PARTE II
Mario Pagano era
sceso dalla carrozza con i capelli e gli abiti un po’ in disordine per
il lungo e disagevole viaggio attraverso le strade tortuose in un
territorio montuoso come quello lucano. Il suo agile passo, la sua
longilinea figura, una certa arditezza dello sguardo avevano
irrimediabilmente colpito il cuore di Isabella. Dietro a lui il suo
amato zio Giuseppe, che le aveva trasmesso l’amore per tutto ciò che
esalta la dignità umana. Gli era assai grata perché l’aveva prescelta
tra tanti. Spesso la chiamava e le leggeva passi di autori latini, tra i
quali prediligeva Cicerone, Virgilio e Plutarco, oppure dei tragici
greci. Li commentava con perizia, ma allo stesso tempo in maniera
semplice in modo che ella potesse coglierne il significato. La premura
che usava nei suoi confronti la commuoveva e la inorgogliva. Lo zio
Giuseppe più libero, meno oppresso dal vigile controllo della famiglia,
le appariva senza problemi, sempre gioviale, allegro, l’unico che
portava interesse e spensieratezza nella sua vita così lineare, senza
sorprese, tracciata dalla volontà dei più grandi, tutta volta a
custodire la integrità morale di casa Glinni. La stessa Donna Anna
sembrava accettare come un gioco la vita del figlio, i suoi racconti, le
sue avventure sottintese o appena accennate. Aveva studiato a Napoli
come tanti altri giovani della buona borghesia di Potenza. Ora insegnava
in quella Università e spesso era lontano. Il giorno della sua partenza
c’era pena in famiglia e in particolare Isabella veniva presa da uno
scontento uggioso che la rendeva di malumore. Senza di lui molte ore
delle sue giornate si sarebbero perse tra occupazioni non desiderate, ma
cercate per vincere la noia e la tristezza. Don Canio arrivava di
buonora e portava la comunione al nipote già pronto per partire. Era di
rito per chiunque affrontasse un lungo viaggio. Le campagne erano
infestate dai briganti, gente violenta e disperata, senza scrupoli, né
patria né religione. Si aveva paura a pronunciarne solo il nome.
Giravano storie di delitti efferati, di ricatti, sequestri, dita e
orecchie mozzate. Lo zio scherzava bonario, fingendosi divertito dalla
quantità di raccomandazioni che gli venivano fatte dai suoi cari e anche
dai servitori, specie dai più anziani che lo avevano visto bambino.
Isabella, però, nell’abbraccio finale avvertiva un tremito leggero
quando le diceva:
-Attenta, nipotina, stai diventando sempre più bella e pericolosa- e
s’avviava frettoloso per le scale che separavano la stanza dell’addio
dal portone di legno massiccio.
Ora era ritornato dopo tanti mesi di assenza.
-Bentornato - gli disse- bentornato- ed aveva gli occhi pieni di lacrime e
il cuore in subbuglio. Lo abbracciò incurante della polvere che
imbiancava il suo pastrano. Poi, rivolgendosi all’amico, gli porse la
mano e fece un inchino garbato, che però tradiva un certo imbarazzo.
- Sono Isabella -disse.
- Io sono Mario Pagano da Brienza, amico e discepolo di vostro zio. Vi
avrei riconosciuta tra cento fanciulle giacché corrispondete
perfettamente alla descrizione che mi ha fatto. Egli parla spesso di voi
e non a torto vi definisce una giovane singolare.
Isabella esclamò con entusiasmo, e intanto il cuore le batteva forte in
petto.
-Era una giornata triste e tediosa; il vostro arrivo ci porta la gioia.
Poi, si girò verso la nonna e s’accorse che lo zio Giuseppe era corso a
salutarla e si stava liberando dall’abbraccio, mentre Mario,
sopraggiunto, le baciava la mano con un inchino da perfetto gentiluomo.
Com’era felice! Sempre le era bastata una sorpresa, qualcosa di insolito
che interrompesse la monotonia della quotidianità, per muoverla alla
scoperta della vita. Usava dire, infatti, che bisogna sperare nel
domani, perché esso può portare il nuovo.
