Anche se impegnato con una paziente difficile avvertii
chiaramente che, nella sala di attesa, vi fosse una discussione molto vivace.
Ad un certo punto ebbi l'impressione che addirittura degenerasse tanto che fui
costretto ad uscire dall'ambulatorio per rendermi conto e, possibilmente,
calmare le acque agitate.
Aviglianesi e Potentini si contendevano il loro medico, direi, molto
cavallerescamente, anche se a voce alta e con qualche parola grossa.
Cari e buoni amici ...
avevano tutti ragione.
Sono nato ad Avigliano e da padre aviglianese e ne sono non solo orgoglioso ma
mi sento amorevolmente avvinto a quella "TERRA" che, in una fredda casa, sul
finire di un gelido mese di gennaio, mi vide nascere, in compagnia di una
sorellina, in povertà e tra le ansie di mia madre superiori di gran lunga ai
suoi stessi dolori.
Erano le ansie per il marito impegnato in una delle tante guerre che l'umanità
combatte da secoli per il piacere di pochi ed il dolore di molti.
Sono cresciuto a Potenza e potentina è la mia infanzia, la mia giovinezza, la
mia vita di uomo, di cittadino, di professionista, potentini sono i miei stenti,
i miei sacrifici, le mie gioie, i miei dolori, potentini sono i miei figli ed è
logico, quindi, il mio attaccamento a questa città, che rappresenta il mio
mondo.
Potenza ed Avigliano sono, dunque, la mia madreterra e i Potentini e gli
Aviglianesi sono i miei fratelli-concittadini e come ho dedicato ad essi la mia
vita umana e professionale così dedico ad essi questa raccolta di versi in
vernacolo che, vorrei, fossero considerati un mio tributo di amore e di affetto.
IN DIFESA DEI DIALETTI
Se la mia vita professionale mi porta ogni giorno a
preoccuparmi ed a lottare contro le continue minacce all'organismo umano, la mia
vita culturale, spirituale e sentimentale mi spinge a preoccuparmi ed a lottare
in difesa delle lingue moribonde: i "DIALETTI".
Una lingua che muore è più di un uomo che muore, è la morte di un mondo allo
stesso livello della morte di una intera specie animale o vegetale.
Nel passato è, purtroppo, avvenuto che lingue imperialistiche, il greco, il
latino, l'arabo hanno soffocato e distrutto grandi culture di altissima civiltà;
avviene oggi la stessa cosa per opera delle
lingue, cosiddette ufficiali, e del loro apparato burocratico, scolastico ed
accademico.
Non credo che il bilinguismo sia una lotta di lingue, né una concorrenza oppure
un mero confronto di vocaboli e di grammatiche che si infastidiscono e si
contrastano in una guerra, senza esclusioni di colpi, ma, credo piuttosto, che
il rapporto tra due lingue deve essere una emulazione, una spiegazione, una
comprensione, un'integrazione vicendevole perché non è vero che il dialetto sia
il male e l'errore e la lingua ufficiale sia il bene ed il giusto.
Per il linguista, poi, per il glottologo non dovrebbero esistere lingue
inferiori e superiori, lingue ufficiali e dialetti perché ogni lingua è
portatrice di indiscutibili, indispensabili, innegabili ed insostituibili valori
culturali ed umani; ogni lingua esprime un modo di pensare, afferma un aspetto
dell'individuo-umanità, dell'uomo-spirito.
La morte, quindi, di una qualsiasi lingua è la morte di una cultura e di un
popolo e la morte dei dialetti è la morte di elevati fenomeni culturali e
spirituali che ai dialetti, alle lingue popolari e locali, sono
indissolubilmente legati.
Mi si scusi l'ardimento: affossare un dialetto è come chiudere l'anima in una
cassa da morto!
Non era forse un dialetto, la lingua, cioè, del basso popolo, "l'Aramaico", la
dolce lingua di Gesù, che creò una vasta e consistente letteratura?
Non era forse un dialetto, "l'Ionico", la lingua greca di Omero, che dette ai
Greci il capolavoro della loro stirpe?
