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Donato M. Mazzeo
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APPENDICE - Escursione al Vulture

di Guelfo Cavanna - A.N.E. Firenze

Nella sera di Mercoledì 7 luglio 1880, lasciata Napoli, vedemmo alle 6 del giorno susseguente le spaziose vie della Foggia moderna, e dopo poche ore la piccola stazione di Candela, piena dei bagagli da noi direttamente spediti colà.
Qui comincia veramente la nostra escursione. Sotto il sole ardente della Capitanata, accomodati alla meglio entro il gran carrozzone della Posta, dalle 11 antimeridiane in poi, per lunghe ore vedemmo spiegarsi innanzi a noi basse colline argillose ed estesi piani deserti, riarsi, dove solo il cerulescente Cardopatium corymbosum Pers. e poche altre carduacee dalle foglie spinose e robuste, abitate da migliaia di Xerophila, sfidavano il sole.
Di tratto in tratto, per le molte sinuosità della strada condotta ora pel dorso o per fianchi d'una collina, ora per vallecole o per burroni poco profondi, si mostrava timidamente qualche altra pianta, si alzavano basse boscaglie ed un soffio di aria fresca veniva a ravvicinarsi.
Il ponte di Annibale o di Santa Venere, sull'Ofanto che sebbene a quest'altezza non sia troppo profondo, in certe stagioni è assai pericoloso, segna dalla parte di Nord-Ovest, il confine tra la Capitanata e la Basilicata, ed al di là di esso apresi la veduta stupenda del Vulture.
"Questo monte sorge isolato nel mezzo di un vasto altipiano ondulato, costituito in gran parte dalle sue dejezioni e che ne presenta una media elevazione di 500 a 600 metri sul livello del mare. Si solleva una base larga circa 20 chilometri, e si restringe in alto a soli 2 chilometri, quanta è la distanza dal picco di S. Michele a quello verso tramontana. La cresta è poi suddivisa in sette vertici, dei quali uno più elevato a destra è Monte Vulture (1329 m.) detto pure Pizzuto di Melfi; indi seguono dei coni più bassi, che offrono un varco più agevole all'interno del cratere, e poi l'ultimo picco a sinistra denominato Monte S. Michele alto 1263 m. sul mare. Il dosso del monte è tutto rivestito da una lussureggiante vegetazione di querce e faggi. Solo il Pizzuto di Melfi torreggia brullo, roccioso, nerastro su tutto il recinto. Una serie di valli radiali e di speroni collinari, di gole e di burroni si distende fino alle falde del monte nella direzione di Atella, e di Rionero, di Melfi, rigirando tutto intorno il gruppo vulcanico".
Alle 6 pomeridiane eravamo all'ombra dello storico campanile di Melfi, e poco dopo, impazienti, intorno alla piccola città, presso il vecchio Castello.
Le ricerche riuscirono pressocché infruttuose: i terreni percorsi erano spogliati e come bruciati; a qualcuno di noi parve la campagna zoologico-botanica si aprisse sotto cattivi auspici, ma il malumore presto si dileguò. In una stanzetta piccola ma abbastanza pulita aspettammo il sole di venerdì, e prima ancora che fosse tutto all'orizzonte, coll'aiuto di una guida prendemmo da settentrione ad ascendere il facile Vulture.
Risoluti a salire poi da Rionero, non sapevamo bene se avremmo avuto agio di visitare le cime più settentrionali, e qualcuna almeno la si volle raggiungere in questa prima escursione. La breve gita fu un poco calda ma piacevole e fruttuosa, specialmente intorno alle fontane dette dei Giumentari e dei Piloni.
Reduci alle 3 pomeridiane, alle 7 i numerosi campanelli dei nostri cavalli suonavano per la bella via che toccando successivamente, dal Nord a Sud, Rapolla e il greco Barile, giunge a Rionero in Vulture e di là continua per Potenza.
Due giorni furono spesi nelle ricche ed amene campagne di Rionero che producono ottimi vini. Nella mattina del 12 un po' troppo tardi, per un largo tratturo, rimontati lentamente verso N-N-O, girato a mezzogiorno il cono principale del Vulture, lasciammo il tratturo stesso al Varco delle Neviere, dove trovasi una miserabile capanna da carbonai. Il sentiero che conduce alla vetta si stacca da quel punto, attraversa una fascia arborea discontinua di piccole quercie e si perde nelle alte erbe del cono, che è coronato dal segnale geodetico.
