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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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UNA VITA DA COSTRUTTORE
 

Una convinzione assoluta sostenne Peppino Fradusco durante tutto il periodo della sua attività di imprenditore - come a dire: per tutta la vita dal quarantanove in poi -.

Quella convinzione si tradusse nel concetto che l’impresa delle costruzioni dovesse rimanere un bene della sua famiglia e di quella di Giovanni.

Si spiega così un fatto fondamentale: quel che si accumulava, quale proprietà dei Fradusco costruttori, doveva essere un loro bene esclusivo; e reimpiegato.

Così, ad esempio, istituti bancari, enti o privati non condivisero mai il diritto di proprietà sui fabbricati costruiti oppure in costruzione, fino a quando le componenti non furono vendute a terzi.

Nel pensiero di Peppino questo fatto doveva consentire una piena libertà nella produzione, nella conduzione dei lavori e nella realizzazione dei programmi. Quel che derivava dalle sue considerazioni mattutine, dopo le solite quattro ore di sonno, e dalle sue strategie studiate mentre gli altri ancora dormivano sodo, non poteva essere condizionato da agenti estranei al suo preciso procedimento mentale.

Questo, nel pensiero di Peppino, doveva permettere che le decisioni da adottare nel rapporto con i terzi andassero subito a segno e fossero guidate dalla propria capacità di indirizzare le azioni organizzate a scopi precisi non condizionati. Peppino ragionava già allora con la mentalità di un capitano d’azienda indipendente.

Il fratello Giovanni condivideva in pieno, ammirando, legato com’era ancor più di Peppino al principio che la sua proprietà avesse diritto alla preminenza su qualsiasi altro valore in discussione.

Si spiega così anche un altro fatto importante: dopo il ritiro dall’attività da parte di Giovanni, dovuto all’età avanzata, l’impresa rimase “di famiglia”, la quota del solo Peppino, condotta poi sulla scia dei suoi principi e della sua volontà dai cinque figli.

L’impresa delle costruzioni dei fratelli Fradusco nacque dunque nel quarantanove. Peppino ne era la mente e l’audacia, il programmatore e lo stratega; Giovanni il braccio robusto e la presenza fisica costante nei cantieri.

Il primo fabbricato fu costruito fuori Roma: bisognava saggiare la possibilità, il mestiere e il mercato.

Ladispoli, cittadina in pieno sviluppo, poteva essere una buona piazza.

Un solo fabbricato, perché le sostanze dell’Impresa raccolte dall’attività della fabbrica del sapone consentivano solo quello. Il tempo di allargarsi e di conquistare clienti e importanza sarebbe venuto di conseguenza.

Le forze della fabbrica dismessa, il nucleo fidato, si trasferirono al cantiere: Saponara diventò muratore, Pasquale carpentiere e ferraiolo, il ragazzo Antonio fu addetto alla preparazione della malta e alla confezione dei travetti per i solai, Giovanni dirigeva i lavori ed effettuava i trasporti, Peppino eseguiva gli acquisti, i pagamenti, le vendite e gli incassi.

Giuseppe Fradusco stava vivendo una stagione di soddisfazioni.

Il cambiamento scelto per una nuova avventura si rivelava indovinato e gratificante; il contatto con i molti altri che esercitavano questo nuovo mestiere si faceva più diretto, un contatto che egli poteva gestire alla sua maniera, con la verve innata di allegria e la disinvoltura della battuta; si consolidava quella sua convinzione di uomo onesto che le proprie affermazioni di riuscita e di successo dovevano esprimersi sempre nel rispetto delle posizioni di una controparte e della parola data: era la convinzione maturata durante gli anni duri della fanciullezza e dell’ adolescenza nella masseria di Palazzo San Gervasio.

Nel periodo dei lavori a Ladispoli incontrò i primi collaboratori della nuova attività. Personalità già affermate da cui imparare e di cui fidarsi senza aver bisogno di tante riunioni e di molte richieste. Era questo un altro pregio di Peppino Fradusco: guardare negli occhi e riconoscere per un intuito innato il percorso meritorio delle persone e la capacità di stringere nodi duraturi.

Si affidò alla rettitudine dell’avvocato Ludovico Zumpano, che dava pochi consigli ma buoni, anche lui uomo del sud, gran cultore di classici e di testi legali. Ma pratico, non leguleio, proprio come serviva a Giuseppe Fradusco: che odiava le liti e le lungaggini come una peste deleteria per le sue attività. Durante la lunghissima collaborazione, fino alla morte dell’amico Zumpano, Peppino fu costretto ad intraprendere si e no cinque procedimenti civili e mai in danno delle proprie attività.