Ed allora parliamo il più possibile la lingua dei nostri avi, parliamo nella
nostra lingua locale, leggiamola, scriviamola in prosa o in versi, avviciniamola
alla lingua ufficiale in un matrimonio d'amore per non dimenticarla e per
tramandarla.
Se muore un dialetto muore il fertile "humus" di una cultura multiforme,
affascinante e meravigliosa che va dagli scongiuri alle formule guaritorie,
dalle preghiere ai canti locali, dalle leggende alle superstizioni, dai
soprannomi, mirabili esempi di sintesi psicologica, di caratterologia e
tipologia popolare, alle metafore, alle similitudini, ai proverbi, agli
indovinelli, alle favole.
Muore l'humus che ha saputo dare alla cultura Modesto della Porta, Goldoni,
Verga, Trilussa, di Giacomo, e tanti altri come i nostri D'Anzi, Albano, Viola,
Viggiano, Rosa, don Marco Sabia ecc., sicuramente non meno grandi anche se
vergognosamente ignorati.
Presentare una raccolta di poesie dialettali, nell'antica parlata aviglianese ed
in quella potentina, senza brevi notizie storico-geografiche delle due città,
sarebbe stato, a mio giudizio, come presentare una figura d'uomo senza testa.
Non sono uno storico e tantomeno un ricercatore e, certamente, non porto ai
lettori ed agli amici della "Mia terra" nulla di nuovo o di eccezionale ma
ripeto alla meglio ed assai sinteticamente
un po' di quello che altri pazientemente e sapientemente hanno ricercato ed
ancor più brillantemente hanno saputo portare a nostra conoscenza.
E' anche questo un segno di affetto filiale a Potenza e ad Avigliano ma vorrei
fosse anche un omaggio devoto a quanti, superando difficoltà tecniche ed
ambientali, con spirito certosino e con
grandi sacrifici personali, si sono adoperati con ogni mezzo per inquadrare
nella giusta luce, storicamente e geograficamente, sia Potenza che Avigliano.
Potentia fu fondata da un gruppo di Picentini o Piceni.
Essi, espulsi dalla loro terra, per essersi ribellati a Roma (207 a. C.) ,
furono costretti ad emigrare nelle campagne fra Salerno ed il Silaro, a destra
del quale fondarono Picentia.
Si diressero in seguito in Lucania e si stabilirono nella valle del Casuento
(Basento), alle origini del fiume, dove fondarono Potentia, che fu città di non
trascurabile importanza durante la dominazione romana tanto che divenne prima
prefet-tura e poi municipium.
La città era nel fondo valle a destra del fiume. Si spostò, in seguito, verso la
collina, forse per i gravi danni subiti dal terremoto del 1273, ma è pensabile
anche per le più favorevoli condizioni di stabilità geologica, per la difesa da
attacchi nemici, per la salubrità dell'aria e molto, forse, influì la presenza
sul colle di una falda freatica tra gli strati marnosi-argillosi impermeabili
che consentì l'approvvigionarsi agevole di un'ottima acqua.
La città è situata su di un colle allungato, delimitato dai valloni di
Verderuolo e di Betlemme e che culmina con due poggi: Montereale a sud-ovest e
il poggio orientale (lungo 800 m. e largo da 60 a 200 m.) sul quale si distende
la città. I due poggi sono collegati con un viadotto.
Quando le condizioni ambientali avverse cessarono (malaria, insicurezza,
scarsezza d'acqua) il vantaggio della posizione cacuminale venne a mancare per
cui si verificò una tendenza opposta a quella che aveva portato in alto la
formazione dell'abitato e la città si estese prima al Rione S. Maria e poi
cominciò a scendere verso la valle del Basento, dove fu la Potentia del tempo
romano, dopo aver collegato, con una serie di nuove costruzioni il Rione Crispi
al vecchio borgo S. Rocco, e a Chianchetta, ma a ingigantire lo stesso Rione S.