Presso la cima ebbi la fortuna di predare una giovane vipera e vidi con dispiacere sfuggirmi un altro ofidio, ed una lucertola, molto probabilmente la comune variabilissima Podarcis muralis, alla quale inutilmente detti la caccia.
Sotto le pietre anche prima di giungere alla vetta trovai comunissime le coccinelle che al segnale erano raccolte in numero enorme, parte morte, apparentemente dall'anno prima, parte vive ed accoccolate l'una sopra l'altra nel solito modo: non ne mancavano sulle piante; ma delle coccinelle e delle loro agglomerazioni avrò occasione di trattare in altra occasione.
Dopo aver allegramente divorato un pezzo di pane e bevuto alla felicità del fertile paese che si stendeva ai nostri piedi, staccato, per la Collezione del Club Alpino (Sede di Firenze), un pezzo della trachite che costituisce la vetta, osservata la temperatura che risultò alle 8 1/2 antimeridiane di 21 c° al Nord ed all'ombra e di 39 c° al Sud ed al Sole, con rapidi salti percorremmo i non molti metri che ci separavano dalla capanna dei carbonai. Da questo punto, ancor più rapidamente, per certe scorciatoie, sulla cenere vulcanica che pareva eruttata di jeri, della quale ritrovammo poi tutte coperte le nostre carni, giungemmo alla Fontana dei Piloni, estremo limite raggiunto nella escursione fatta da Melfi.
Colà all'ombra dei faggi (il termometro al sole segnava 45 c°), un po' incomodati dall'acre odore delle carboniere, si die' l'assalto alle provvisioni che in breve tempo furono consumate.
La fontana che prende il nome dai piloni (vasche parallelepipede nelle quali si raccoglie l'acqua) è fresca e perenne; all'intorno cresce una rigogliosa vegetazione e sopra alcune piante, feci delle importanti catture entomologiche.
Dalla fontana sempre discendendo (per 700 m. circa), dapprima pel bosco poi per campi coltivati a patate, che nella cenere vulcanica mescolata all'bumus danno ottimo prodotto, salutata l'alta roccia della Pietra urlante, o della Scimmia, che si erge sulla destra, ecco apparire l'antica Abbazia di S. Michele, o di Monticchio, appoggiata alle trachiti che formano il Pizzuto di S. Michele, che in ordine di altezza è la seconda cima del Vulture (1263 m.), ricoperta fin presso alla sommità da faggi secolari.
Il convento è un grande ed antico fabbricato irregolare, addossato alla base del Pizzuto di S. Michele, sostenuto all'innanzi da potenti sproni in muratura, protetto superiormente dagli scoscendimenti o dalle frane per mezzo di grandi muraglioni. Sovrastano a picco rocce pittoresche ed aspre; ai suoi piedi si stendono due laghetti.
Oggi il convento è abitato soltanto da poche guardie forestali, quasi tutte native del piccolo paese di Barile e di stirpe albanese. Il capo delle guardie, già avvisato, ci accolse cordialmente.
L'Abbazia fu nostro quartiere generale per tre notti. Durante il giorno percorrevamo i laghi ed i loro dintorni; alla sera, dopo il pranzo, preparato alla meglio dalle nostre stesse mani, godevamo la romantica posizione della nostra dimora. Quando si udiva il lontano piccolo latrato delle volpi e l'ululone rompeva il silenzio col suo canto squillante, i lunghi e tetri corridoi, le celle deserte, le loggie illuminate dalla luna che si specchiava sulla queta superficie dei laghi e rosseggiando scendeva all'orizzonte, la chiesa incastrata nell'edifizio, coi suoi santi avvolti nella penombra, il suo Cristo agonizzante, ci ispiravano indefinibili sentimenti di dolce mestizia.
Allora le antiche volte rimbombavano cupamente ai nostri passi, od echeggiavano per le note dei nostri canti e pel suono di una vecchia chitarra strimpellata da una delle guardie, che con essa accompagnava canzoni nate in Albania parecchi secoli fà.
