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IL CUORE NUOVO DI DARIO CORSINI

- Romanzo -

Rachele Zaza Padula
 

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PARTE III

“Quando si è al buio, uno spiraglio di luce rincuora, vince il timore dell’ignoto. Carissimo Tommaso, come mai sei venuto? Siediti. Hai bisogno di qualcosa? Cosa posso offrirti?”
Le domande insistenti, la premura e la gioia con cui Dario lo accolse fecero capire a Tommaso quanto il suo amico si sentisse solo; privato degli affetti antichi; in lotta col suo destino perverso.
“La tua è un’accoglienza di grande slancio amicale. Ho spesso pensato a te, alla tua sorte di emarginazione e dolore e avrei voluto vederti prima, parlarti…
Tante circostanze, però, me lo hanno impedito; mi hanno allontanato dalla mia iniziale intenzione di venirti in aiuto, di darti il mio appoggio e il mio conforto.”
“Il mio male è senza consolazione. Non puoi immaginare quanto sia frustrante la mia diversità; quanto essa sia condannata, odiata, sprezzata. Spesso mi ossessiona l’idea di non riuscire a sopravvivere e allora una palpitazione fortissima m’invade il cuore e avverto una fitta che taglia in due il mio petto.”
“Non avvilirti, Dario. Io ti offro il mio sostegno incondizionato: solo ora posso farlo perché mi sono trasferito a Roma a causa del mio lavoro. La mia attitudine e la mia passione per il disegno mi hanno portato a frequentare un Istituto d’Arte di livello superiore in Francia. Sono stato tre anni a Parigi ed ora eccomi designer affermato in un’agenzia di prestigio molto nota.”
Intanto si erano seduti e sorseggiavano un tè freddo al limone. La visita di Tommaso riportò Dario ad atmosfere lontane; quando erano pieni di sogni per l’avvenire, ignari di ciò che il futuro avrebbe riservato a ciascuno. Ricordi cari, mai dimenticati; volutamente accantonati nel fondo della memoria perché non fossero sciupati da un presente di amarezza e disincanto.
“Sono felice che tu abbia trovato la tua strada e sia soddisfatto del tuo lavoro. Non ho dimenticato i tuoi splendidi bozzetti e la tua capacità di cogliere il particolare significante di ogni cosa. Era inevitabile il tuo successo. Io, invece, non lavoro ancora; ma mi prefiggo di farlo al più presto dal momento che, se tutto va bene, mi laureerò a luglio in giurisprudenza.
Che gioia ritrovarci; è indispensabile brindare all’evento! Mi vesto e andiamo a pranzo, così avremo modo di stare insieme per qualche ora. Sapessi cosa significa per me avere vicino un amico come te.”
“Ti ringrazio, ma non posso. Anche per me è importante starti accanto; anzi addirittura esaltante. Vedi, Dario, ti ho sempre ammirato ed ho provato una forte attrazione per te. Io credo che tra le persone quello che conta, quello che è fondamentale, è l’incontro tra le anime; quando, cioè, l’essenza che è in noi, e che noi chiamiamo spirito, si completa con quella dell’altro, indipendentemente dal sesso, dalle classi sociali di appartenenza, dalla razza ecc…
Io mi sento legato molto a te ed ho a cuore la tua redenzione. So da alcune perfide confidenze che frequenti brutta gente e luoghi oscuri e maledetti. Non perderti, Dario! E’ molto difficile risalire dall’abisso in cui ti trovi, ma la tua tenacia ti aiuterà. L’aspetto condannabile della diversità è la brutalità di certe esperienze e questo non è da te. Sono sicuro, conoscendoti, che ti sei lasciato convincere che non ci fosse altro modo per uscire dal tunnel della paura che la depravazione; che non ci fosse salvezza per persone come noi verso cui la natura non ha saputo dare definizione, ma turbolenza. Vedo nei tuoi occhi incredulità e sorpresa. Non ho tempo per spiegarti; sappi che ti ho sempre voluto bene. Ti faccio una proposta: vieni a vivere da me. Abito in un attico spazioso e c’è posto per te, i tuoi libri e tutte le tue cose. Cambiare ambiente ti gioverà: l’attico sporge su Campo dei Fiori; quindi, si trova nel palpitante cuore di Roma. Pensaci. Ora devo proprio andare. Eccoti il mio numero telefonico.”
Dario, travolto dalle parole di Tommaso e smarrito di fronte alla sorpresa per quanto gli aveva detto riuscì appena a balbettare:”Anche tu, anche tu…”
Sulla porta lo abbracciò forte guardandolo negli occhi. In essi Dario scorse una dolcezza che egli aveva dimenticato. Nessuno, da tanto tempo, lo aveva guardato così.
Non aveva replicato, non aveva chiesto spiegazioni. La confessione di Tommaso lo aveva ammutolito e si sentiva fortemente turbato e perplesso. Le parole dell’amico gli avevano suscitato tante reazioni e su tutte dominava il senso di complicità che provava nel constatare che una condizione comune li univa. Pensava “Non me ne sono mai accorto. Forse per lui è stato meno doloroso; me lo ha rivelato, infatti, come se fosse la cosa più scontata del mondo. Non so… Quando? Come?”
Gli era rimasto impresso il suo sguardo intenso; in esso leggeva anche una richiesta di aiuto: insieme avrebbero sublimato la loro frustrazione alla luce di una devozione antica. Era frastornato. La scoperta del segreto di Tommaso da un lato lo sconvolgeva, dall’altro lo confortava. Un senso di pace gli scese nel cuore e pensò all’amico come ad un approdo. Al momento non era in grado di decidere se sarebbe andato a vivere con lui.
“Non ora. Ci penserò.“
Si vestì in fretta e corse in biblioteca.

