PARTE VI
Dario fu preso dalla
nuova esperienza del suo soggiorno a Sulmona: una esperienza piacevole
perché ritrovò ricordi, atmosfere, visi che aveva dimenticato.
La sua grave malattia, la sua lunga e dolorosa degenza in ospedale,
l’essere stato tra la vita e la morte avevano fatto dimenticare ai più
il suo oscuro passato; lo avevano come allontanato per dare posto ad un
compiacimento per la guarigione e per il suo ritorno alla vita.
Fu così che parenti e amici si alternavano per fargli visita in un via vai
che, se da un lato talvolta lo stancava, il più delle volte gli
procurava una gioia sincera. Provava una commozione intima nel costatare
come, in fondo, era stimato professionalmente e come tanti gli volessero
bene quasi che la sua condizione di precarietà lo riscattasse dalle
ombre di una perfida giovinezza.
Gli facevano tante domande sul suo stato di salute ed egli, per niente
infastidito dall’interesse dei suoi visitatori, rispondeva:
“La mia definitiva salvezza dipende da tanti fattori: primo fra tutti la
fusione del cuore trapiantato con il mio apparato circolatorio, con
tutte le fibre muscolari; insomma come esso si inserirà in me
pienamente, senza contrasti, anche a livello emotivo e psichico.
L’operazione è perfettamente riuscita; il tempo è la medicina migliore.
Bisogna aspettare con fiducia ed un pizzico di ottimismo.
Qui a Sulmona mi sembra di vivere in una condizione di estraneità dal mio
recente passato e di rivivere, invece, un passato lontano, quello della
mia adolescenza. I miei genitori mi sono vicini; voi amici mi offrite
splendida compagnia, senza parlare dei nipotini che rallegrano molte ore
delle mie giornate.”
Quando Dario rimaneva solo considerava che era davvero così. Era come se
l’infarto, che lo aveva colpito quella sera piovosa di novembre quando
le luci e le sirene dell’autoambulanza tagliarono il silenzio e la fitta
nebbia che nascondeva agli occhi la città, avesse diviso la sua vita in
un prima e dopo e avesse annullato la parte centrale, la più torbida.
Non gli sembrava possibile che egli avesse osato…
Un giorno andò a fargli visita don Carlo.
Come si era invecchiato! Aveva i capelli bianchi ed un viso rugoso e
stanco. Solo gli occhi conservavano la luce e la straordinaria dolcezza
di un tempo.
Dario nel vederlo si commosse; gli buttò le braccia al collo e fu colto da
un moto di pianto che non riuscì a controllare.
“Padre, ho tanto peccato! Ho offeso più volte e ripetutamente l’amore di
Dio, la sua maestà, la sua magnificenza. Ho bisogno di parlarvi… di
dirvi…Nessuna presenza mi è più gradita della vostra. Sedetevi, vi
prego; trattenetevi un po’ di tempo con me, anche se la mia indegnità è
grande.”
Si accomodarono nel salotto di casa mentre Dario continuava a piangere
inconsolabile.
“Non così, figliolo, non così. Già un tempo mi affidasti la tua pena.
Fallo ancora ed io cercherò di guidarti alla pace dello spirito. Il tuo
tormento mi affligge; suvvia aprimi il tuo cuore.”
“Don Carlo ho toccato l’abisso del peccato. Specialmente nei primi anni
della mia permanenza a Roma ho dato sfogo ai miei bassi istinti. Niente
mi faceva ravvedere, anche se avevo coscienza della mia perdizione e del
disonore che arrecavo alla famiglia. Volutamente allontanavo i volti di
mia madre e di mio padre che affioravano di tanto in tanto tra i miei
bassi pensieri. Ero convinto di non avere scampo poiché la mia natura
traviata non poteva in alcun modo redimersi. Insomma ero condannato a
peccare. Oh!, mio buon don Carlo, sapesse quante colpe…”
“Dario, il fatto che tu parli con tanto disgusto di quello sventurato
periodo mi spinge a credere che ti sia pentito e che la tua vita non sia
più così disdicevole. Lo spero con tutto me stesso.”
“Per merito di un mio caro amico, anch’egli di Sulmona, e come me vittima
della morbosa inclinazione naturale, mi salvai dalla strada. Parlo di
Tommaso Doni.
Insieme abbiamo dato parvenza di onorabilità al nostro rapporto lavorando
decorosamente e affinando la nostra cultura; sempre, però, in peccato e
lontani dalla grazia di Dio. Devo molto a lui, al suo aiuto, alla sua
forza d’animo. Poi, all’improvviso l’infarto. Tutta la mortificazione
che si era sedimentata nel mio cuore lo aveva lacerato, destrutturato,
ferito.”