Le melodie più tenere dei nostri maestri, sebbene malamente strapazzate da uno di noi, ritraevano dal luogo e dall'ora un incanto soave, e gli stessi capricci del sentimento modulati alla meglio dalla voce erano ascoltati con piacere e non senza commozione.
Più tardi ci accoglievano certi sacconi ripieni di paglia, sui quali eravamo richiamati alle dure realtà della vita da piccoli esseri che esercitavano sugli intrusi antichi diritti naturali: sonnecchiando come si poteva aspettavamo l'alba, che conveniva proprio chiamare pietosissima.
Dall'Abbazia, oltreché alle immediate vicinanze dei laghi ed ai laghi stessi, le nostre ricerche furono rivolte anche un poco più lontano. Di buon mattino, nel giorno susseguente a quello del nostro arrivo, seduto sopra il basto di un buon muletto, rifeci la via del Vulture e ritornai sulla vetta. Ero rimasto poco contento delle raccolte fatte lassù e speravo aumentarle, come infatti avvenne, nonostante un fortissimo levante che non lasciava piena libertà di manovra.
La vegetazione era rigogliosa. I verbasci dalle lunghe spighe di fiori gialli, le fèrule dal vasto ombrello, ed alcuni cardi, si alzavano sulla minuta ed elegante popolazione dei Dianthus, delle Silene, dei Gladiolus.
Mostravano al sole i loro colori, assieme alle splendide Chrysis, alle Psammophila e ad altri Imenotteri, parecchi Lepidotteri, Pieris, Colias, Melithaea, Argynnis, Satyrus, un Adela ed una Grapholita forse nuove pel mezzogiorno d'Italia, che tutti disturbati dal vento cercavano smarriti un riparo.
Numerose forficule stavano in aguato sugli steli, mentre saltavano sui piedi, che si muovevano a stento tra l'erbe folte ed intrecciate. Sotto le pietre correva il Cryptops sylvaticus, nuovo per la fauna d'Italia, e tra le moltissime specie di Artropodi raccolte mi limiterò a far menzione di due nuovi Opilionidi.
I compagni, dal canto loro, ascesero il 14 il Pizzuto di S. Michele, coperto di immensi faggi secolari. Solo il piccolo cocuzzolo è nudo e colà Biondi trovò le solite miriadi di coccinelle, per la maggior parte viventi, e tranne pochissime tutte ammucchiate sotto le pietre. Ritrovò anche altri artropodi e molti ragni. Il malacologo trovò dei rari esemplari di una Vitrina e dell'Helix pygmaca e proprio sulla vetta il Buliminus tridens (l'etologo altoatesino Federico Hartig, nel 1963, vi scoprì la farfalla notturna, detta Brahmea; n.d.A).
Dirò qualcosa dei Laghi, senza preoccuparmi di quanto ne fu scritto prima da antichi e recenti osservatori, che il farlo mi condurrebbe a trattare argomenti estranei allo scopo che mi sono proposto con questa semplice narrativa della nostra escursione. Rinviando il lettore alla bibliografia indicata nelle note, dirò quasi esclusivamente delle osservazioni che ho potuto fare coi pochi mezzi dei quali disponevo.
I Laghi sono posizionati ad Ovest del Pizzuto di S. Michele, a Sud Ovest della cima principale del Vulture ed occupano il fondo di quello che, nell'opinione del De Giorgi, è il secondo cratere dell'antico vulcano.
Quello più prossimo al monte è più piccolo e di forma più irregolare dell'altro, che mostrasi quasi ellittico, col maggior diametro diretto da N. a S. ed un'area m. 800; mentre il secondo ha 600 metri di diametro. Sono tra loro separati da una lingua di terra, coltivata per la maggior parte a grano, granoturco e patate, sopra la quale si trovano i ruderi di un'antica chiesa, coperti d'ellera e di sterpi.
La navigazione sui laghi si compie con delle imbarcazioni primitive, tronchi d'albero scavati, dette piloni, mossi da un remo corto detto pala, che il rematore immerge alternativamente a destra ed a sinistra di quella specie di piroga, che mi rammentava le analoghe imbarcazioni sulle quali un anno prima avevo percorso il Lago del Matese in Terra di Lavoro.