*

Un signore vestito un po’ all’antica attraversò la corsia del secondo piano dell’ospedale con cautela e curiosità: cercava la stanza 27. Svoltò a sinistra e s’inoltrò in un’altra corsia, ma perse l’orientamento: le stanze partivano dal numero 42. S’accostò, allora, ad una infermiera e chiese della stanza dov’era ricoverato il figlio”ammalato gravemente di cuore, in attesa di trapianto”. Nel dire questo gli tremò la voce per l’emozione. Le sue parole avevano descritto la triste condizione di Dario, il figlio sfortunato. Egli l’aveva caparbiamente ignorata ed ora gli appariva in tutta la sua tragicità.
“Mi segua,”gli rispose Gabriella, interrotta nello svolgimento di un compito, ma ben disposta a compierne un altro.
Alberto Corsini entrò nella camera 27. Era immersa in una stagnante penombra ed era impregnata dell’odore acre dei medicinali.
Dario aveva gli occhi chiusi e sembrava dormisse; ma, al rumore della porta, si girò lentamente. La vista del padre fece sì che il battito del suo cuore subisse una forte accelerazione e rimbombasse dilatato dai macchinari che ne controllavano il ritmo. Il padre temette che si sentisse male, ma, poi, il sorriso dolcissimo del figlio lo rassicurò. Fu pervaso da un sentimento di protezione. Lo stesso che provò quando Dario ancora piccolino gli corse incontro al ritorno da un lungo viaggio.
Si chinò verso di lui e lo abbracciò come poté, poiché i tubi e i tubicini che ingombravano il letto gli impedirono una effusione completa.
Si sedette sulla sedia accanto al capezzale, dopo essersi tolto il soprabito e il cappello. Rimasero in silenzio a lungo; ognuno dei due era pago di aver vicino l’altro e non voleva interrompere la tacita intesa che era nata tra loro. Di tanto in tanto il padre asciugava le sue lagrime che scendevano lungo le guance e quelle del figlio che scorrevano lateralmente dagli occhi. Passò del tempo e nessuno parlò.
Entrò Gabriella, dopo aver bussato.
La scena che vide le fece provare una stretta al cuore. Avrebbe voluto lasciarli nella loro intimità che aveva un che di inviolabile e di sacro; ma, purtroppo, Dario doveva essere trasportato al primo piano per una serie di accertamenti.
Il padre si congedò dal figlio con una stretta di mano, quasi volesse infondergli coraggio e sicurezza. Dario nel vederlo sulla porta, in procinto di andar via, lo chiamò:
“Papà, io…”
Il padre si mise un dito sulla bocca per indicargli di tacere.
Il loro incontro non aveva avuto bisogno di parole; entrambi avevano capito di essersi ritrovati.
In Alberto, mentre usciva dall’ospedale, si insinuò una tenue gioia poiché si era tolto un peso dal cuore. Si rimproverò di essergli stato tanto tempo lontano, specie dopo aver saputo che era gravemente malato. Di avergli negato il suo perdono.
Ora giaceva in quel letto d’ospedale inerte e pallidissimo ed egli provava un rimorso indicibile. Gli aveva dato l’idea che si trovasse nell’anticamera della morte. Si sedette su di una panchina e sussurrò una preghiera al Signore perché aiutasse quel figlio rinnegato.
Sulla via del ritorno a casa ricordò quando, con furia e disprezzo, gli aveva rifiutato ospitalità e lo aveva cacciato.
S’era accorto che in paese da qualche tempo il suo passaggio era seguito da risolini e ammiccamenti. Anche i discorsi di alcuni amici lo lasciavano perplesso. Finché un giorno il fratello Ferdinando andò a trovarlo e gli fece la dolorosa rivelazione.
“Alberto, sono qui per dirti qualcosa che ti farà soffrire molto e Dio sa con quanto dolore lo faccio. Ma è necessario che tu e la tua famiglia sappiate, per potervi difendere e parare i colpi dei curiosi e dei malevoli.”
“Ferdinando, parla; mi metti in agitazione.”
“Hai ragione; i preamboli sono inutili e servono solo a tenerti sospeso. In paese si vocifera, anzi alcuni dicono di saperlo per certo, che Dario è omosessuale: un diverso come si è soliti dire.”
“Sei pazzo, siete pazzi,” sbottò in un impeto d’ira. Era sdegnato che avessero potuto dubitare della virilità del figlio; così aitante; così bravo, così onesto. Parlava, gridava, gesticolava.
“Mi aspettavo questa tua reazione e non ho creduto per un attimo che tu sapessi, come qualcuno malvagiamente ha insinuato. A Roma durante il giorno ha una condotta irreprensibile; frequenta con profitto l’Università e i suoi esami sono brillanti; ma, di notte, lo si può incontrare sulla Laurentina insieme agli individui più strani: prostitute, viados, avventurieri d’ogni tipo e d’ogni banda, drogati. Che dirti di più.”
Alberto dovette sedersi; si sentiva mancare.
Nella sua mente si affacciò il pensiero che, in effetti, non aveva mai visto Dario con una ragazza, né aveva sentito che fosse interessato a qualcuna. Anche quando venivano in casa le amiche della figlia non mostrava attrazione o compiacimento. Dopo qualche scambio di parole, si ritirava nella sua camera.
“Ferdinando, è come se la mia vita crollasse simile ad un castello di carta; intorno a me all’improvviso c’è il vuoto. E’ colpa mia: forse sono stato troppo rigido nell’educarlo; forse sono stato troppo lontano quand’era adolescente e aveva bisogno della mia presenza; o forse è proprio nato così a mia condanna.
Immagino le chiacchiere e le insinuazioni che mortificheranno anche Donatella e la sua giovinezza. Sarà impietoso dirlo a Matilde così orgogliosa dei successi del figlio all’Università. Eravamo una famiglia felice fino a pochi minuti fa, ora un’ombra pesante è scesa a coprire la nostra serenità.”
“Alberto, non pensare agli altri. Certo la cittadina è piccola ed è ancora legata a pregiudizi che nelle grandi aree metropolitane vanno scomparendo. Prima la omosessualità era addirittura punibile con il carcere, oggi è considerata una anormalità, che suscita anche comprensione. Pensa piuttosto a quanto è bravo; presto diventerà un valente avvocato.”
“Avrei preferito che fosse un asino: avrebbe comunque trovato un lavoro onesto e si sarebbe formata una famiglia. Così è un uomo a metà, che non proverà mai le gioie della paternità e del matrimonio. I cattivi istinti si reprimono con la forza del carattere e della volontà. Perché non lo ha fatto? Meglio se fosse morto.”
Quanto gli pesavano ora quelle parole!
Non aveva più rivisto Dario da quel lontano giorno in cui, era il mercoledì santo, suonò alla porta.
Era felice di tornare a casa per le vacanze di Pasqua.
Andò ad aprirgli lui. Lo fermò nella sala d’aspetto e gli disse:“Questa è una casa onorata; non c’è posto per chi cede al vizio e alla perversione. Va’ via: non vorrò mai più incontrarti, né sapere di te.” Non gli permise neppure di salutare la madre e la sorella.
Gabriella riportò Dario nella sua camera dopo che erano stati effettuati tutti gli esami richiesti; lo sistemò nel letto e gli disse:
“E’ veramente una bella persona suo padre: è una fortuna, sa, avere un padre così. Anche se nell’aspetto può apparire severo e poco disponibile, ha uno sguardo dolcissimo e i suoi occhi sono lo specchio di un animo sensibile. Quando l’ho accompagnato, ho notato che esitava prima di entrare, quasi volesse frenare la commozione ed un certo smarrimento.”
“Grazie,Gabriella delle sue parole. E’ sicuramente un grand’uomo. La sua visita per me è stata una benedizione. Mi sento più forte; mi pare che abbia significato continuare a vivere. Nella mia borsa c’è un piccolo album di fotografie, la prego di porgermelo. Non finisco mai di abusare della sua cortesia. Purtroppo, non sono in grado di essere autonomo. Forse un giorno…”
“Sono sicura che i suoi patimenti finiranno presto e il suo caso si concluderà nel migliore dei modi. Ecco l’album. La lascio ai suoi ricordi.”
Gabriella uscì e Dario cominciò a sfogliare l’album, ma ben presto lo chiuse. Non riusciva a sostenere l’emozione che provava nel rivedere i volti delle persone amate, degli amici, dei professori, dei compagni di scuola, tra i quali Tommaso, il più caro.
Oh, Tommaso, Tommaso! Certamente una spirale di brutalità e violenza avrebbe travolto la sua volontà e la sua esistenza senza il suo provvido intervento.