Entrò in casa dietro a donna Anna, che si avviò subito verso la cucina per
impartire disposizioni, ai due nuovi arrivati, ad uno stuolo di ragazzi
di diversa età che gridavano festosi.
Rosa, Luigi, Francesco, Pietro Paolo e Pasquale erano nipoti di don Nicola
e donna Anna, figli di don Canio, stimato uomo di legge, e donna
Caterina. Isabella non era attratta da quest’ultima, che, paga di
essersi sposata, non nutriva nessun altro interesse o aspirazione che
non fossero intimamente legati alla sua famiglia. Perciò, mai le avrebbe
aperto il cuore poiché era certa che non sarebbe stata capita. Donna
Caterina aspettava già il sesto figlio ed ostentava il suo ventre gonfio
come una conquista personale che gli altri avrebbero dovuto esaltare con
meraviglia. La piccola Rosa, invece, era la sua passione; era una
bambina ardente e dolcissima insieme, che nutriva per lei una vera e
propria infatuazione.
Isabella, da grande vorrò essere come te - le diceva- vorrò avere i tuoi
stessi capelli.
Da quel giorno si susseguirono ore di intenso godimento. La vita di
Isabella si era riempita all’improvviso, la noia era un ricordo ed aveva
anche dimenticato il torpore che talvolta la invadeva nel suo paese che
sembrava fermo nel tempo. Lo zio Giuseppe le aveva concesso di assistere
alle ferventi discussioni che nella biblioteca i due giovani tenevano
con lo zio arcidiacono, che era espertissimo di filosofia e di diritto.
Isabella, in silenzio, seguiva i loro discorsi, che sembravano
interminabili e, anche se molto di quello che essi dicevano le sfuggiva,
era affascinata dalla loro foga, dalla loro capacità di rendere vivo e
palpitante ogni argomento. Non si stancò mai ed assimilò molto. Spesso
essi le sorridevano e tutti e tre concordemente ammiravano la sua
costanza nel volere apprendere; talvolta rimanevano anche sorpresi
quando le chiedevano qualcosa in relazione ad un tema dibattuto ed ella
rispondeva senza dottrina; ma con garbo e modestamente palesava di non
aver perso una parola di quanto essi avevano detto ed ella aveva
ascoltato. Un giorno lo zio Giuseppe abbracciandola disse:
-Mario, non è un tesoro la mia nipotina? Ha fatto sempre così, fin da
piccola. Il suo intuito e il suo desiderio di conoscenza sono davvero
rari in una ragazza.
E Mario rispose:
-E’ certamente un’eccezione tra le donne del sud. Solo a Napoli in alcuni
circoli culturali operano donne la cui personalità è degna di
ammirazione.
Isabella chiuse in cuor suo le parole di Mario e decise fermamente che
avrebbe fatto di tutto per saperne di più sulle donne che egli mostrava
di apprezzare. Un giorno erano soli in biblioteca e le parve che Mario
la guardasse con estrema dolcezza, con grande tenerezza e per un attimo
ebbe l’impressione che le volesse dire qualcosa, ma l’arrivo dello zio
Filippo ruppe l’incanto di quel momento. La notte fu in preda ad una
forte agitazione; era consapevole dell’attrazione che provava per
l’ospite e non sapeva se desiderare che partisse al più presto per
evitare che la sua presenza le rendesse difficile non nutrire i sogni di
un futuro comune, oppure sperare che non avesse termine la gioia che la
invadeva la mattina, al risveglio, al pensiero che lo avrebbe rivisto,
che avrebbe riascoltato la sua voce così calda e suadente.
L’arcidiacono non mancava agli incontri in biblioteca; seguiva con
interesse gli accesi scambi di idee dei due studiosi, ne ammirava
l’acume delle analisi e l’ardore che ponevano specie nei discorsi di
politica e di filosofia; allora nella biblioteca echeggiavano parole
come libertà, diritto, costituzione…
Ripartirono dopo due mesi e il vuoto, almeno per Isabella, tornò nelle
stanze della grande casa.