I venti impetuosi sollevano onde alte due palmi, ma il pilone può essere messo in pericolo solo dalle improvvise folate. È prudenziale il non stivarsi in troppi entro quei tronchi scavati, che un brusco movimento mal calcolato può capovolgere. Dei piloni ve ne erano tre sul Lago grande; sull'altro eravene uno solo, troppo piccolo per contenere un uomo adulto, ed infracidito tanto che la navigazione era poco sicura anche dei due piccoli pescatori albanesi, de' quali parlerò tra poco, che erano costretti a cessare di tratto in tratto dal remare per gettar fuori l'acqua entrata dalle falle.
Il lago piccolo è più profondo di quello grande; in ciò tutti gli osservatori e le genti del luogo sono concordi; non ho potuto prendere misure. Quanto al lago grande lo scandaglio immerso prima nel luogo che mi fu indicato come più profondo, poi in altri, segnò misure molto inferiori a quelle di Palmieri e Scacchi (anno 1851), e per conseguenza ancor più lontano da quelle dell'abate Tata (1777).
Ebbi nel lago grande appena 9 metri e 50, mentre Scacchi e Palmieri lo trovarono di 16 ed il Tata di 39,50. Sembrerebbe che i laghi venissero rapidamente colmandosi per le ghiaje e la terra trascinatevi entro dalle acque. Occorrono però altre osservazioni perché gli osservatori sono tutt'altro che d'accordo; un interrimento tanto rapido di bacini ancora da monti boscosi e di non considerevole elevazione, quale lascerebbero supporre le differenze tra le cifre di Tata, Palmieri-Scacchi e le mie, mi pare difficile a spiegarsi. Anche la temperatura dell'acqua differisce nei due laghi. Il più grande infatti è ritenuto come un emissario dell'altro, col quale comunica sotterraneamente, ed allo scoperto per mezzo di un canale che attraversa la lingua di terra che separa i due bacini; dalle fatte osservazioni risulta che la temperatura delle sue acque rimane di poco inferiore a quella dell'ambiente. Nel lago piccolo invece sembra rimanere costantemente ai 10 od 11 C. Dal fondo di quest'ultimo sgorgano acque che alimentano entrambi, e che devono provenire per la massima parte dal Pizzuto di S. Michele.
Le acque del lago orientale, che a detta dei piccoli pescatori ha il fondo nudo, non ricoperto da vegetazione come ho verificato nell'occidentale, raccolte alla profondità di 30 a 40 palmi hanno sapore stittico sensibilissimo, che le guide qualificavano solfigno, e che a me parve ferruginoso. La bottiglia che conteneva l'acqua destinata all'analisi, arrivò a Firenze rotta; nulla dunque posso aggiungere in proposito. Del resto il Sig. Pallottino di Rionero mi assicurò che altri erasi già occupato di questo fenomeno.
Le rive dei laghi non sono molto estese, che i bacini si fanno bentosto più o meno profondi. Il livello dell'acqua non sembra essere molto variabile: si hanno però notizie di grandi alterazioni avvenute in epoche storiche e riferite da Paulino Tortorella, alterazioni che potrebbero forse essere addotte come prova della recente cessazione delle forze vulcaniche nel distretto.
Dal mezzo della curva occidentale del Lago grande esce un emissario, il Corso dei Laghi, che pel Varco della Creta, attraversato il bosco di Monticchio, sbocca nell'Ofanto quasi rimpetto al bosco di Pietra Palomba ed alla confluenza del Laosento, all'Isca dei Cappuccini, per la destra del fiume.
I pesci che vivono nei laghi sono tinche i cui giovani sono chiamati cacciuottoli; una specie di Leuciscus Vulturius detto sardella e l'Anguilla.
La pesca per un tenue canone annuo è conceduta ad un pescatore di Barile, che abita con due suoi nipoti una miserabilissima capanna situata tra i due bacini. Durante il nostro soggiorno all'Abbazia, il pescatore non trovavasi sul luogo; v'erano però i due fanciulli dai grandi occhi, sorridenti sempre e pieni di vita e di intelligenza. Affidati a loro percorremmo più volte il Lago grande: la ingenua franchezza, le risposte giudiziose, la conoscenza che avevano dei laghetti, ci inspirarono per quei fanciulli una viva simpatia, che manifestammo in quel modo che per noi si poteva, compensandoli cioè largamente delle fatiche con amore sostenute in pro nostro.