*

Era una chiara mattinata di fine aprile quando Tommaso andò a prenderlo con la macchina, una Rover di tutto rispetto. L’aria era tiepida e confortevole, come può esserlo a Roma a primavera. Dario nell’uscire dalla sua camera provò una forte trepidazione, dovuta certamente all’ansia del nuovo e al desiderio di liberazione dai legami pericolosi, sempre in agguato con le loro insidie.
Alcune sere prima del suo trasferimento, aveva chiamato Consalvo e gli aveva rivelato a cuore aperto la sua decisione di andare a vivere con Tommaso.
“Sai, ci ho pensato a lungo e, alla fine, mi è parsa la soluzione migliore dei miei problemi. Io spero di non tornare mai più indietro, anche se sarà impossibile cancellare il ricordo del periodo di sperdimento; esso tornerà sempre alla mia memoria come ombra e condanna sui giorni futuri. Salutami quelli che mi sono stati amici e a Mirko restituisci la busta con il danaro. Non l’ ho aperta perché mio padre, pur rinnegandomi, non mi ha fatto mancare l’assegno mensile che è arrivato con la solita puntualità, ma senza le parole affettuose che era solito scrivermi prima. Non so, se avessi avuto bisogno, cosa avrei deciso di fare di quei soldi ed anche dei rapporti con Mirko.”
“Non chiedertelo. Ti fai soltanto del male. Io ti auguro che la tua scelta sia quella giusta e che mai essa torni a tuo svantaggio. Devi credermi, quando qualcuno di noi trova una possibilità di vita nuova, confido con tutto il cuore che la sorte gli sia amica. Questo mio altruismo nasce da una aspirazione al riscatto che per me vedo irrealizzabile, ma che, come sfida al destino avverso, mi fingo sia possibile per gli altri. Da quando ti ho conosciuto ho capito molte cose; sono diventato meno astioso, meno vendicativo e più disposto a capire me e gli altri.”
Gli tremava la voce e Dario si commosse.
Consalvo aiutò Dario a scendere i bagagli: due borse cariche di libri ed una valigia di effetti personali. Conobbe Tommaso e lo fissò con uno sguardo di curiosità e di interesse. Forse era un po’ geloso della sua condizione sociale ed economica che gli permetteva di vivere in maniera dignitosa la sua diversità; ma, essenzialmente, perché si portava via Dario, che per lui era diventato un amico speciale.
Voleva bene davvero a Dario; con le sue incertezze, i suoi rimorsi risvegliava la parte migliore di sé. Nel salutarlo, avrebbe voluto chiedergli perdono: sentiva di essere il responsabile della abiezione dell’amico che non apparteneva fino in fondo ad una razza persa come la sua. Non osò dirgli nulla, anche perché la presenza di Tommaso lo condizionava. Si limitò ad augurargli di laurearsi col massimo dei voti: lo meritava poiché aveva studiato tanto.
“Ti informerò del giorno e dell’ora della mia laurea in modo che tu possa esserci. Ci tengo molto.”
Si abbracciarono di fronte a Tommaso che aveva evidente fretta di andare via. Gli sembrava che il loro fosse un distacco troppo affettuoso; voleva, invece, che Dario si allontanasse senza rimpianti da quel posto.
Mise in moto la macchina e si allontanarono.
Consalvo tornò nella sua camera con un senso di vuoto nell’animo.
Dario rimase colpito dall’efficienza di Tommaso. Da quando gli aveva telefonato comunicandogli che accettava il suo invito, aveva in pochi giorni organizzato tutto e bene. Egli si era completamente affidato a lui; non aveva interferito; si era limitato a condividere i suoi programmi. Fu sorpreso, perciò, dal pensiero che, nella sua scelta di far fare tutto al suo amico, si nascondesse il rischio di perdere la sua libertà; di diventare succube per gratitudine.
Tommaso, come avesse letto nella sua mente, gli disse:
“Beninteso stamattina finisce il mio compito di pensare alla tua sistemazione. Una volta a casa ritieniti libero di disporre della tua vita, delle tue giornate, delle tue ore; insieme, poi, cercheremo di conciliare i nostri impegni, in modo da godere della nostra reciproca compagnia.”
Pronunziò queste parole con tale tenera fermezza che Dario si dispose ad affrontare la nuova esperienza con tranquillità ed ottimismo; essa sarebbe stata certamente meno scabrosa di quelle vissute.
Gli sembrò che Tommaso si fosse materializzato dal suo stesso desiderio di uscire fuori da un pericolo che lo minacciava, una volta liberatosi dallo studio intenso in vista della laurea.
La casa di Tommaso era molto confortevole.