“Mi ricordo benissimo di Tommaso, un giovane molto introverso e riservato,
ma non immaginavo che…
Le tue parole così impietose mi addolorano. Ti rivedo bambino, quando
conducevi per mano la tua sorellina in chiesa. Nutrivi verso di lei un
forte senso di protezione. Eri bravo a scuola e sensibile alla bellezza
nell’arte e nella letteratura. C’è tanto bene in te; non sei la persona
che hai così brutalmente descritto. La condanna che ti assegni è
inappellabile. Nostro Signore è più misericordioso.”
Il padre di Dario, entrando in salotto, si compiacque nel vedere don Carlo
e disse:
“Ha visto come si sta riprendendo il nostro malato? Merito dell’aria della
sua terra e delle cure amorevoli della mamma. E’ quasi ora di pranzo;
sia nostro ospite e ci renderà felici. Devo solo avvisare in cucina.”
“Vi ringrazio dell’invito, ma non mi è possibile; anzi devo proprio
andare.”
Poi, rivolgendosi a Dario, aggiunse:
“A proposito, continueremo la nostra conversazione domani mattina. Ti
aspetto in chiesa verso le dieci.”
Quindi, si congedò affettuosamente ed uscì lasciando Dario assai
scoraggiato.
La sua benevolenza, la sua sollecitazione a sperare nella misericordia del
Signore lo confortavano, ma non riuscivano ad annullare l’affanno dei
brutti ricordi che ora lo assalivano incontrollati. Egli li aveva tenuti
compressi: era stato abile, infatti, nell’escogitare ogni sorta di
strategia per oscurarli; ora , invece, a seguito della confessione a don
Carlo invadevano la sua mente procurandogli un’acuta agitazione.
Il padre lo vide pensoso e gli domandò cosa avesse.
“Ti ha turbato per qualche motivo l’incontro col tuo vecchio parroco?”
“E’ che mi sono emozionato. Don Carlo mi ha ricordato alcuni episodi della
mia infanzia: di quando mi recavo in parrocchia con Donatella ed insieme
seguivamo le lezioni di catechismo.”
“Bando alle malinconie, ragazzo! Andiamo, la mamma è di là che ci
aspetta.”
Dario lo seguì di buon grado. Non voleva rimanere solo neppure per un
minuto.
*
La notte che seguì alla visita di don Carlo, Dario non riuscì a dormire;
gli tornavano in mente ossessionandolo le parole della confessione
interrotta. Forse se fosse riuscito a completarla non si sarebbe più
sentito oppresso, nell’animo e nella mente, dal peso dei suoi errori.
Il mattino dopo si sarebbe recato dal buon parroco. Era confuso; non
sapeva da dove ricominciare il racconto della sua esperienza dolorosa.
Provava vergogna al pensiero che don Carlo avesse avuto tutto il tempo
di riflettere su ciò che gli aveva rivelato e, scomparsa la spiacevole
sorpresa, lo avrebbe giudicato con severità, senza attenuanti.
Si vestì in fretta; non voleva farlo aspettare. Lo trovò davanti alla
statua della Vergine a pregare. Appena lo vide, gli andò incontro
dicendo:
“Vieni, Dario, andiamo in sacrestia; lì nessuno disturberà la nostra
conversazione.”
Nel dire così, si avviò con passo spedito; lo precedeva voltandosi di
tanto in tanto e gli sorrideva. Si sedettero intorno ad un piccolo
scrittoio, sul quale spiccavano un crocifisso di giada verde e una
cartella piena di carte. C’era anche un vasetto portamatite.
“Don Carlo, faccio fatica a riprendere la mia confessione. Ieri un forte
sentimento di liberazione mi ha spinto a parlare senza remore;
stamattina è diverso. Soffro al pensiero del vostro giudizio. Ho
vergogna; provo tanta vergogna. Certamente sono stato causa di una forte
delusione per voi e per la mia famiglia.”
“Caro figliolo, in un sentiero trovai un ramo di pesco calpestato; anche
le gemme erano schiacciate. Lo raccolsi e lo misi nell’acqua. Dopo
alcuni giorni le gemme si schiusero e il ramo si coprì di una nuvola di
fiori di un rosa delicatissimo.
Ti prego completa ciò che stavi per dirmi ieri, in modo che io possa
capire per consigliarti e offrirti la giusta guida, che mi auguro
illuminata dalla Spirito Santo.”
“Il mio cuore malato era allo stremo; poco mancò che cessasse di battere
durante il tragitto all’ospedale. Da qui cominciò il calvario di una
lunga degenza con il timore costante che da un momento all’altro potesse
fermarsi.
