di quello attuale e moderno, che il giovane laureato aveva aperto da poco.

Così il nuovo commercialista dell’Impresa di Peppino Fradusco fu da allora l’amico Gino Paparelli. Ogni volta, tra lui e Peppino, bastavano poche parole per interpretarsi e intendersi, fino da quando egli lo assistette con decisione nelle trattative saltate per la “Santa Lucia” e, poi, per quelle concluse.

Per Peppino, un altro prezioso tassello inserito nel quadro della propria attività.

Io fui assente dall’ufficio nel periodo compreso tra novembre dell’ottantadue a settembre dell’ottantatre.

Roberto, comunque, dopo la sua convalescenza era tornato da tempo a lavorare con noi e aveva imparato presto e bene i segreti della conduzione dell’Impresa, come delle incombenze dell’ufficio.

Io subii un delicatissimo intervento chirurgico che mi portò sulla soglia delle conseguenze estreme. Poi, gradatamente, con pazienza e buona volontà, feci lo stesso percorso di Roberto, quello del convalescente voglioso di ricominciare come se nulla fosse accaduto. Così fu.

Quando tornai in Azienda, Giovanni era stato liquidato ed era contento di potersi dedicare a realizzare i suoi disegni. Aveva ancora la sua vecchia scrivania tarlata nella stessa mia stanza. Così, quando veniva, ormai senza assilli né impegni, passavamo un po’ di tempo dedicandolo ai ricordi e alle soddisfazioni vissute insieme.

Peppino si apprestava a rilanciare l’Impresa.

Durante la costruzione dei due fabbricati di via Luigi Chiala al Nuovo Salario, affidati in appalto alla società Rossi e Procaccini, il “commendator” Fradusco ebbe modo di apprezzare le doti di gran lavoratore e di fidatissimo esperto di Fabrizio. Era uno degli assistenti del cantiere, incaricato dell’esecuzione delle opere murarie e delle finiture. Abruzzese, montanaro caparbio se accettava il compito di venire a capo di un problema complicato, preciso e sollecito a individuare soluzioni adeguate per i casi che si presentavano, di una puntualità persino eccessiva se riusciva a battere persino Peppino in ogni corsa a rubare il tempo, anticipandosi l’un l’altro come in un gioco importante.

Per queste peculiarità, e per il grande rispetto che Fabrizio Salvatori dimostrò sempre

nei confronti del “commendatore”, questi lo tenne al suo fianco nell’attività edilizia da allora e sin quando Peppino ebbe la forza di continuare a dirigere la sua impresa. Poi Io lasciò in eredità ai figli.

In quello stesso tempo, Peppino, imprecando sempre più sovente, affrontava due grosse piaghe di quel suo mestiere di manager vecchio stampo, che si trovava a lavorare in un ambiente rifiutato da sempre.

Era maturata ormai la stagione delle grandi abbuffate di chiacchiere da parte di una cerchia di nuovi arrivati alla greppia dell’industria romana.

Ormai nessun imprenditore di qualche peso osava muoversi senza lo stuolo degli avvocati specializzati in materie urbanistiche e nell’interpretazione dei “lacciuoli” tesi fra le virgole dei testi delle ultime normative. Diventò sempre più duro ottenere soddisfazione da parte delle istituzioni locali per chi chiedeva il rispetto dei diritti di un’imprenditoria che non si adattava a scendere a compromessi. L’ambiente delle relazioni diventava ogni mese più bastardo, più famelico, più disonesto. Non c’era modo di impostare un programma a tempi e costi certi. A chi non intendeva cedere alle sollecitazioni clientelari restava soltanto la strada della pazienza silenziosa, dell’attesa di qualche spiraglio dove infilarsi, oppure la via delle azioni legali senza tempo e incerte. Per risolvere il problema del blocco dei terreni dell’Acqua Traversa, a Peppino Fradusco non rimase che la scelta di una lotta serrata combattuta con le carte bollate.