*

Dida si affacciò alla finestra e rispose con slancio al richiamo di Marcello. Erano le tredici e trenta di un giorno chiaro senza nuvole in cielo. L’aria settembrina infondeva negli animi una sensazione di quiete dopo il furore estivo.
Il suo nome in realtà era Loredana, ma, poiché il figlio di una vicina, particolarmente legato a lei, la chiamava zia Dida, tutti avevano accettato quel nomignolo, che giudicavano divertente e piacevole.
Aveva riconosciuto il clacson dell’auto del suo fidanzato.
Si conoscevano da bambini; erano vissuti a Milano, nello stesso quartiere, ed erano legatissimi al punto che, quando uno dei due era lontano o malato, l’altro viveva esclusivamente nell’attesa di rivederlo. Dida era solita dire che in questa circostanza si metteva in pausa nell’attesa di riprendere a respirare e a vivere. Erano entrambi impiegati: lui presso la Corte dei Conti come ragioniere, lei faceva la commessa in una pasticceria del centro. Avevano deciso che si sarebbero sposati il prossimo anno, dal momento che la casa era quasi pronta. La casa era un regalo di una zia di Dida che era senza figli ed aveva lei come unica nipote. Una vera fortuna! La loro storia d’amore era nota a molti: sul lavoro, tra i parenti, tra i numerosi amici. Erano due giovani che facevano simpatia.
Da un mese avevano deciso una breve vacanza.
Dida prese con sé il borsone che aveva approntato la sera prima e un cestino con la colazione. Avrebbero fatto uno spuntino prima di arrivare nell’albergo, sul lago di Como, dove avevano prenotato per un soggiorno di quattro giorni.
Salutò la mamma e il papà e varcò la soglia di casa, dopo aver ascoltato sorridendo le raccomandazioni che essi le rivolgevano, accompagnandola fino sull’uscio. Scese le scale felice.
Era davvero una bella ragazza: slanciata, dalle forme morbide e con un viso molto interessante in cui risplendevano due grandi occhi azzurri. I suoi capelli biondo naturale la illuminavano, anche se era solita legarli con un fermaglio. Ne aveva tanti e di vario tipo: di tartaruga, di osso, di velluto, di raso; altri, i più eleganti, erano tempestati di jais colorati. Molti suoi compagni l’avevano corteggiata; ma ella aveva scelto Marcello senza esitare.
Una sera Marcello le aveva detto:
”Ricordati che il mio cuore è tuo; non ha battiti senza di te. Tu sei la sua sposa da sempre e per sempre.”
Dida indossava un jeans attillato, che metteva in risalto la sua figura, ed una camicetta rosa a quadrettini; sulle spalle aveva poggiato un maglioncino blu.
Lo vide e gli sorrise. Marcello la aspettava in macchina; ma, appena la scorse, le andò incontro; la baciò e le tolse i bagagli dalle mani, per sistemarli nel bagagliaio. Si girarono verso la finestra dove i genitori di Dida agitavano le braccia in segno di saluto.
“Attenti, non correte”, gridarono. Ma i due fidanzati, già in macchina, non li sentirono.
Si fermarono in un prato e consumarono le buone cose che Dida aveva preparato insieme con la mamma la sera precedente. I dolci le erano stato offerti dal suo datore di lavoro.
Marcello le disse:
“Starei qui con te all’infinito. Vorrei che il tempo si fermasse. Siamo davvero fortunati a volerci tanto bene; un amore come il nostro è raro; è certamente un dono prezioso che abbiamo ricevuto.”
“E’ vero, mio caro, il pensiero che c’è un’altra persona cui posso confidare aspirazioni, sentimenti, paure, riflessioni, mi fa star bene. Io ho la convinzione che tu completi il mio essere; ecco, sento di essere davvero la tua metà.”
“Ora basta a compiacerci del nostro amore. Difenditi, piuttosto.”
Nel dire così si avvicinò a lei e la strinse sul petto. Fu un momento di intensa emozione. Egli le carezzò il volto, i capelli e la baciò ardentemente sulla bocca. Il rintocco dell’orologio di un paese vicino ricordò loro che dovevano proseguire. Erano le quindici e trenta.
Splendeva il sole e la loro giovinezza.

*

“Emergenza nella camera 27”comunicò la caposala al personale che era accorso al suono prolungato del campanello. Dario era in piena crisi: l’elettrocardiogramma era gravemente alterato e il respiro affannoso. Il medico di guardia ordinò di portare presto il paziente in rianimazione e di chiamare subito il primario.
Dario stava perdendo conoscenza. Tutto andava allontanandosi ed egli si sentiva fluttuare nella stanza con gli infermieri, il letto, il comodino e la cartella clinica da cui fuoriuscivano lentamente i fogli su cui giorno per giorno venivano appuntati i riscontri e gli esiti della sua sofferenza. La storia del suo male e della sua sconfitta.
Nella dimensione in cui si trovava arrivava appena la concitazione che lo circondava; aveva la sensazione di non essere lui l’oggetto di tanto fermento, ma un estraneo.
Giunse il dottor Ferri, un uomo di poche parole; ma un vero genio della chirurgia dei trapianti. Aveva chiaro nella sua mente lo schema dei vasi che dovevano essere collegati al muscolo trapiantato. L’amore per la medicina e un forte altruismo lo avevano spinto a dedicarsi con tutto se stesso all’arduo compito di salvare quante più vite fosse possibile. Sentiva nel profondo del suo animo l’alto valore della sua missione e la sacralità della vita umana.
“Se non arriva un cuore compatibile, lo perdiamo,”disse visitando Dario. “Sarebbe un vero peccato! Il suo cuore è in necrosi per buona parte, di conseguenza, la sua azione di pompa è ridotta al minimo. Sia la macchina a sostituirlo; intanto procedete con la terapia di routine in questi casi. Ci vuole un miracolo.”
Uscì dalla sala di rianimazione contrariato, dispiaciuto per quel giovane la cui esistenza era ormai appesa ad un esile filo. Durante la sua lunga degenza ne aveva apprezzato la cultura e la sensibilità; anche se spesso usciva dalla sua camera con un senso di amaro poiché scorgeva nei suoi occhi una disarmante tristezza che egli attribuiva non solo al suo male, a quello certamente, piuttosto, ad un rodimento intimo; ad una ferita. Si era chiesto più volte se Dario Corsini volesse vivere o volesse addormentarsi per sempre nel languore della morte e lasciare agli altri la lotta. Allora in lui l’interesse dell’ uomo superava quello del medico.
Entrò nel suo studio e si mise a leggere il testo di uno studioso americano sull’accanimento terapeutico. A riguardo egli era del parere che si dovesse tentare fino in extremis di tenere in vita il paziente ed escludeva l’eutanasia; oltre che per rispetto della deontologia, per ferma convinzione personale.
“Caro Gustavo, vengo a riferirti che Dario Corsini risponde alle cure mediche e mostra segni di ripresa,” disse l’aiuto del dottor Ferri.
“Bene, bene. Speriamo nella efficacia delle nostre cure, ma principalmente affidiamoci a Dio. Abbiamo bisogno del suo aiuto perché arrivi un cuore compatibile al più presto. Nella mia lunga esperienza ho potuto constatare che, quando vuole Lui, le cose si risolvono: addirittura la ferita che si era incancrenita si rimargina; il paziente in coma profondo da tempo si risveglia e sorride come se la sua vita non si fosse interrotta; le cellule cancerose scompaiono e così via…
Nel nostro caso è necessario il suo intervento senza il quale non potrà essere eseguito il mio.”
“Hai ragione. Vado via; ti lascio riposare.”
“Non mi muovo; resterò qui per ogni evenienza.”
Il dottor Sandro Perissi uscì. Ancora una volta era stato colpito dalla magnanimità e dall’alto valore morale del suo amico. Verso di lui nutriva un forte sentimento di ammirazione e di stima. Aveva sempre ritenuto un grande onore lavorare al suo fianco. Era straordinario vederlo operare: la perizia dei suoi gesti, la perfezione della sua tecnica, l’evidente passione con cui lottava contro ogni forma di malformazione e di malattia erano da tutti riconosciute e apprezzate. E poi, la sua umanità e la sua dolcezza nel rapporto con i pazienti, con il personale medico ed infermieristico ed anche con i parenti dei ricoverati, facevano sì che lo amassero.
Gustavo Ferri, rimasto solo mise la cuffia e selezionò il suo brano preferito: la Polonaise n°6 opera 53, in la bemolle, di Federich Chopin. Suo padre era morto quando aveva quindici anni e lui era vissuto con la madre, una pianista di grande talento ed una prestigiosa interprete del genio polacco, di cui rendeva in modo efficace il brano scritto per la caduta di Varsavia. Egli custodiva gelosamente la registrazione di tutti i suoi concerti.
Si assopì al suono di quella musica meravigliosa.