Da Roma fui trasferito all’Ospedale Niguarda a Milano, dove c’erano più
chances per il recupero di un cuore compatibile per il trapianto. Io
nutrivo poche speranze di salvezza, anche perché ero convinto che la mia
sventura fosse la giusta punizione del Cielo per la mia vita dissoluta.
Non osavo neppure pregare per la mia salute. Sapesse, don Carlo, quanto
è insopportabile la sofferenza senza speranza; la certezza di dover
morire senza il conforto della Chiesa e senza la carezza degli affetti
più cari.”
“Ti è stato assegnato un pesante fardello. Dio, però, non ha dimenticato i
tuoi patimenti, tanto che ha voluto che ti salvassi.”
“Anche questo dolorosamente, perché il cuore mi è stato donato da un
giovane morto in un incidente stradale. Correva verso la felicità con la
sua fidanzata, Dida, creatura dotata di una dolcezza che commuove.
Ho anche avuto, senza meritarlo, il conforto della sua assistenza che mi è
stata di grandissimo aiuto. Senza di lei non sarei riuscito a superare
tanti momenti critici del decorso di una convalescenza incerta e di una
guarigione sempre revocabile.
Anche il mio amico Tommaso mi è stato vicino, anzi a lui devo la mia
sopravvivenza perché fu lui a chiamare immediatamente l’autoambulanza.
Non ha dato segni di stanchezza e di impazienza per i suoi continui
viaggi da Roma a Milano e mai mi ha fatto mancare il suo appoggio
materiale e psicologico. Sono stato fortunato nella sventura.”
“Puoi ben dirlo. Mi colpisce, però, la disperazione con cui tu parli della
tua drammatica avventura; come se rivivessi le ore angosciose. Cerca di
rasserenarti; di superare i brutti ricordi. Cerca di rilassarti qui a
Sulmona; poi, vedrai che tutto cambierà quando avrai ripreso il lavoro.
So che sei un valente avvocato presso uno Studio romano.”
“Sono d’accordo con l’avvocato Lanfranchi, il titolare dello Studio, che
tornerò alla mia attività a metà aprile, passata la Pasqua. Persona
comprensibile e profondamente umana ci tiene che io trascorra il periodo
di maggiore criticità con i miei. Dovrò, quindi, continuare le cure e
sperare che non sopraggiungano imprevisti.”
Una signora bussò alla porta della sacrestia, interrompendo il loro
colloquio.
“Don Carlo, mi scusi. Vorrei confessarmi.”
“Lo farei volentieri, ma, come vede, cara Giustina, sono impegnato. Se
vuole, può tornare più tardi, o meglio prima della messa vespertina.”
La signora Giustina, un po’ delusa, salutò e richiuse la porta alle sue
spalle.
Dario riprese a parlare:
“Vi ho stancato; voglio, però, da ultimo dirvi della cosa straordinaria
che mi è capitata.
Dida, la ragazza di cui vi ho parlato, si è legata a me in una forma
morbosa, perché ho in me il cuore del suo amato, il quale era convinto
che non gli appartenesse più da quando lo aveva donato a lei senza
riserve. Ostinatamente segue la mia guarigione quasi che, rimanendo io
in vita, continui a vivere il “suo” cuore.
Dapprincipio ho nutrito molte perplessità, poi, mi sono abituato alla sua
presenza, alle sua cortesia, alla sua limpidezza tanto da non poter fare
a meno di lei.
Anzi, il suo volto nella mia mente giorno dopo giorno si sostituiva a
quello di Tommaso; la sua leggiadria mi conquistava irrimediabilmente.
Provavo una gioia profonda nel vederla, anche se mi assillava il dubbio
che non fosse attratta da me, ma dal cuore del suo Marcello. Temevo che
fossi importante per lei perché ne ero il custode e non perché
apprezzasse le mie qualità, i miei pensieri, i miei sentimenti.
Tutto questo mi turbava, mi meravigliava, e non riuscivo a guardare agli
avvenimenti con serenità. Cresceva in me lo sgomento che derivava dalla
confusione di idee e sensazioni inattese.”
“Era giusto che fosse così; non poteva capitare il contrario. Mi
appassiona il tuo racconto, continua.”
“Le ultime volte in cui mi sono visto con Dida, specie alla vigilia della
mia partenza per Sulmona, ho potuto scorgere nei suoi occhi una
tenerezza insolita rivolta alla mia persona; un’attenzione ai miei
gesti, alle mie parole che mi sono parse un preludio a qualcosa di nuovo
che sta per nascere tra di noi. Sì, perché anche io non nascondo più a
me stesso, dopo tante ore di riflessione, di non considerarla soltanto
un’ancora di salvezza. Io sono innamorato di lei.