Conobbe due giovani ingegneri, Alfredo Gianni e Mario Aureggi, titolari di un unico

studio. Pesò immediatamente la loro serietà e la bravura. Ricorse alla loro professionalità di progettisti sin dalla costruzione di quel primo fabbricato a Ladispoli, in un periodo nel quale i progetti e la direzione dei lavori per quel tipo di costruzione “alla romana” erano affidati dalla quasi generalità delle imprese ai geometri, che, magari, sottoponevano le carte alla firma di compiacenti sconosciuti ingegneri.

Ma il rapporto di Peppino con i due diventò subito qualcosa di diverso da quello tra un committente e degli esecutori. Li considerò dapprima come maestri dai quali doveva imparare alla svelta i segreti per affrontare un lavoro per lui totalmente nuovo, li ebbe poi come amici fidati e preziosi.

Troveremo i nomi di Gianni e Aureggi quali progettisti e quello di Aureggi quale direttore dei lavori nelle tabelle di tutti i cantieri delle Imprese dei Fratelli Fradusco sino agli inizi degli anni settanta e, dopo la morte dell’ingegner Gianni, quello dello studio Aureggi come progettista sino agli anni ottanta.

Molte fraterne “agapi” avevano consolidato negli anni il rapporto professionale e quello confidenziale.

Durante i lavori nel cantiere di Ladispoli arrivò la soddisfazione più grande per Peppino Fradusco: la nascita del primo figlio. Antonio, come “massaro” Antonio. Un figlio e maschio.

Un pieno di felicità da riversare intorno. Con entusiasmo e con fiducia.

Ora si che le ore dell’alba rubate al sonno assumevano significato più pieno e dilatavano il tempo per le opere da intraprendere! E i ricordi delle privazioni e delle paure che tornavano costantemente nei sogni o negli incubi dagli anni della guerra e della prigionia, diventarono un buon cemento per costruire il futuro...

Subito dopo la fine del cantiere di Ladispoli e la vendita delle case costruite, l’impresa, dal 1953 al 1956, si irrobustì e allungò il passo.

Peppino era più sicuro del cammino da percorrere. Ormai la richiesta di abitazioni a Roma era diventata spasmodica, le periferie si allargavano un mese dopo l’altro, la speculazione dei proprietari di terreni si consolidava diventando persino immorale.

La categoria dei costruttori apparve posizionata di qua e di là da uno spartiacque: i più maturi per esperienza e tradizione, con anni e anni di professionalità seria, affrontavano la realtà nuova della grande richiesta e della forte opportunità con lo studio dei programmi, la consistenza dei capitali e la capacità tecnica; i nuovi, molti dei nuovi, gli arrivati da lontano per la conquista delle cose facili, gli arricchiti di fresco, i furbi ben

appoggiati politicamente si buttavano nella mischia senza tanti scrupoli, con l’intento di approfittare della situazione, già pronti alla ritirata appena realizzato un buon peculio, sordi e ciechi a qualsiasi richiamo alla responsabilità.

Peppino Fradusco, che vedeva al di là degli anni prossimi, che voleva raggiungere risultati solidi, che dava al denaro un valore ben proporzionato alle imprese da sostenere senza averne il culto o la cupidigia del possesso, scelse di stare al passo con l’esempio dei primi. Da allora non sopportò mai i richiami allettanti dei furbacchioni, le prosopopee dei faciloni, tantomeno le lusinghe dei politici e dei potenti.

Ma, senza tirarsi indietro, seppe dare corpo alle opere che avrebbero costituito il primo boom nell’edilizia del dopo guerra.

Così dal cinquantadue alla fine del cinquantasei, al Quadraro e al Prenestino, vennero su i fabbricati di via dei Sergi e di via dei Laterensi e quello di via Marco Coronelli. Stabili per proprietari in condominio, clienti già numerosi ed esigenti, contenti senza remore per aver comprato una buona casa dall’impresa di Giovanni e Giuseppe Fradusco, quali ad esempio Biagio Ioppi e Amedeo Marinucci, diventati buoni amici di Peppino.

A lui premeva fin da allora che gli acquirenti avessero da presentargli recriminazioni o riserve in misura minima e di poco conto, sapendo bene che la perfezione non si poteva raggiungere. Ma le stanze delle case dovevano essere comode, la struttura, ormai in cemento armato, solida e agile, gli interni ariosi. Non accettò sin da allora che Gianni e Aureggi, seguendo qualche moda delle nuove tendenze architettoniche, progettassero per lui appartamenti in cui gli ambienti cucina non fossero comodi per la superficie e non avessero accesso a un balcone, a una terrazza, oppure a un giardino.

Sosteneva che le donne avevano bisogno di godersi all’aperto i pochi momenti di riposo quando non erano costrette a stare attaccate ai fornelli...

Quella caratteristica, del resto, doveva servire a Peppino quale elemento in più per convincere all’acquisto le sue possibili clienti — che contavano più dei mariti -, nella difficoltà di un mercato che si faceva sempre più concorrenziale.

 

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