*

“Dida, allaccia bene la cintura; non mi pare ben sistemata. Se tutto va bene tra poco saremo al lago.”
“Agli ordini”, rispose Dida, facendo con la mano destra il saluto militare. Era felice e si sentiva leggera: finalmente quattro giorni senza lavoro e senza la solita quotidianità! Legò le braccia attorno al collo del suo fidanzato e gli disse:
“Promettimi che non mi lascerai mai; io non saprei vivere senza di te, senza i palpiti del tuo cuore sul mio.”
“Ed io, invece, farò del tutto per trovare qualcuna che ti sostituisca e che mi faccia dimenticare il tuo viso che, devo riconoscere, è veramente delizioso.”
Poi, sorridendo, le sciolse le braccia e la baciò con ardore.
Il viaggio procedeva senza ostacoli; l’autostrada era poco affollata e la visibilità era buona. Cominciarono a cantare la loro canzone preferita”Volare” di Domenico Modugno, che in quel momento era adatta a significare l’incantesimo che stavano vivendo.
Mentre cantava Marcello ebbe un leggero giramento di testa; senza scomporsi pensò che forse non avrebbe dovuto bere quel po’ di birra. Il leggero malessere sarebbe passato presto: era inutile, perciò, allarmare Dida. Alla prima piazzola di sosta si sarebbe fermato.
Un buio improvviso gli oscurò la vista e in un attimo la macchina fu in fondo alla scarpata. Il grido straziante di Dida si diffuse tremendo e ferì le contrade. Si girò e vide Marcello con il capo reclinato sul sedile: da una narice fuoriusciva un filo di sangue, che sembrava l’unico segno di vita in un viso cereo. Lo chiamò ed egli mosse le palpebre, poi, più nulla.
Uscì dall’abitacolo e vide affacciati al parapetto dei signori. Erano dei camionisti che avevano visto l’incidente ed ora le chiedevano se aveva bisogno di aiuto. Dida disperata fece loro capire che lei stava bene, ma che il suo compagno era gravemente ferito.
Tutto si svolse rapidamente: i soccorritori chiamarono l’ambulanza e nel frattempo cercavano di confortare quella povera ragazza che in un giorno di sole avrebbe forse perso il suo amore.
Gli infermieri caricarono con riguardo il ferito sulla barella e ben presto l’ambulanza giunse all’ospedale con il suo carico doloroso. Dida piangeva. Durante il tragitto aveva tenuto la mano inerte di Marcello nella sua, sperando che gliela stringesse; chissà un segno di risveglio…
“Marcello, mio adorato, ti prego, svegliati. Per l’amor di Dio, non perdere la forza di vivere. Non mi lasciare in un deserto di stelle. Senza te nulla ha più senso; niente ha più forma e colore.”
Erano così spensierati e l’autostrada li avrebbe portati verso la felicità. Ma in agguato c’era il cono d’ombra della sorte avversa che li aveva inghiottiti.
Avrebbe ricordato per sempre la corsa disperata e l’urlo acuto delle sirene che tagliava l’aria come un presagio di sventura.
Portarono Marcello in sala di rianimazione dove un’équipe di medici, precedetemene avvertiti lo attendevano. La porta a vetri lattiginosi, impietosi, si chiuse e Dida rimase fuori incredula e sconvolta. Forse era un brutto sogno dal quale si sarebbe presto risvegliata.
Giunsero trafelati la mamma e il papà di Marcello e la abbracciarono. L’ansia e il dolore avevano deformato i loro lineamenti: avevano gli occhi sbarrati e le labbra gonfie, mentre un tremito leggero rendeva malferme le mani. Non dissero una parola.
Fu Dida a rompere il silenzio:
“E’ in sala di rianimazione.”
Si sedettero su di una panca di formica che trasmetteva loro un freddo innaturale.
Non passò molto tempo e i medici uscirono dalla porta del responso. Avevano un’aria mesta mentre si liberavano del copricapo e della mascherina. Uno di loro, il più autorevole, si avvicinò e disse:
“Abbiamo fatto il possibile, ma senza alcun risultato. Ci dispiace profondamente. Sappiamo che non è questo il momento per rivolgervi una domanda, lasciando a voi la piena libertà di rispondere senza remore o false suggestioni. Sapete se era volontà del vostro congiunto di donare gli organi in caso di morte? Non voglio che ci giudichiate insensibili alla vostra angoscia, ma, purtroppo, non c’è tempo per una decisione serena e meno concitata perché, se la vostra risposta è affermativa, bisogna procedere al più presto all’espianto.”
Gli risposero, quasi in coro, che Marcello era convinto fosse un dovere salvare altre vite e che in più occasioni si era pronunziato a favore della donazione dei suoi organi.
Il professor Ferri espresse parole di commozione e ammirazione nei riguardi del giovane. Poi corse verso il suo studio seguito dagli altri medici e dagli infermieri.
“Già conoscete quanto è necessario fare; precettate chirurghi, ferristi, l’anestesista. E’ un’emergenza; voglio tutti nella sala riunioni.”
Con piglio deciso e autoritario si rivolse ai convenuti:
“Non c’è tempo da perdere; procedete secondo l’iter consueto per quanto riguarda l’espianto degli organi. Per il cuore abbiamo un’altra urgenza, quella di verificare se è compatibile con il cuore di Dario Corsini. Forse per quest’ultimo è arrivata una speranza di vita.”
Dida e i genitori di Marcello rimasero soli senza una consolazione. Pensavano a Marcello, al suo viso caro, ai suoi occhi ridenti, al suo portamento, ahimè!, al suo ottimismo.
Non era ancora un ricordo: era trascorso troppo poco tempo dalla sua morte; era, invece, una presenza che illudeva che da un momento all’altro comparisse davanti a loro e li abbracciasse. Dida disse:
“Vado a telefonare ai miei. Non l’ ho ancora fatto perché ho ritenuto doveroso telefonare prima a voi. Poi, le cose sono precipitate. Il nostro è un dolore troppo grande da sopportare.”
Si allontanò in grande pena; si sentiva lontana, in un totale distacco dalle cose e dalle persone.
“Figlia mia sfortunata! Che disperazione! Che disperazione! Veniamo subito io e tuo padre.” Così la madre di Dida appena apprese la triste notizia.
Il sole era al tramonto; i raggi, che filtravano tra una nuvolaglia rada, sembravano ferire gli alberi, i balconi fioriti. Lentamente si spegnevano la luce e il calore: quella sera, nella natura, si avvertiva più forte un senso di fine.
Le ombre da occidente avanzavano a grandi passi.