Mi dimenticavo di dire che Tommaso è a Rio de Janeiro per lavoro. Mi manca
come un amico a cui si deve molta riconoscenza.”
“Guarda bene in te stesso prima di prendere qualsiasi decisione. Non farti
prendere da un entusiasmo che può, poi, risultare infondato, procurando
un nuovo dolore a te e amarezza in Dida, che mi descrivi come creatura
nobile e onesta. Io pregherò il Signore che hai ritrovato perchè ti
illumini e ti custodisca nella virtù.”
“Può esserci redenzione per uno come me, che ha toccato il fondo del male;
che ha conosciuto turpitudini di ogni genere?”
Nel rivolgere al parroco questa toccante domanda, si era inginocchiato.
“Sì, se sei davvero pentito. Le braccia del Signore sono aperte al
perdono: la sua carità non conosce limiti. Non dimenticare il
pubblicano, la samaritana e il ladrone, suo compagno di pena sulla
croce. Absolvo te peccatis tuis…”
In Dario al sollievo dell’assoluzione seguì subito, insinuante, il dubbio
che il merito della sua riabilitazione non fosse suo, ma del cuore di
Marcello, che aveva cambiato la sua vita.
Non riusciva a prevedere quando sarebbe stato certo della sua identità e
avrebbe avuto termine il suo tormento. Da qui un attimo di smarrimento,
poi, si levò in piedi e abbracciò don Carlo.
Questi lo salutò e gli disse che per penitenza avrebbe dovuto leggere il
passo evangelico di Matteo,7-7, in cui è contenuta l’espressione che
apre alla salvezza e alla speranza”…Bussate e vi sarà aperto.” .
Dario lo vide allontanarsi e provò una profonda gratitudine per il vecchio
sacerdote, che si era gravato del peso dei suoi peccati ed aveva fatto
suo il suo tortuoso cammino di redenzione. Rimase a lungo assorto nella
penombra e nel silenzio della Chiesa e rivolse una accorata preghiera al
Crocifisso che, con le braccia aperte, sembrava accoglierlo:
“Cristo Gesù, scuro di pena, io credo che Tu sia qua dentro, da qualche
parte: sull’altare nel ciborio o altrove. Tu che hai conosciuto il punto
più alto del dolore umano, lo strazio più crudele, l’agonia più feroce,
abbi pietà di me. Fa’ che io dimentichi completamente le mie attrazioni
perniciose, la mia insania. Hai voluto che mi salvassi, ora non mi
abbandonare.
Rischiara il buio che circonda la mia esistenza sì che io sappia quello
che devo fare per vivere nella sfera della tua volontà. Non sopporto più
di sentirmi indegno.”
*
Dida era pensierosa e non riconobbe subito la voce di Ermanno.
“Questa bella signorina non solo non ha risposto al mio saluto, ma non mi
ha riconosciuto. E’ la dolce fanciulla che conosco o è un clone?”
Dida tornò in sé e si scusò con il suo amico, dicendogli:
“Devi perdonarmi. Inseguivo un pensiero ed ero completamente lontana. E’
davvero bello rivederti, è come un dono inaspettato dal momento che
manchi da tanto tempo dalla pasticceria che prima ti attirava con le sue
prelibatezze.”
“Sono stato fuori per lavoro. Mi auguro che in te si sia fatta strada una
qualche ragione di rassegnazione. Ti ho pensato spesso; la vita è stata
crudele nei tuoi riguardi. Tu e Marcello eravate l’immagine della
felicità. Tu, però, hai un vantaggio su tanti altri; hai la fede che ti
sarà di aiuto e sostegno. Dal canto mio, io sono a tua disposizione per
farti compagnia se questo potrà alleviare la tua solitudine.”
“Grazie, Ermanno, per la sensibilità che mostri nei miei confronti. In
questi lunghi mesi, da quando Marcello non c’è più, ho avuto modo di
depurare il mio dolore. Da questa operazione di sublimazione mi è
rimasto un dolcissimo ricordo di Marcello, che è racchiuso nel mio cuore
e nessuno mai potrà togliermelo. Anzi, ora, il mio cuore è come una teca
che custodisce qualcosa di molto prezioso. Sono, però, successe tante
cose mentre tu eri via e avrei piacere di parlartene. Io e te ci siamo
sempre confidati. Perché non ceniamo insieme una di queste sere?”
“E perché non stasera. Ti aspetto all’orario di chiusura e, magari,
andiamo al “Gambero”, un nuovo ristorantino qui vicino. Ti va?”
“Va bene; a stasera.”
Ermanno uscì contento che Dida avesse accettato l’invito.
Erano ancora le cinque del pomeriggio e pensò di recarsi ai giardinetti;
non gli andava di tornare in ufficio né di rincasare. Pensava a Dida e a
quanto l’aveva amata da ragazzo.