Si pesca colle nasse, qui dette morticelli, ed anche all'amo, col quale prendonsi pesci più grossi. Il prodotto, che conservasi nelle acque del bacino occidentale entro recipienti di zinco bucherellati, più abbondante nel Lago grande, di pesci di maggior volume nel piccolo, vien venduto con tenue guadagno a Barile, a Rionero ed in altri vicini paesi.
Aggiungerò che mentre le sardelle e le tinche si pescano tutto l'anno, le anguille si trovano soltanto nei mesi di maggio e di giugno; i pescatori ci dissero che negli altri mesi si trattengono invisibili nel più profondo delle acque. Questo asserto merita di essere meglio esaminato.
Gracidano nelle acque miriadi di ranocchie, spesso la superficie nei piccoli seni s'increspa per le spire veloci della natrice. Vi sono anche delle salamandre acquaiole ma non mi fu possibile averne, ed ignoro a quale specie appartengano. I pescatori ne trovano prese nelle nasse, ma di rado. Sono abbastanza comuni le lontre, e nella notte si ode talora il rumore che fanno guazzando nelle acque, presso le rive, in traccia di preda. La fauna invertebrata è ben altrimenti ricca. Sugli steli umidi delle tife, delle canne, delle Iris, vivono parecchie specie di Molluschi ed a centinaia brulicano le larve dei Libellulidi che rotto poi l'ignobile involucro solcano l'aria coi loro corpicini snelli, le loro ali iridescenti. In una grossa specie, raccolta di pieno mezzogiorno in mezzo al Lago grande, mentre volava instancabile, l'amico Prof. Stefanelli ha riconosciuto l'Anax formosus V. d. Lind.; altre specie, delle quali si potevano raccogliere la sera, immobili sulle piante, migliaia d'individui, vennero determinate dallo Stefanelli.
Ma non farò qui una lunga lista delle catture fatte, che sono indicate al loro posto nei cataloghi ai quali questa narrativa serve di prefazione.
I Laghi sono cinti ad oriente dal Pizzuto, come dissi: di là, girando verso nord fino a ritornare alla montagna nominata, dalla Serra Faraona e dai territori di Capo di Volpe coltivati, e dalla Mancusa dei Faggi, luogo boscoso appunto coperto da faggi mescolati ad altre essenze: oltre alle piante acquatiche, scendono alle rive, parlo del lago piccolo, alcuni castagni e nocciuoli che nascondono sotto le loro folte ombre piccoli seni ove l'acqua si impaluda cupamente verdastra sopra una melma puzzolente, attorno a tronchi d'alberi marcescenti, e ricoperta qua e là dalle foglie delle Ninfee e dei Potamogeton.
Dai canneti dove albergano gli aironi che fanno udire spesso il loro grido rauco e monotono, dai seni ingombri di detriti vegetali in decomposizione, dalle rive dove crescono luride gigantesche cicute ed ortiche, s'alza nel mattino una nebbia grave e pesante. Sebbene i Laghi si trovino a 652 m. sul livello del mare, per un certo periodo i loro dintorni sono infetti dalla malaria. V'è pericolo di prendere le febbri miasmatiche nel breve tempo che corre tra gli ultimi di luglio ed i primi dell'agosto ed il settembre; alle prime pioggie autunnali il pericolo si dilegua. Ora i guardiani che abitano l'Abbazia si sono acclimati; ma tutti, quali più quali meno, hanno pagato il loro tributo al clima.
Presso al Convento si trovano due fontane; una più abbondante, ma che fornisce acqua né molto fresca né molto buona, l'altra, assai migliore ma scarsa, che accenna a disseccarsi.
Ma il vero bosco di Monticchio, con le sue ombre foltissime, le sue forre impenetrabili era ancora un mito per noi, che desideravamo vedere anche i famosi Bagni di Padula o di Rionero. Prima di tornare a Rionero fu deciso profittare di un gentile invito del Sig. Avv. Tini, un bravo lombardo lanciato con la sua famiglia nel mezzo ad un bosco della Basilicata.