A favore del buon diritto della proprietà a costruire intervenne la Regione Lazio con l’adozione dei “poteri sostitutivi”. Peppino credette di aver vinto una battaglia, ma l’Amministrazione comunale fermò l’iniziativa con il ricorso al TAR. Fra impennate di furore, ritirate, assalti, delusioni e speranze, finalmente il Consiglio di Stato liberò Peppino da una situazione di stallo e di pericolo, poiché era stata messa in moto contro di lui persino l’autorità giudiziaria.

Quando si aprì di nuovo l’attività nel cantiere di via della Mendola fu festa grande. Quasi un ritorno alla normalità per l’esercizio di una impresa che pareva destinata al tramonto nel marasma degli intrallazzi e del pressapochismo.

Peppino riprese nuova vigoria, sembrò tornare più giovane, ardimentoso. Affrontava situazioni persino azzardate che si presentavano sul terreno, studiandone le soluzioni che lui proponeva specialmente a Fabrizio, il quale doveva tradurle sul posto. Come al tempo del cantiere di viale Scalo San Lorenzo. Il taglio di vecchie querce, che avrebbe fatto infuriare distinti papaveri, condomini dei fabbricati adiacenti al terreno, fu eseguito nelle giornate caldissime intorno al Ferragosto, quando gli eventuali protestatori godevano meritati riposi in montagna o sulle spiagge dei nuovi ricchi; il contenimento di un’intera collina di argilla, che minacciava di franare tirandosi dietro anche i villini costruiti a monte, fu eseguito con un sistema di interventi a sezione, che fece evitare qualsiasi rischio.

E quando i dodici fabbricati salirono, piano dopo piano, a Peppino Fradusco era tornata la voglia di cantare” ‘O sole mio” durante le cene conviviali celebrate con i suoi collaboratori.

Tonino, il figlio che aveva l’incarico di Direttore dei lavori, aveva passato momenti di vera paura per le iniziative azzardate del padre; ma con l’irruenza nuova di Peppino rimaneva soltanto da assumere la posizione di chi lo assecondava, magari tremando.

Lui era di nuovo scatenato, avendo dovuto sopportare per troppo tempo l’isolamento di uno che non era disposto a seguire l’andazzo dei tanti colleghi che si sciacquavano nell’acqua sporca per togliersi le macchie dalle mani.

Nelle assemblee consortili all’Hotel Majestic parlavano e parlavano i responsabili, i tecnici, persino qualche assessore invitato appositamente, ripetendo a vuoto vecchi argomenti senza costrutto. Parlava qualche grosso papavero dell’industria edilizia romana, a caccia di benemerenze per cariche da ricoprire.

Peppino ascoltava, si alzava prima delle conclusioni inconcludenti e dei rimandi; ogni volta finiva per dirmi “guarda in mano a chi siamo capitati!.

Fu l’ultima vera impresa di Giuseppe Fraduso imprenditore. Ormai da piccoli episodi si rendeva evidente una certa stanchezza. Lasciava libertà maggiore all’iniziativa dei figli, magari contrastando ma poi cedendo al ragionamento. Cominciò a rendersi conto che i tempi si facevano veramente diversi e che era l’ora di tirare qualche remo in barca.

Parve infatti un episodio la costruzione del fabbricato di via Alciato nei pressi di piazza Irnerio all’Aurelio, quando l’iniziativa passò quasi per intero in mano a Tonino e a Roberto. Lui vigilava, amministrava, dava consigli, teneva calde le relazione con Gigetto Procaccini. E si guardava in giro, anche fuori del Lazio, per individuare qualche buona tenuta, sulla quale concentrare le forze per una vita e un mestiere che gli tornavano cari dalla giovinezza.

Quando, nell’ottantasette, gli si presentò l’occasione di acquistare quasi sessanta ettari di terreno a Vallerano sulla Laurentina non ci pensò due volte.

Era un’area destinata all’edificazione. Ma doveva trascorrere un buon tempo prima che fossero compiute le opere di urbanizzazione.