La sua personcina snella e armoniosa lo aveva subito conquistato e la
malia era continuata negli anni. Poi, si era imposto di non alimentare i
suoi sentimenti e la sua infatuazione, quando Dida gli aveva confessato
di essersi legata a Marcello, un comune caro amico, che egli ammirava
moltissimo per la bontà e la serietà che riponeva in tutto ciò che
faceva. Non si era sorpreso, perciò, quando era venuto a conoscenza
della sua volontà di donare gli organi in caso di morte prematura.
Si era rassegnato a non averla, anzi gli sembrava di dover difendere il
loro amore, poiché desiderava che Dida fosse felice. La fine tragica di
Marcello lo aveva addolorato e, mai, il pensiero di potersi sostituire a
lui nel cuore di Dida lo aveva sfiorato.
Ma, nel rivederla quel pomeriggio, gli era sembrata indifesa, persa ed in
lui era sorto un forte desiderio di starle vicino per confortarla. Gli
tornò in mente l’immagine della bimba che era: gracile, vezzosa. Portava
le treccine legate sulla sommità della testa con un nastrino, spesso di
colore rosa. Per un nonnulla piangeva e ricorreva a lui perché la
difendesse.
Un intenso sentimento di protezione lo prese e pensò che non poteva
lasciarla sola. Trascorse del tempo seduto sulla panchina, assorto nei
suoi pensieri, poi, comperò un giornale e si mise a leggere nell’attesa
che arrivasse l’ora dell’appuntamento.
Anche Dida era lieta di vedersi con Ermanno, che definiva il fratello che
non aveva avuto. Il suo caro compagno di scuola e di giochi; l’amico che
non l’aveva mai tradita. A lui aveva confidato i suoi segreti e i suoi
progetti. La loro era un’amicizia limpida, naturale; scaturita da uguale
educazione e da uguale rispetto di alcuni valori; agevolata, anche,
dalla vicinanza delle loro abitazioni.
Considerò una circostanza fortunata che fosse passato a salutarla, perché
gli avrebbe potuto parlare di Dario e dello struggimento da cui era
presa nel pensare a lui.
La esperienza che stava vivendo le appariva molto strana e, perciò,
sentiva il bisogno di rivelarla a qualcuno di sua fiducia, con la
certezza che l’avrebbe consigliata a scegliere la decisione migliore.
Alla madre non aveva più parlato di Dario da quando era partito e il fatto
che le avesse scritto una sola lettera non l’aveva aiutata ad aprirle il
cuore e svelarle il suo turbamento.
Dario era ormai nei suoi pensieri. Spesso riandava con la memoria al loro
ultimo incontro; a ciò che aveva letto nel suo sguardo e al tremito che
le aveva stretto il cuore. Da quel momento ella aveva ricominciato a
nutrire una speranza, dopo che con la morte di Marcello s’era spento
ogni sogno e s’era dissolta ogni illusione. Aveva ricominciato a credere
che anche lei potesse aspettarsi qualcosa dalla vita: forse non era
tutto finito.
Aveva comperato un nuovo tailleur; aveva ripreso ad aver cura della sua
persona dopo giorni e giorni in cui aveva rifiutato persino di guardarsi
allo specchio, per non scoprire la tristezza nei suoi occhi. Ora,
invece, illuminava la pelle del viso con un velo leggero di fard e
colorava le labbra col rossetto, privilegiando le tinte molto delicate.
Tutto questo, però, le aveva procurato un sottile rimorso: le pareva di
non rispettare il ricordo di Marcello, di tradirlo in qualche modo. Ma
il suo cruccio svaniva allorquando considerava che Dario nel suo cuore
custodiva l’amore di Marcello per lei. Questo pensiero consolatorio
fugava i suoi dubbi e la convinceva che era quasi innaturale spezzare la
delicata trama che la univa a Dario.
Ma perché non scriveva? Né telefonava? La confortava, però, il tono
dell’unica lettera che le aveva scritto. In essa la pregava di avere
pazienza; le chiedeva del tempo affinché potesse, lontano dai giorni e
dai luoghi del dolore, leggere serenamente nel suo animo.
Cara Dida,
mi sei mancata nel momento stesso in cui ti sei allontanata lasciandomi
nell’amara camera 27 dell’ospedale a Milano, che in quel giorno era più
nebbiosa del solito.
Qui a Sulmona, tra i ricordi e gli affetti antichi, torno a poco a poco
alla normalità che, come sai, impone una serie di esigenze quotidiane
che sembrano effimere eppure ci servono per riprendere il viaggio
interrotto.