*

Tommaso fu avvisato alle diciotto. Avrebbero operato Dario tra due ore: già si svolgevano minuziosamente i preparativi.
Da quando Dario si era aggravato, era la prima volta che era tornato a Roma, perché il suo lavoro esigeva la sua presenza. Una preoccupazione costante lo accompagnava e proprio il giorno prima gli aveva detto per telefono, che si sarebbero rivisti a fine settimana. Si vestì in fretta e con furia entrò in macchina.
Durante il viaggio ripercorse con la memoria gli eventi più significativi della loro vita in comune. Il giorno della laurea di Dario, conseguita con centodieci e lode, e la loro gioia. Festeggiarono in un ristorante alla moda, molto elegante, e tornarono a casa un po’ brilli. Fu proprio quella sera che, forse per effetto del vino, si lasciarono andare ad una confessione più profonda dei loro sentimenti.
“A mio parere, Dario, l’amore è una scintilla divina. Non credo che il nostro sia condannabile. Io mi sento attratto fortemente dal tuo pensiero, dalle tue doti spirituali, dalla tua ironia, dalla tua capacità di essere te stesso in ogni circostanza. La tua vicinanza mi fa star bene, perché mi fa vincere la mia timidezza e la mia insicurezza.”
Così gli aveva detto, dandogli il regalo che gli aveva comperato per la laurea: una pregiata edizione dei codici.
“Tommaso, grazie di tutto. Sappi che tra noi due sono io quello a doverti maggiore gratitudine. Tu mi hai salvato da un percorso pericoloso e sbagliato; mi hai allontanato da amicizie dannose, dalle quali avrei potuto essere travolto senza possibilità di rinsavimento. Ti devo la mia dignità riacquistata e la consapevolezza che, anche se fuori dalla sensibilità comune, due esseri possono coltivare aspirazioni apprezzabili.”
Così gli aveva risposto Dario ed egli aveva sentito un caldo scendergli nel cuore.
Si ricordò della sorpresa che il suo amico aveva provato quando gli aveva proposto di entrare in un importante studio legale che curava, tra gli altri, anche gli interessi dell’azienda presso cui egli lavorava.
Dario accettò. Ben presto i colleghi e tutti gli impiegati apprezzarono la sua preparazione e lo interpellavano spesso riguardo alle problematiche legislative.
Ricordò, ancora, la sua commozione il giorno in cui ricevette il biglietto di congratulazioni del padre e della sua famiglia per il conseguimento della laurea. Erano parole di circostanza che non lasciavano trapelare calore o affetto.
Aveva scritto loro, oltre che per comunicare la brillante conclusione degli studi universitari, per ringraziarli per il loro sostegno finanziario e per tutti i sacrifici che avevano affrontato per lui.
Se avessero voluto, sarebbe andato da loro per rivederli in gran segreto, per non metterli a disagio. Purtroppo, questa sua richiesta non era stata accolta.
Condividevano la predilezione per la musica classica e il jazz e facevano a gara per trovare esecuzioni prestigiose dedicando buona parte del tempo libero ad ascoltarle. Alcuni amici si recavano a casa loro per godere di queste serate musicali e ammiravano molto la loro collezione.
Il ritmo della loro vita era perfetto: ognuno era in sintonia con l’altro per le necessità e le urgenze comuni, ma aveva, poi, spazi propri che assicuravano la libertà personale. Fecero una vacanza negli Stati Uniti d’America e fu esaltante verificare come avessero gli stessi gusti.
Lo spettacolo che più li suggestionò fu il Grand Canyon del Colorado.
Anche nei momenti di passione li legava una tale naturalezza, una tale complicità affettuosa che essi conservavano intatta la loro dignità. Dopo le effusioni riuscivano sempre a guardarsi negli occhi e a sorridere.
Insomma li univa una grande intesa; erano come due naufraghi che cercano, dopo una brutta avventura vissuta, di sopravvivere nel migliore dei modi.
Nel palazzo alcuni inquilini erano cortesi e mostravano di averli accettati, altri, invece, quando li vedevano mostravano segni di sdegno e di insofferenza. C’era,infine, uno strano personaggio solitario che era spietato con loro. Andava a messa ogni mattina di buonora e si tratteneva in chiesa quasi tutto il giorno. Quando li incontrava rivolgeva loro apertamente parole oltraggiose.
Una sera affrontarono un discorso che avevano sempre evitato.
Fu Dario a dire a Tommaso:
“Invidio la serenità con cui hai accettato e accetti la tua condizione, anzi la nostra condizione, che, invece, a me fin da ragazzo ha procurato perplessità, rimorsi di ogni genere, paure.
Come hai fatto a dominare questi sentimenti che credo siano conseguenti alla scoperta della nostra anomalia? Sei stato sempre così tranquillo tanto da pianificare la tua vita senza dubbi; senza tormenti?”
“No, Dario, non è stato sempre così. Quando mi accorsi di avere trasporto per il mio stesso sesso fui preso da stupore e curiosità. Mi chiedevo perché fosse capitata a me una cosa che non avrei voluto per nulla al mondo e se era possibile evitarla.
Senza lasciarmi prendere dallo sconforto lessi disperatamente tutto sull’argomento: era diventata una vera e propria ossessione. Esempi, episodi del presente e del passato mi spingevano a riflettere e a pensare che non era una scelta la mia; ma una tendenza naturale. Sì, era stata la natura a disporre così di me, pertanto, mi sembrava strano che io e quelli come me fossimo giudicati persone dalle inclinazioni contro natura.
Dopo mesi di questa tensione investigativa, con la volontà di trovare risposte o certezze a quello che io chiamavo”il mio segreto” subentrò in me una calma, come un senso di pace. Essa era dovuta alla conclusione che nel mondo c’è posto per tutti e che il corpo non è la parte più importante del nostro essere, ma lo sono lo spirito, la mente, le meraviglie del pensiero. Esso non è che l’involucro di questi tesori.
Mi sono sentito da allora normale anche se per gli altri non lo ero e, poiché la mia propensione non era frutto della mia volontà, non mi sentivo un peccatore. Tra tanti milioni di vite che ci sono al mondo: dagli uccelli tropicali dalle piume variopinte agli splendidi pavoni, ai coralli che formano barriere di bellezza ineguagliata, agli uomini e alle donne che godono di tutte le ricchezze del creato e si stupiscono di fronte ad esse, e pensano, amano riflettono, si commuovono, c’ero anch’io. Anch’io creatura nel grande mare dell’essere.”
“Quello che mi dici è meraviglioso. Per me, invece, è stato diverso. Ho conosciuto la mia diversità nel modo più brutale. Un compagno di scuola, non di classe: forse lo ricordi, Ferruccio Guidi, un mattino…Non te ne voglio parlare; sappi soltanto che da quel momento e da un successivo incontro con lui nutrii la convinzione che per me non c’era scampo e che ero destinato al vizio e alla dannazione.