*
Un giorno donna Anna, con evidente apprensione, si rivolse al marito:
-Nicola, penso che tu debba intervenire per porre riparo alla insana
voglia di Isabella, che se ne sta ore ed ore chiusa in biblioteca. Pare
che don Filippo apprezzi questo suo comportamento. Io non la capisco.
Rifugge da tutte le occupazioni che sono proprie delle donne, e quello
che più mi preoccupa, non si ribella alle mie sollecitazioni, ai miei
rimproveri; ma dolcemente mi risponde che per ubbidienza è disposta a
seguire i miei consigli ed i miei incitamenti. Poi, mi rivela che la sua
vera passione è la lettura. Ho chiesto aiuto al tuo insigne fratello ed
egli mi ha risposto sorridendo:” Le passerà, le passerà, appena avrà
incontrato la persona giusta che la farà sentire donna. Allora sarà
felice di assumersi i compiti che le sono propri per natura. Bisogna,
però, anche dire che a lei piace molto conoscere, sapere, orientarsi
personalmente con il suo giudizio e ciò le fa onore.”
Don Nicola, così direttamente interpellato, capì che doveva una risposta
alla moglie che gli aveva confessato di essere molto preoccupata. Ebbe
un solo attimo di esitazione, quindi, rispose:
-Anna cara, non voglio saperti in pena. Ha certamente ragione Filippo.
Spesso i giovani sono in contrasto con gli adulti e non accettano la
loro guida. Isabella è una creatura particolare. Devo riconoscerle una
intelligenza non comune, che non so fino a che punto è da considerarsi
dote positiva in una donna. Quando mi guarda con i suoi grandi occhi mi
sconcerta; il suo sguardo è, infatti, penetrante, indagatore poiché la
sua curiosità non è mai soddisfatta. E’, però, di grande altruismo: tu
stessa hai continue parole di elogio per come si prodiga nei riguardi di
tutti, addirittura verso la servitù. D’altronde, non ti sfugge come il
suo nome è sulla bocca di tutti e tutti la amano e la apprezzano.
Infine, la sua bellezza e la sua singolarità la renderanno più ambita
agli occhi dei giovani, anche se non sarà facile conquistarla.
Nicola capì di essersi un’altra volta ancorato al giudizio
dell’arcidiacono; anch’egli pensava con ansia ad Isabella, ma il
fratello aveva consigliato di aspettare che gli anni e gli incontri la
cambiassero. Si meravigliò di aver trovato le parole giuste nel
tranquillizzare la moglie; dall’atteggiamento di Anna, infatti, comprese
che si era quasi convinta.
-Va bene, Nicola, ciò che hai detto mi è di conforto. Questo, però, non mi
impedirà di starle più vicina. Ha aspirazioni insolite.
Nicola baciò Anna sulla guancia, le carezzò i capelli e tornò alle sue
occupazioni.
*
Isabella, seduta nell’angolo della biblioteca che dava sul cortile,
continuò ad essere preda dei ricordi nell’attesa che tornasse lo zio
Filippo. Come poteva pensare di unirsi ad un altro uomo quando tutto il
suo essere, la mente, il cuore, i pensieri, i sospiri erano per Mario?
Lo zio Giuseppe e Mario erano tornati per il Natale. Tutta “la tribù”
dei giovani Glinni, diretta dallo zio canonico e Tommaso, aveva
costruito un presepe monumentale nella stanza accanto alla cantina.