Ho bisogno di capire bene quello che voglio; di conoscere le nuove
emozioni: ciò che mi commuove; quello che mi incupisce e mi rende
malinconico. Quanto mi rallegra il pensiero di come sia meraviglioso che
io respiri ancora e che abbia avuto in dono una seconda vita. E’
necessario che io metta a nudo i miei sentimenti e scopra i desideri e
le aspirazioni più riposte. Sto provando a farlo e ti assicuro che non è
operazione facile. Ti prego, perciò, di aspettare.
La mia esistenza è stata incompleta e balorda ed ho tanta paura di
riscoprire i segni di un passato che rinnego con tutte le mie forze.
Sento di essere un uomo nuovo, e questo grazie a te, e voglio che
nessuna ombra oscuri la nuova luce che illumina le mie speranze. Sappi
che qualora dovessi scorgere in un sol punto della mia coscienza di non
essere degno di te, uscirò dalla tua vita e non saprai mai più nulla di
me. Ti abbraccio e sfioro con un bacio le palpebre dei tuoi splendidi
occhi. Ricordami come io ricordo te nell’attesa del nostro incontro.
Sono certo che ti rivedrò.
Dario
Si scosse alla voce di Ermanno che la chiamava e le sorrideva. Si
incamminarono verso “IlGambero” con l’evidente piacere di stare insieme.
“E’ un onore averti con me. Ho spesso pensato di passare in pasticceria
per salutarti, ma sempre qualcosa o qualcuno mi impediva di farlo. Oggi
ho avuto una sorta di divinazione nell’indovinare il giorno e l’ora.
Ho telefonato al ristorante per prenotare, poiché non volevo correre dei
rischi e rinunziare alla gioia di averti di fronte e chiacchierare con
te.”
“Sei così pieno di attenzioni nei miei riguardi e questo mi è di grande
conforto. Averti come amico per me è importante. Il sapere che posso
ricorrere a te per qualsiasi evenienza mi dà sicurezza. Siamo arrivati.”
Dida ordinò una frittura di polpi e gamberetti, specialità dello chef, e
del vino bianco frizzante. Ermanno, invece, spaghetti alle vongole e
un’orata al forno.
Il cameriere, insieme al vino, portò una grande varietà di antipasti.
“Mi consola il vederti serena. E’ come se tu fossi in attesa di una
piacevole novità; forse di un nuovo spunto di felicità. I tuoi occhi
sono pieni di incanto: brillano più del solito.”
“Come mi conosci bene! E’ vero, una scelta, beninteso non mia, potrebbe
cambiare la mia vita. Devo, a tale proposito, raccontarti gli episodi
sconcertanti che sembrano tracciare per me un nuovo cammino.”
Dida si fermò per qualche secondo, quasi volesse riannodare nel ricordo le
vicende che stava per raccontare, poi, riprese a parlare:
“Tutto cominciò con il tragico incidente in cui Marcello, moribondo, fu
trasportato in ospedale. Come già sai, fu inutile ogni tentativo per
rianimarlo. Morì con il sorriso della giovinezza sulle labbra.
Pur estremamente sensibile al nostro strazio, il primario, chiese a me e
ai suoi genitori se Marcello avesse mai manifestato la sua intenzione di
donare gli organi in caso di morte improvvisa. Dopo la nostra risposta
affermativa e il nostro pieno consenso, dette repentinamente l’ordine di
espiantarli.
Il suo cuore era necessario, con grande urgenza, ad un giovane che era in
fin di vita.
Per un caso fortuito conobbi il suo nome. Tutto ebbe inizio da qui. Volli
conoscerlo: si chiama Dario Corsini. Dopo l’operazione, che ebbe esito
positivo, non riuscivo a staccarmi da lui, meglio dire dal cuore di
Marcello, dal “mio”cuore. Mi sembrava che da me dipendesse che Dario
superasse i pericoli di una convalescenza incerta. Non avrei mai
immaginato di vivere dopo la morte di Marcello un’esperienza così
sconcertante e, per molti versi, dolorosa.Ora capisco perché è bene che
il nome del donatore rimanga ignoto al malato e alla sua famiglia. A
maggior ragione, a mio parere, se l’organo trapiantato è il cuore.
Provavo un’emozione indescrivibile nel guardare il monitor; mi pareva che
Marcello fosse ancora con me e che il suo amore fosse custodito nel
battito del suo cuore reso visibile attraverso il diagramma. Dario era
soltanto un nuovo corpo che lo conteneva. Era necessario, però, che egli
continuasse a vivere perché il cuore continuasse a battere e viceversa.”
Il cameriere, interrompendo il racconto di Dida, portò gli spaghetti e la
frittura mista. Nel poggiare le pietanze sul tavolo chiese:
“Sono stati di vostro gradimento gli antipasti?”