Nel frattempo, la voglia di avere il sangue rimescolato dal sapore della terra rimossa e seminata sarebbe stata soddisfatta. Intanto, anno dopo anno, i figli avrebbero maturato idee, competenze, progetti per proseguire sulla strada del padre; ed era questa certezza che lo rendeva felice mentre vagava avanti e indietro tra collinette e avvallamenti, misurando a grandi passi l’estensione delle coltivazioni di grano duro o di colza che si rinnovavano ogni anno, mentre i tecnici preparavano i progetti sotto la guida di Bonanni, di Tonino, di Roberto, attenti a far muovere i primi passi in Azienda al giovane Fabio.

Nello stesso periodo Gigetto Procaccini continuava la collaborazione quale Ditta appaltatrice costruendo i due fabbricati di via San Michele a Grottaferrata. Fu un’impresa laboriosa, soprattutto perché l’abitudine ad avere i cantieri sotto mano in città rendeva poco gradito a Peppino l’impegno di un lavoro da controllare e stimolare a quaranta chilometri dall’ufficio e da casa. Fu un cantiere in cui lui credeva meno del solito, lasciando che l’iniziativa nelle varie fasi servisse almeno ad irrobustire le ossa dei figli.

Il tempo delle lavorazioni si protrasse a lungo, ma ormai la presenza di Peppino era sempre meno assidua e determinante. Andare in cantiere diventò mano a mano il soddisfacimento di un bisogno connaturato ma non più impellente: quasi la scusa per allontanarsi dall’abitato tra le foreste da Squarciarelli al Tuscolo a Rocca Priora, alla ricerca di luoghi che allontanassero con forza l’isolamento mentale che lo colpiva in città. Percorrendo i sentieri tra ornelli e castagni Peppino camminava per tutte le strade calpestate durante una vita intera, al sud come in Polonia o in Germania o in Grecia o in Albania, come nelle periferie della capitale, sempre alla ricerca di un’affermazione per le proprie capacità di azione.

Dimenticando spesso tutto il resto.

La conduzione agricola del terreno a Vallerano cessò quando le opere di urbanizzazione ne occuparono direttamente una buona parte e, a metà del novantadue, ebbero inizio le prospezioni archeologiche e gli scavi relativi.

Queste ultime delicate operazioni richiesero due anni di lavoro paziente, che Peppino sopportò malvolentieri per i costi molto alti che dovette sostenere e per i ritardi nei piani di sfruttamento dell’area.

In tutto il tempo degli scavi si manifestò preziosa l’attenzione, la perizia e la precisione nell’organizzare il lavoro e nel farlo eseguire di Fabrizio Salvatori.

La bonifica archeologica era una condizione necessaria. Peppino l’aveva accettata mugugnando. Ma quello che non gli andava giù era l’imposizione da parte dell’Autorità pubblica di regole che non avevano niente a che vedere con il buon senso e con la bilancia della giustizia. Peppino faceva press’a poco questa considerazione:

“Ho impiegato i miei dipendenti per due anni in un’operazione a tutto vantaggio della collettività; ho sostenuto per intero i costi del recupero di un ingente patrimonio archeologico per chi ne andrà a godere; ho predisposto il magazzinaggio e persino organizzato la consegna del materiale nei luoghi voluti, sopportando responsabilità e spese anche per questo. Ma nessuno ha pensato, neppure lontanamente, che una qualche benemerenza così acquisita dal sottoscritto meritasse un riconoscimento.

A cura del Comune di Roma e della Soprintendenza all’Archeologia fu allestita in seguito una mostra, presso la Fondazione Valentino a piazza Mignanelli, con i reperti di maggior pregio rinvenuti in quegli scavi, a celebrare principalmente quanto contenuto nel “Sarcofago della bambina”~ Peppino Fradusco, proprietario dei terreni da cui erano emersi dall’oscurità del tempo gli oggetti preziosi esposti, che aveva sostenuto tutte le

spese per le operazioni di recupero, che ne aveva pazientemente patito i disagi aziendali, non fu neppure invitato a visitare il risultato del suo lavoro!

Fortunatamente egli era un uomo che non si era mai aspettato riconoscimenti, tanto meno compensi...