L’operazione era stata preceduta da alcune escursioni nel bosco alla
ricerca del muschio, ne occorreva tanto, e delle piante natalizie per
addobbare la tavola della vigilia. Il pungitopo, il mirto, l’agrifoglio
la attraevano in modo particolare; il verde intenso delle foglie e le
bacche rosse creavano un contrasto che le metteva allegria. Il vischio,
invece, lo portavano i contadini che lo staccavano dagli alberi dove
cresceva a iosa. Alcuni lo vendevano anche. Bisognava stare attenti ai
bambini che si divertivano a schiacciare le palline bianche da dove
fuoriusciva la sostanza vischiosa che imbrattava loro le mani e
incollava le dita. In cucina fervevano i preparativi secondo le
direttive di donna Anna che, da sempre, aveva inculcato nei figli e
nella famiglia una magica trepidazione nell’attesa del Natale. Ogni
domenica nel periodo che lo precedeva soleva ricordare durante il pranzo
che era la prima, la seconda… domenica d’avvento. In anticipo si
preparavano i dolci: i biscotti con le mandorle, chiamati roccocò, i
mostaccioli col vincotto, semplici o farciti con una marmellata mista di
pere, cotogne, uva passa, cannella e chiodi di garofano; il croccante di
zucchero e mandorle e i taralli, questi però salati, con i semi di
finocchio e olio d’oliva che venivano scaldati in acqua bollente,
quindi, infornati.
Il forno, che era situato non lontano dalla loro casa, veniva prenotato in
anticipo per due giorni interi da don Nicola: tanto tempo necessitava,
infatti, per cuocere il pane, che in occasione del Natale era a forma di
grandi ciambelle intrecciate”li tortene”o”piccilatiedd”, e tutti i
biscotti e le focacce che occorrevano per la sua numerosa famiglia.
Egli, poi, faceva preparare molte panelle di semola che offriva ad ogni
capofamiglia tra i suoi contadini e massari che la mattina della vigilia
erano soliti mettersi in fila per dargli gli auguri. Insieme al pane
regalava un tornese per ogni figlio e comunicava loro che per tre
giorni, la vigilia, il Natale e il giorno di Santo Stefano, erano
esentati dal lavoro. Si aspettava solo lo zio Giuseppe. Fu una piacevole
sorpresa vedere insieme a lui anche Mario Pagano, il quale, proveniente
da Pisa, aveva raggiunto il suo amico a Napoli ed aveva ceduto alle
insistenze di recarsi con lui ad Acerenza, anche perché avrebbe avuto
modo di fare visita all’arcidiacono Filippo. Mario si lasciò facilmente
convincere. Casa Glinni lo attraeva per più motivi, tra quelle pareti
trovava un respiro di vita spirituale che era così difficile trovare
altrove.
Dietro la spinta delle idee illuminanti che si diffondevano dalla Francia,
egli provava sempre più insistente l’odio per il dispotismo, ma non per
questo sentiva di essere disponibile ad accettare ogni forma di
riformismo. Proprio in carrozza, durante il viaggio, lui e il suo
maestro e amico avevano parlato di questo.
-Io credo che il cambiamento cui il popolo deve aspirare deve evitare gli
opposti eccessi, da un lato un potere assoluto, dall’altro una libertà
che potrebbe sfociare nell’anarchia. Solo la legge, in quanto capace di
assicurare agli uomini le norme del vivere civile, può garantire una
trasformazione che difenda ogni aspetto della legalità e annulli divari,
soprusi, angherie e un lago immenso di sofferenze.
-Mario, sei il solito idealista. La tua disamina nei vari campi del sapere
è sempre improntata ad una lucidità lodevole e fondata, ad un realismo
raziocinante che colpisce e sconcerta, ma in te con il filosofo, con
l’acuto legislatore convive il poeta, il sognatore che immagina una
società ideale, come la città di Dio agostiniana, che assicuri a tutti
gli uomini, senza distinzione di ceto e nascita, la serenità materiale
e, di conseguenza, quella spirituale.
-Tu pensi davvero che sia impossibile. Non è un sogno, può divenire realtà
se…
-Appunto…, se l’aspirazione al riformismo illuminato fosse sentito da
tutti, anche da quelli, e sono la stragrande maggioranza, che sanno solo
servire, che non conoscono i propri diritti per rivendicarli e per i
quali è inconcepibile l’idea del riscatto. In Europa solo
nell’Inghilterra il potere regio ha una storia lodevole di libertà verso
i propri sudditi; ma, poi, anch’esso ha mostrato di essere capace di
inciviltà e strapotere contro i cattolici d’Irlanda, in nome di una
falsa rivendicazione religiosa. Come sai, la mia stessa famiglia ai
principi del secolo scorso ha patito una dolorosissima persecuzione.