“E’ tutto ben preparato; complimenti al cuoco”, rispose Ermanno. Ed
aggiunse di portare dei formaggi ed un altro poco di vino.
Dida riprese a parlare; era come se si stesse via via liberando di un
peso.
Aveva, inoltre, la certezza che avrebbe avuto dall’amico consiglio e
comprensione.
“Mi recavo ogni sera in ospedale; avevo idea che la mia presenza fosse
indispensabile. Frequentando Dario, ho avuto modo di apprezzare la sua
intelligenza, la sua cultura, le virtù della sua persona, la sua dolente
malinconia. La dolcezza delle sue parole. Addirittura…”
“Ho capito: hai quasi trasferito l’amore che provavi per Marcello in lui.
E’ una storia strana e commovente. Mi hai detto di te, ma lui come vive
questa vicenda? Come ha reagito alle tue attenzioni?”
Faceva le domande con una foga insolita, come chi è sorpreso da una
delusione ed è alla ricerca di eventualità che possano nutrire le sue
illusioni.
Egli rifletteva tristemente che forse l’aveva perduta un’altra volta. Si
era rassegnato, anche se a malincuore, vedendola accanto a Marcello;
ora, però, non riusciva proprio a sopportare di perderla per un
estraneo, per qualcuno che non conosceva. Il destino era stato avaro nel
suo rapporto con Dida; le loro strade si erano incontrate; ne avevano
percorso insieme lunghi tratti; ma era stato loro negato di amarsi. La
sorte non aveva concesso che costruissero insieme il loro futuro; che
insieme negli anni vedessero sorgere il sole, sbocciare i mandorli a
primavera; scorgere la gioia nei propri occhi; avere dei figli.
L’amarezza lo opprimeva. Sentì il bisogno di andare via.
“Dario è persona seria ed affidabile”, gli rispose Dida. “Proprio per
questo ha voluto essere certo di ciò che sente per me. Ha voluto che
anche io avessi a disposizione tutto il tempo per comprendere fino in
fondo quello che provo per lui. Dal canto mio, sono giunta alla
conclusione che, senza Dario, la mia vita non avrebbe senso. Aspetto con
ansietà il suo riscontro per tentare con tutte le mie forze di essere
felice un’altra volta.”
Ermanno, con la morte nel cuore, prese entrambe le mani di Dida e,
stringendole fortemente, le disse:
”Sono contento che non sei morta all’amore. Sono sicuro che anche Marcello
vuole che sia così. E, poi, il suo cuore pulsa o no nel petto di Dario?
Ti auguro ogni bene. Si è fatto tardi; penso sia giusto rincasare.”
Nel dire così si alzò e guidò un po’ bruscamente Dida verso l’uscita. Non
voleva assolutamente che ella scoprisse il suo rammarico.
Dida si meravigliò della improvvisa decisione di Ermanno. Non si sapeva
dare una spiegazione. Infine, concluse che certamente il suo amico aveva
un impegno che aveva dimenticato. Di qui la fretta nel tentativo di
riparare.
Tornata a casa, pensò a Dario e si soffermò a lungo a ricordare il colore
dei suoi occhi castano-verdi, decisamente più verdi che castani.
E scoprì che le piacevano molto.
*
Dario uscì dalla chiesa rigenerato. Si incamminò verso casa, con un
entusiasmo che da tempo non provava. Gli sembrava di essere leggero; di
essersi liberato della iattura che gli aveva sottratto gli anni
migliori, che lo aveva condannato alla scelta di una esistenza fatta di
sotterfugi e menzogne.
Non più… Non più…
Il Signore era stato buono con lui.
Si ricordò di Dida: aveva dimenticato da più giorni di farsi vivo con lei.
Aveva ricevuto le cartoline che gli aveva inviato, ma non le aveva
risposto.
L’aveva persa tra i pensieri, negli incontri con i parenti e gli amici. Ed
ecco, prepotente, quanto improvvisa, la sua visione. Sentì una profonda
nostalgia di lei.
Don Carlo gli aveva consigliato prudenza; ma egli ne aveva avuta fin
troppa: in cuor suo( ma era suo?-pensò-) sapeva che oramai non poteva
fare a meno di lei. Annullando tutte le insinuazioni della sua mente,
ammise che lui e il cuore trapiantato avevano un urgente bisogno di
lei.”
Mai più si sarebbe fatto irretire da sconcertanti pensieri sul conflitto
tra sé e il cuore di Marcello. Era o non era un cuore compatibile?
Basta con la rinunzia e il dolore: era pronto ad amare Dida
incondizionatamente.
Le avrebbe scritto.