Sulla collinetta più alta della tenuta di Vallerano esistevano antichi casali, magazzini, stalle, un centro agricolo dell’Agro romano.

Quando fu deciso di ristrutturare il tutto, Peppino riassaporò ancora il piacere di veder nascere case nuove da vecchi mattoni.

I Casali delle Stelle furono così, veramente, l’ultimo sigillo del sua attività di costruttore.

In una delle case riportate alla condizione d’essere tenute calde da qualche vita giornaliera al pulsare di desideri e sensazioni, sulla facciata davanti all’uliveto che risuonava di voci da tutti i quadranti d’antiche memorie come il vento si muoveva dalla parte del mare, un muratore fissò lo stemma di pietra che celebra e certifica i meriti di una operosità non comune.

Durante la ristrutturazione dei Casali si completò il quadro della futura struttura d’Impresa. Fabio si era congedato dal periodo degli obblighi militari con il grado di tenente. Peppino riteneva che l’esercito gli avesse restituito il figlio con note precise di serietà e di carattere. Poi si era laureato in legge. Peppino sentiva che il ciclo delle sue preoccupazioni si era completato benevolmente e aveva a portata di mano il raccolto dei frutti.

Dopo un master negli Stati Uniti e un periodo di pratica legale nello studio dell’Avvocato Claudio Honorati, Fabio offrì al padre la soddisfazione di vederlo inserito nell’Azienda.

Un certo disegno, cullato da lontano, si era definito.

Roberto aveva accettato la presidenza del Consorzio Vallerano in un momento in cui l’ente barcollava da tutti i lati, da quello operativo a quello finanziario. L’accettazione della carica volle dire impegno a tutto campo con le risorse della capacità amministrativa e le qualità diplomatiche necessarie.

Peppino ebbe la certezza che il sogno di vedere continuata la sua attività nell’industria delle costruzioni trovava sostegno dalla volontà e dall’attitudine del figlio minore. Fabio si preparò a rispondere con responsabilità e affetto alle sollecitazioni del vecchio combattente che mostrava di dover abbandonare la prima linea.

In una sera di giugno, tra le baracche del cantiere sulla collina dei Casali della “Ville del Quadrifoglio” a Vallerano, senza preavvisi né concertazioni avvenne il passaggio del testimone dal padre ai figli in una perfetta continuità.

Gli operai avevano organizzato la cena. Avevano allestito la tavolata di palanche, appena protette da tovaglie di carta. Le palanche poggiavano sopra pile di blocchetti di tufo. I tovaglioli erano allegri di disegni forati.

Cucinarono penne all’arrabbiata dopo antipasti sostanziosi, braciole di maiale arrostite alla griglia, pecora in umido alla maniera di Montereale, il paese di Fabrizio. Tra la luce del crepuscolo e quella delle poche lampade all’aperto, l’allegria prese il sopravvento.

Fra gli operai sedevano Tonino, Roberto e Fabio, Piergiorgio Gherardi, marito di Rosella e Leonardo Felici, l’architetto marito di Luciana, pronto per le future Direzioni dei lavori. Con loro collaboratori, fornitori, tecnici, amici.

A capotavola Peppino, stanco ma vivace, pronto ancora alla battuta: “ ‘A bbellezza nostra!

Io e Bonanni gli sedevamo accanto. Eravamo presi a goderci il chiasso e la vivacità della gioventù che occupava la tavolata. Parlavano di argomenti leggeri, ma, di più, di progetti da realizzare su quella collina.

Peppino comprese esattamente cosa sarebbe successo dopo di lui. Ci sorrise, alzando un bicchiere, con l’indice della mano destra tenuto diritto.

“E’ fatta” — disse con voce commossa — “beviamo alla salute!”

Ancora una volta ci intendevamo a meraviglia.

Per il ricordo di quella sera di giugno in penombra, densa di significati e di promesse, ora posso pensare che Peppino Fradusco, dovunque stia riposando, sia pienamente soddisfatto delle opere compiute.

 

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