Maria, già collegato a S. Rocco con costruzioni lungo il viale Ciccotti e Via
Mazzini e con il sorgere di grossi rioni nuovi come Verderuolo e C. E. P.
Da un lato e dall'altro con il progredire delle propaggini la vecchia città si
accinge a catturare le gemmazioni ferroviarie, includenti le due stazioni di
Potenza Inferiore e quelle di Potenza Superiore con gli edifici connessi.
Dopo la battaglia di Canne, Potenza fu ferocemente devastata perché si era
ribellata a Roma. Nel 402 d. C. fu invasa dai Goti di Alarico e in seguito
annessa dai Longobardi al Ducato di Benevento.
Pure i tentativi di ribellione a Federico II° e a Carlo I° d'Angiò furono
duramente repressi.
Insorse ancora nel 1799 nella rivoluzione in cui si mise in bella evidenza il
vescovo Giovanni Andrea Serrao, che cadde vittima della reazione borbonica.
Certamente memorabile e valida fu l'insurrezione del 18 agosto 1860 allorché
Potenza, prima fra le città del Mezzogiorno, proclamò l'annessione al Regno
d'Italia.
Nel 1277 la popolazione di Potenza era di circa 2600 abitanti e nel 1320 di
3100; tra il 1648 e il 1699 la popolazione sarebbe scesa dai 7000 ai 5000
abitanti per la peste del 1656 ma riprese subito a salire fino ai 20.000 del
1881. L'emigrazione ne ridusse il numero fino alla prima guerra mondiale ma
riprese subito dopo a salire fino ai 50.000 circa di oggi.
Potenza fu antichissima sede vescovile e conta alcune chiese interessanti anche
sotto il profilo artistico.
La Cattedrale, dedicata al Santo Protettore S. Gerardo, eretta nel 1200,
ampliata nel 1250, fu riedificata tra il 1783 e il 1799, per iniziativa del
vescovo Serrao, da Antonio Magri, allievo del Vanvitelli; fu ancora riparata e
restaurata dopo la seconda guerra mondiale.
La Chiesa di S. Francesco, nei pressi della piazza intitolata all'insigne
filosofo ed economista Mario Pagano, da Brienza, morto sul patibolo durante la
rivoluzione del 1799, è del 1274. Vi si ammira sulla facciata del tempio un
portale durazzesco e una porta in legno del '400, intagliata a motivi
goticizzanti e una porta presso l'abside con putti e fregi.
Nell'interno, a una navata, è conservato un sepolcro pregevole in marmo di stile
rinascimentale e due tavole raffiguranti l'Adorazione del Bambino e Santi e la
Madonna col Bambino (eseguiti tra il XVI° e il XVIII° secolo).
La Chiesa di S. Michele Arcangelo, di stile rornanico, è dell'XI°-XII° secolo,
attribuita dal Berteaux all'architetto maestro Sarolo di Muro Lucano, nella
quale si conserva il quadro dell'Annunciazione (1606) di Giovanni De Gregorio,
detto il Pietrafesa, da Satriano di Lucania.
Del secolo XIII° sono le chiese della Trinità e quella di Santa Maria del
Sepolcro, dove si trova una tela di Luca Giordano, « Il passaggio del Mar Rosso
» ed un politico scomposto attribuito ad Antonio Solario, detto lo Zingaro.
L'arteria principale della città, resta sempre la via Pretoria, che continua la
tradizione di luogo di ritrovo e di passeggio della popolazione, nonostante vi
siano altre vie ed altre piazze ben più ariose, specialmente nei rioni.
Di molto interesse è il Museo Archeologico, nel quale sono raccolte
testimonianze preziose delle più antiche civiltà, dall'era paleolitica a quella
neolitica, dall'età del bronzo e del ferro a quella dei tempi storici, raccolte
che provengono da Metaponto, Venosa, Matera, Garaguso, Lavello, Vaglio,
Pietragalla e Potenza stessa.