Ne parlai anche a Don Carlo il quale mi invitò a pregare e ad affidarmi al Signore perché mi desse la forza di vincere i miei anomali desideri.
Tu hai mai fatto ricorso all’aiuto della fede?”
Alla domanda di Dario Tommaso non rispose subito, anzi fece seguire un silenzio scontroso.
Dopo alcuni minuti, ancora un po’ incupito, rispose:
“Il problema era mio ed io dovevo risolverlo. L’ho fatto giungendo alle conclusioni di cui ti ho parlato e che mi hanno dato una certa tranquillità che mi fa vivere in pace con me stesso. Di una cosa sono certo: Dio, se c’è, non mi è amico.”
Questa affermazione, così dura, fece capire a Dario quanto anche Tommaso, che ostentava completa padronanza del suo modo di essere, avesse sofferto.
Provò un evidente disagio per superare il quale ritenne che l’unica cosa opportuna fosse quella di continuare il suo racconto.
“Presi, quindi, la decisione di anticipare l’esame di licenza liceale per fuggire da Sulmona e dai miei; per evitare loro la vergogna e l’umiliazione. Non so dirti quanto ho patito e lottato. A Roma, poi, ebbi l’incontro decisivo con Consalvo, vittima di un destino di infamia cui non si è mai ribellato. Quando penso a quegli anni mi prende un’amarezza senza conforto. Se avessi saputo prima di te; forse…”
“La mia vicenda ha avuto risvolti diversi. Da sempre, da quando eravamo ragazzi, tu per me sei stato una luce nell’oscurità della tempesta della mia anima. Ammiravo la tua cultura, la tua bravura; mi incantavo a sentirti parlare. Mi piaceva quello che dicevi, come lo dicevi; da allora ho desiderato vivere con te.
La nostalgia della tua persona mi ha tenuto lontano da esperienze scabrose. E quando ho saputo che t’eri perduto, sono corso in tuo aiuto. Non devi ringraziarmi per quanto ho fatto per te perché l’averti accanto mi riscalda e dà un senso al mio lavoro e alla mia vita. La tua felicità è la mia; la tua tristezza è la mia; mi pare di non poter vivere senza il fervore intellettuale e spirituale del nostro dialogo. Ove mai una forza maggiore delle nostre volontà dovesse dividerci, il tuo ricordo e il ricordo di questo tempo vissuto insieme riempiranno le mie giornate.”
“Non merito questa tua dedizione. L’averti incontrato è stata la mia salvezza; tu sei più forte e più degno di me. Io, peraltro, mi sento uno sconfitto dalla vita, che per noi è una vita a metà. Il mio passato è sempre vivo nella mia mente e mi abbandona poche volte. Neppure le soddisfazioni che ho nel campo lavorativo, né il tuo affetto così profondo, che mi riempie il cuore, riescono a farmi dimenticare alcune azioni abiette e sconsiderate che non mi fanno onore, anzi…Non sono in grado di cancellarle: pesano sulla mia coscienza come un macigno.”
“Devi farlo; se non per te fallo per me. La tua riconoscenza si traduca nel tuo sforzo di dimenticare quello che è stato; di liberarti dai viluppi che ancora ti legano ad esso. C’è anche da dire che oggi l’approccio al nostro problema è più comprensivo grazie all’evoluzione del pensiero e delle scienze: non c’è più condanna spietata da parte della società.Questa non accetta, ed a ragione, che l’anomalia diventi vizio, perversione, sfida morale, provocazione, violenza. Pensa che ogni forma di amore sublimata arricchisce e non degrada: così possono amarsi tutti gli esseri del creato senza colpa. Che tu abbia perso il senso del limite e del lecito in un breve periodo della tua via, spinto dalla disperazione che annullava la tua razionalità e accecava il tuo giudizio, non può ritorcersi a condanna degli anni futuri. Pensa alla libertà con cui vissero gli uomini primitivi, la cui unica preoccupazione era la sopravvivenza. Ancora non erano condizionati da codici morali, che pur necessari all’umanità perché vinca i suoi istinti più bassi, non devono poi irretire nei lacci di una spregevole ipocrisia. Sii più ottimista, Dario. Animo! Liberati dalla costante afflizione di essere come sei. Accettati e in te subentrerà una dolce leggerezza.”
Dario rimase assorto e tacque. Il mattino seguente confessò a Tommaso che per tutta la notte aveva ripensato alle sue parole.
La sera in cui Dario ebbe l’infarto avevano da poco cenato e stavano seguendo una trasmissione televisiva sul popolo dei Maya, sulla loro straordinaria civiltà e sulla loro tragica scomparsa.
Un rantolo profondo, di bestia ferita, fece voltare Tommaso verso il suo amico, che giaceva riverso sul bracciolo del divano, inerte, bianco come un cencio lavato. Chiamò subito l’ambulanza che, poiché il tragitto che li divideva dall’ospedale non era lungo, arrivò presto e Dario potè avere i primi soccorsi.
Tommaso ricordò che Dario era solito dire che il suo cuore da un momento all’altro gli avrebbe tirato un brutto scherzo; era a rischio. Troppo aveva penato e tutto il suo dolore lo aveva chiuso in esso.
Lo rianimarono a fatica. Il medico di turno disse di non aver mai visto il muscolo cardiaco quasi completamente privo del flusso sanguigno.
E cominciò così la lunga agonia. Vennero il trasferimento a Milano nell’ospedale Niguarda e i lunghi mesi trascorsi nell’attesa del trapianto: la sola e unica via di salvezza.
Tommaso giunse nel cortile dell’ospedale illuminato da una luce bluastra proveniente da alti lampioni a forma di cono rovesciato. Fu scosso da un brivido.
“Basta con i ricordi. Ci siamo. Dobbiamo pensare al presente, ahimè, così incerto!, e non disperare in un possibile futuro. Questa è la prova definitiva, non c’è ulteriore appello.”
Aveva perduto Dio e non l’aveva più ritrovato. In questa occasione ne sentì la mancanza. Era solo. Avrebbe voluto dirgli:
“Io, che sono indegno di rivolgermi a Te, ti prego, non per i miei meriti, ma per tua grazia, di salvare il mio povero amico. Da mesi vive sospeso; vicino alla fine.
E’ inutile che io ti dica di me; di come ho vissuto: tu sai tutto del mio sgomento e della mia audacia. Abbi pietà di due nature sbagliate, di due persone alla ricerca di una identità e desiderose di pace. E’ così grande il nostro peccato di esserci uniti per affrontare insieme una vita distorta, senza armonia, senza frutti? Con la tua onnipotenza salva Dario: è tutto quello che ho; oltre a lui niente e nessuno ha valore per me.”
Guardò verso il cielo alla ricerca, forse, di un segno d’accoglienza della sua tacita preghiera, ma quella sera il cielo era più nero del solito e senza stelle.
Si informò: Dario era già da quasi tre ore nella camera operatoria.
Si sedette su una panchina. Il tempo sarebbe stato lento a passare.
Poco lontano da lui, nella stessa stanza, c’era un gruppo di signori che confortavano una ragazza in lagrime. Sembrava inconsolabile. Dopo un po’andarono via.