Si sentiva rinato, provava un sentimento nuovo, che lo spingeva a guardare
con ottimismo al futuro.
A tavola fu più loquace del solito; la madre e il padre si scambiarono un
cenno di compiacimento. Vedere il figlio sereno, disposto al colloquio
significava molto per loro. Assistere al suo lento, ma costante ritorno
alla vita era come un balsamo che guarisce ferite profonde, perniciose,
che erano per incancrenire. Spesso si chiedevano com’era stato possibile
un cambiamento così radicale nel loro Dario.
“Vuoi dell’altro bollito?”gli chiese la madre affettuosamente.
“E perché no?Anzi prendo anche dell’altra insalata. Nel pomeriggio
chiamerò l’avvocato Lanfranchi perché è tempo che ritorni al lavoro.”
“Ti consiglio di aspettare ancora un po’. Non mi pare sia finito il
periodo prescritto per la tua convalescenza”, gli disse il padre.
“Mi farà bene, invece, ritrovare l’incontro gratificante con i colleghi;
riprovare l’entusiasmo alla scoperta di un comma, di un cavillo per la
risoluzione di un caso difficile.”
Dario pensò che quella era la decisione più giusta. La sua mente sarebbe
stata distolta dai pensieri ricorrenti. Per fortuna, le cose erano
cambiate; gli capitava raramente di cedere al gioco perverso della mente
con gli antichi richiami. Quando avveniva impegnava una dura lotta con
se stesso per annullarne il maleficio e fare in modo che essi si
allontanassero.
Gli davano la forza per riuscire i tanti affetti che per sua fortuna lo
circondavano, ma, sopra tutti, la presenza di Dida lo aveva aiutato e
tuttora lo aiutava ad esorcizzare le sue paure.
Chiamò lo studio alle 17, ora della riapertura, e chiese dell’avvocato
Lanfranchi. Fu riconosciuto da un collega che si complimentò con lui per
la sua guarigione, quindi, gli passò il titolare.
“Avvocato, sono Corsini. Avrei intenzione di tornare in anticipo perché
sento di aver ripreso le mie forze fisiche e intellettive. Vorrei…”
“Aspetti, Corsini, ci sono delle novità che mi auguro le facciano piacere.
Io e il consiglio di amministrazione dello Studio Associato S.R.L.
abbiamo deciso di aprire una sede a Milano, dove, come sa, abbiamo una
clientela abbastanza numerosa. Abbiamo pensato di affidare a lei il
compito di eseguire tutti gli accertamenti necessari. Ci pensi con
calma, anche perché deve considerare che sarà inevitabile il suo
trasferimento da Roma. Ci risentiremo dopodomani.”
“Sto realizzando che quanto mi propone viene incontro ad alcuni miei
propositi. Va bene. Dopodomani le comunicherò la mia decisione.”
Terminata la telefonata considerò che la proposta dell’avvocato Lanfranchi
era un segno favorevole del destino. Avrebbe risolto una serie di
problemi: Dida non si sarebbe spostata da Milano e dai suoi cari;
avrebbe potuto continuare a lavorare se lo avesse voluto; e lui avrebbe
avuto modo di continuare le sue cure con maggiore comodità e regolarità.
La cosa, però, che lo allettava di più era la lontananza da Roma, la città
che gli ricordava la tempesta che lo aveva travolto.
Tutto era propizio ed egli addirittura temette che qualcosa di imprevisto
intervenisse per annullare il benefico favore della fortuna. Era
abituato alla sofferenza ed al rifiuto e gli sembrava di essere indegno
che la vita gli prospettasse la possibilità di un futuro felice.
Si sedette alla scrivania e scrisse:
Carissima Dida,
mercoledì prossimo sarò a Milano per la visita di controllo dal dott.
Ferri. Credo che mi tratterrò qualche giorno perché possano fare tutti
gli accertamenti del caso. Non voglio che tu venga a trovarmi in
ospedale: rivivresti tante giornate dolorose. Ho deciso che ti avvertirò
appena possibile e ci incontreremo dove vorrai. Conto le ore; mi è
mancata la tua bellezza, la tua forza spirituale e la tua dolcezza. Ci
sono molte novità che ci riguardano; ma non ti anticipo nulla, perché mi
piacerà dirtele a voce per godere della tua sorpresa.
Esitò; poi, a chiusura, aggiunse:
Un bacio
tuo Dario
Si vestì in fretta ed uscì per andare ad imbucare la lettera: voleva che
Dida la ricevesse il più presto possibile. Sorrise nel considerare
quanto la sua vita fosse cambiata. Non doveva più imboccare vie
secondarie per evitare gl’incontri e la malvagia curiosità dei
compaesani.
Parte VII -
Segue >>
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