Fra gli uomini illustri è doveroso ricordare: Francesco Stabile Senior, medico
del '600 e autore di un trattato sulla peste; Francesco Stabile Junior, nato a
Miglionico e morto a Potenza nel 1861, insigne musicista, che compose fra
l'altro due opere liriche « La Palmira » e « Braccio da Montone »; al suo nome è
intitolato il teatro cittadino, opera dall'architetto Giuseppe Pisanti di Ruoti,
oggi abbandonato alla polvere ed ai topi, ma che noi ci auguriamo di vedere, al
più presto, restaurato e ripristinato alla sua antica funzione.
Antonio Busciolano, autore della statua di S. Gerardo; Custodita nel tempietto
di piazza Sedile.
Ascanio Branca, economista, uomo politico e più volte ministro, autore
dell'opera « Le credit e la Banque Internationale », pubblicata a Parigi nel
1867.
Veduta panoramica di Potenza (foto Bucci)
Il primo ricordo di Avigliano, secondo il Racioppi,
si trova in un documento greco del 1127.
E' probabile, però, a giudizio di altri storici, che l'origine della città
risalga ad epoca ben più antica come potrebbe indicare la derivazione del suo
nome da un gentilizio romano "Avillius o Avi-
lius".
Avigliano è situata su di una collina pliocenica e vi si giunge, dopo aver
percorsi 14 Km. della statale n° 7, da Potenza, abbandonando la strada nazionale
e dirottando a destra.
La parte più antica dell'abitato sorse sulla sommità mentre lo sviluppo
successivo avvenne sulle pendici occidentali per distendersi fino al breve piano
suborizzontale sottostante.
In epoca recente sono sorti moderni palazzi al rione S. Lucia fino alla stazione
ferroviaria della Calabro-Lucana ed alla villa Comunale, con il monumento ai
gloriosi caduti Aviglianesi.
II centro, comunque, resta sempre, per i rapporti umani, sociali ed economici,
la « chiazza » nella quale si erge il monumento al più grande aviglianese di
tutti i tempi: EMANUELE GIANTURCO.
Sia per la sua ubicazione e sia pure per la struttura geologica del terreno,
Avigliano fu terribilmente devastata dal terremoto del 1851. A causa delle
piogge abbondanti subì frane terribili, che la dissestarono ripetutamente.
In Avigliano si trovano la « Chiesa Collegiata », eretta nel 1583, devastata dal
terremoto e ricostruita nel 1854; la chiesa dei « Riformati » che presenta una
bella faccia secentesca; la chiesa di « Santa Chiara », con due altari ed un
quadro assai pregevole di Francesco Giordano, che raffigura la Santa.
Nemmeno Avigliano fu risparmiata dalla vicenda del brigantaggio, di cui tanto si
è scritto e si scrive con considerazioni e valutazioni diverse, ed aviglianese
fu il famigerato brigante Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco.
Durante il Medio Evo Avigliano fu feudo di diversi signori ed in ultimo dei
Doria, principi di Melfi.
Molti gli uomini illustri, a cui Avigliano dette i natali, fra essi si
ricordano: i fratelli patrioti Michele e Girolamo Vaccaro, caduti nell'assedio
di Picerno, l'eroica cittadina che si oppose alle bande del Cardinale Ruffo
(10-5-1799); il sacerdote Nicola Palomba, commissario della Repubblica
Parteneopea, che con dignità e fermezza affrontò il patibolo (1799);
l'arcivescovo Luigi Filippi, filosolo-letterato nonchè matematico e fisico
insigne;
Emanuele Gianturco, definito giustamente « l'uomo dalle molte anime » perché fu
musicista, giurista, insegnante, avvocato, uomo politico e legislatore. Fu il
fondatore del diritto civile in Italia, ministro più volte (Pubblica Istruzione,
Grazia e Giustizia, Lavori Pubblici ;
i fratelli Nicola e Leonardo Coviello, insigni maestri di diritto civile;
Nicola De Carlo, avvocato e notaio, poeta estemporaneo assai apprezzato;
Antonio Labella, dalla grande cultura giuridica ed umanistica, oratore forbito e
piacevole, poeta di grande levatura.
Veduta panoramica di Avigliano (foto Bucci) |