*

Poche ore prima il dottor Ferri era pronto. Doveva soltanto infilarsi i guanti di lattice. Aveva studiato nei minimi particolari l’operazione, anche se non si era mai sicuri che non sorgesse qualche ostacolo imprevisto. Primo fra tutti, poteva capitare che il paziente reagisse in modo diverso da quello calcolato. La sua era una responsabilità grandissima che lo teneva in apprensione alla vigilia di ogni intervento difficile e gravoso. Si insinuava in lui persino il pensiero che la sua sicurezza fosse un segno di sfida e di presunzione contro le leggi della vita. Talvolta era davvero come risuscitare dei morti. E se avesse sbagliato? Se avesse osato troppo nel volere a tutti i costi il trapianto? Alla fine, e questo gli capitava sempre più di frequente, un pensiero consolatorio sopraggiunse e annullò tutte le sue ansie. La scienza non era che un dono di Dio nelle sue mani.
Entrò nella sala operatoria e chiuse la porta dietro di sé. Era tranquillo. Avrebbe impegnato tutte le sue cognizioni e la sua esperienza per salvare quel giovane che aveva imparato a stimare durante la lunga degenza.
Nel vederlo, i due aiuti, i ferristi, l’anestesista e gli infermieri si allertarono. Conoscevano quello che avrebbe detto e fatto e si disposero a lottare con lui per la buona riuscita della operazione.
“La tecnica chirurgica che utilizzerò è quella ortotopica dal momento che non c’è alcun impedimento che il cuore trapiantato venga collocato nella stessa posizione di quello nativo una volta espiantato” annunziò il dottor Ferri; quindi, rivolgendosi alla anestesista, le raccomandò di monitorare attentamente tutti i parametri vitali e di comunicare immediatamente qualunque squilibrio, anche il più insignificante. Poi, aggiunse:
“Colleghi, il risultato che tutti auspichiamo è nelle mani di Dio; ma è anche nella nostra attenzione, nelle nostre capacità, nella nostra collaborazione scrupolosa.”
Seguì una serie di atti dettati dalla perizia di quel gruppo di operatori che, senza un attimo di tregua, tagliavano, ricucivano, pompavano, presi da una visibile trepidazione in vista dell’esito finale. Tutto procedette secondo quanto il primario aveva pensato e previsto.
Si giunse al momento più atteso e, nello stesso tempo, più temuto. Bisognava far ripartire il cuore nuovo e vedere se avrebbe cominciato a pulsare.
Nella sala all’improvviso dominò un silenzio quasi irreale; gli sguardi erano rivolti al muscolo trapiantato, che rimase fermo per alcuni secondi, poi, dopo le manovre adeguate cominciò a palpitare. Tutti levarono un sospiro di sollievo e levarono in alto l’indice e il medio della mano destra in segno di vittoria. I loro occhi erano umidi di pianto.
Il dottor Ferri uscì. Agli altri il compito delle ultime mansioni: ricucire, canalizzare, inserire le varie sonde e, dopo averlo tenuto il tempo necessario in osservazione, trasportare il paziente con tutti i dovuti accorgimenti nella camera asettica attrezzata per i casi di trapianto.
Era appena l’alba quando Tommaso vide il dottor Ferri. Gli corse incontro e gli chiese:
“Professore, mi dia notizie, la prego.”
“L’operazione è riuscita, ma il suo amico non è ancora fuori pericolo. Bisognerà aspettare la reazione del suo organismo al risveglio; le ore che seguiranno saranno decisive. Per evitare il temuto rigetto si è già dato inizio alla terapia immunosoppressiva. Speriamo nel meglio.”
Tommaso gli strinse la mano e lo ringraziò per quanto aveva fatto e per quanto avrebbe fatto nelle ore future.
La prima battaglia era stata vinta.
Avrebbe atteso che Dario uscisse dalla camera operatoria, poi, sarebbe rincasato. Aveva bisogno di un bagno caldo e un po’ di riposo. La notte era stata lunga e difficile.
Dida giunse trafelata. Vide Tommaso nell’angolo vicino alla finestra. Guardava fuori con uno sguardo assente, come se quanto lo circondava non lo interessasse. Era evidentemente provato e stanco. Gli si accostò e gli chiese:
“Mi scusi, sa se il signor Dario Corsini è ancora nella sala operatoria o è stato già portato altrove?”
Tommaso si girò e riconobbe la ragazza disperata della sera prima.
Era una giovane donna molto bella, ma trasandata nell’aspetto; certamente non per volontaria sciatteria, ma perché qualcosa di grave le aveva impedito di avere cura della sua persona. Nei suoi occhi rossi di pianto si leggeva una sofferenza inconsolabile insieme ad una disarmante resa alla fatalità.
“L’operazione è terminata; e niente ha impedito la buona riuscita. Se aspetta vedrà passare la barella con il mio amico Dario. Ma, se è lecito che io sappia, lei chi è? Un’amica di lavoro o di studi?”
“Io ero la fidanzata del donatore del cuore. Ieri mattina ero felice, poi…”
Non potè continuare perché un pianto irrefrenabile la scosse tutta. Tommaso ne ebbe pietà e l’abbracciò forte senza dire una parola; non riusciva a trovare alcuna frase che potesse lenire l’afflizione di quella ragazza, che, liberandosi dalla stretta, disse:
“Il suo era un cuore nobile, sa; il mio Marcello era un tesoro: buono, onesto, serio. Io voglio con tutta me stessa che il suo cuore continui a battere, cioè a vivere… mi sembrerà di non averlo perduto. Egli era solito dire che nel cuore sono racchiusi tutti i nostri sentimenti, le nostre passioni: il corpo non è che il custode.”
Tommaso non rispose se non con lo sguardo.
Poi, quasi per tacita intesa, si avviarono insieme verso la panca. Si sedettero in attesa.

 

Parte IV - Segue >>   

 

 

 

 

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