Il 15, nella mattina assai per tempo, per una viottola che può considerarsi parallela al Corso dei Laghi, attraversammo buon tratto del celebre bosco. Giunti al Varco della Creta, nel qual punto il terreno vulcanico lascia il posto ai terreni di sedimento, ed affiorano marmi bianchi, prendemmo verso Sud per salire il colle incoronato dalle rovine dell'antico Castello di Monticchio. Tra quelle pietre coperti di dumi e di muschi, il morale del malacologo, un po' depresso per la scarsità delle raccolte, si rialzò rapidamente e la sua gioia raggiunse un alto diapason; cercando per entro alle rovine vennero alla luce Clausilie, Hyalinie, Campylaee, ed altre specie di gasteropodi, che si godevano il fresco profondamente sepolti nel terriccio protetto dalle pietre e dalla folta vegetazione. Rifatta la via, mentre il botanico raccoglieva, raggiunto il Varco della Creta ed attraversato il Corso dei laghi, sempre pel bosco fummo ai Bagni.
Bagni rinomati, noti ai Romani che vi avevano edificato uno stabilimento; notissimi anche ed adoperati nell'Evo Medio, come risulta da antichi scrittori; illustrati poi di recente, tra gli altri dal sig. Pallottino, di Rionero, che in una nota ne ha tracciato la storia, la composizione e la efficacia.
L'avv. Tini, volle farci assaggiare tutte quelle acque. Sono ferruginose od acidule ed acidule-ferruginose; la loro temperatura varia da 19 a 21 1/2, secondo Pallottino. Non ne mancano di ricchissime di sali ch'io trovai ad una temperatura assai più bassa della minima indicata dall'egregio chimico di Rionero. Sebbene la società anonima per la vendita dei Beni Demaniali abbia costruito alcuni edifizi in legno e fatte molte migliorie, tuttavia sono da compiangersi gli ammalati costretti ad abitare in casotti mal custoditi o mal riparati. Il luogo merita un miglior avvenire, ed a questo dovrebbe pensare il florido paese di Rionero, che ha mostrato d'avere iniziativa ed energia non comune.
Ospiti al Casone, poco lungi dai Bagni, dalla famiglia del sig. Tini, resistemmo, a malavoglia, all'invito fattoci di prendere parte ad una caccia al Cinghiale ed al Capriolo, ed alle 5 pomeridiane eravamo di ritorno ai Laghi. Di là, girato il monte a Sud, percorremmo a passo di carica il tratto dallo sbocco di Valle Grande a Rionero, sopra una strada che spesso varca, con piccoli ponti di travi e di fascine, burroni ed enormi fessure che rendono tanto accidentati quei terreni.
Monticchio appartiene oggi (1880 n.d.A.) alla Società Anonima per la vendita dei Beni Demaniali: venduto ad una delle tante Società che pullularono ad un tratto come funghi nel nostro paese, e che per la maggior parte fallirono, tornò ad essa per inadempimento d'obblighi da parte del compratore.
L'essenza forestale più abbondante in Monticchio, l'unica che abbia importanza economica è il cerro; non mancano castagni, aceri, ma il loro numero non è molto rilevante.
Il giorno susseguente fu destinato al "riposo". Accomodare le raccolte, mettere al corrente i giornali e la corrispondenza, rifare casse e bauli... ecco il riposo. In tutte queste faccende, testa, braccia, gambe non ebbero tregua un momento, e fu giustificato il sospiro di soddisfazione che si dette tutti tre quando, alle 10 pomeridiane, ci trovammo, nel fondo di un carrozzone blindato che forse rammenta i tempi dello sventurato Murat, trascinati sulla via di Potenza.
Quella carrozza-mausoleo si arrestò un momento in Atella per prendervi la posta: della città dove nacque l'antica farsa nulla posso dire; bujo pesto per quelle strette vie, silenziose e deserte. L'unico essere umano sveglio a quell'ora tarda era un vecchio lurido che, sbucato con un lumicino agonizzante dal fondo di una tana, porse brontolando le lettere al conduttore e sparve subito nel suo antro, mentre i cavalli riprendevano la loro corsa ........
 

 

 

 

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