Quindi, dalla sua supremazia è protetto il suo popolo, ma non gli altri.
E’ una giustizia a metà.
- E’ vero quanto dici: l’ignoranza diffusa è il male concreto che
impedisce l’affermarsi di una società basata sul diritto dei popoli.
- Anch’io sono fiero assertore di un cambiamento, che non può più essere
rimandato. Qualcosa che sciolga i soggetti dalla servitù e diffonda il
verbo della fratellanza e della uguaglianza contro ogni forma di
sopraffazione. Che ben venga. Eppure, devo confessarti con un certo
disagio che, quando penso alla mia casa, al mio paese, alla serenità di
certe sere, alla sacralità di certi riti, incontri, usanze, vorrei che
nulla mutasse e rimanesse fermo nel tempo, immobile, come
cristallizzato. Ecco Acerenza, siamo arrivati.
Don Giuseppe già nell’atrio riconobbe gli odori natalizi, il profumo della
cannella, quello così penetrante dei chiodi di garofano, del lauro,
delle castagne bollite, della legna di pino che ardeva nel camino della
grande sala a pianoterra, e fu invaso da un benessere fisico e
spirituale, da una sensazione di caldo che gli scese nel cuore. Era
nella sua casa, tra i suoi affetti, nel suo mondo. Aveva dappertutto
soddisfazioni e tributi di stima dall’ambiente accademico per la sua
cultura umanistica, per i suoi scritti e per il suo alto insegnamento,
ma solo tra le pareti della sua casa avvertiva un senso di pienezza e di
pace.
La notte della vigilia si recarono tutti alla messa nella cattedrale. Solo
l’arcidiacono rimase in casa per evitare infreddature. Era molto debole
alle vie respiratorie. Lo era sempre stato per via di una bronchite
asmatica che lo aveva colpito quando era bambino. Pasquale, che era il
più piccolo, portava la statuina del bambino Gesù che doveva essere
esposta ai fedeli allo scoccare della mezzanotte; gliela aveva affidata
lo zio Canio ed egli la stringeva a sé quasi per proteggerla dal freddo.
Si sentiva investito di una missione importante e mai e poi mai avrebbe
voluto deludere i ”grandi”, perciò, precedeva impettito, mentre
Maddalena che lo teneva per mano illuminava la strada con un lume ad
olio. Gli auguri, lo scampanio, le parole del parroco così insinuanti
fecero provare ad Isabella una commozione intensa ed una ineffabile
serenità. Sedeva al primo banco accanto ai nonni e riusciva a sbirciare
Mario che sedeva al secondo banco della fila opposta. Non sembrava
immedesimato nella atmosfera religiosa, appariva solo incuriosito e
interessato alla maestosità delle volte della stupenda costruzione in
perfetto stile romanico. Quel Natale non lo avrebbe mai più dimenticato.
All’uscita della chiesa si trovarono vicini e lui le prese la mano e
gliela strinse delicatamente trasmettendole un senso di gioia e di
stupore, mentre un piacevole fremito la invadeva. Non sapeva se alzare
gli occhi e incontrare il suo sguardo o abbassarli vinta dal pudore e da
una strana paura di non sapersi comportare e di apparire goffa. Scelse
il secondo partito, forse, per godersi quegli istanti magici solo per
sé.
Un vento gelido proveniente dalla vallata faceva rabbrividire la comitiva.
Tutti si lamentavano per il freddo e camminavano frettolosamente:
Isabella, invece, rapita dalla stretta di mano di Mario, non avvertiva
la rigidità del clima e avrebbe voluto che la strada del ritorno fosse
la più lunga possibile, che la sua casa si trovasse lontano tra le
nebbie di un paese sconosciuto, i cui soli abitanti erano lei e il suo
straordinario cavaliere.
Giunti nel cortile, Mario la liberò dalla stretta e le augurò la
buonanotte dolcemente, guardandola negli occhi quasi per penetrarne le
emozioni. In quel momento ella capì di non appartenere più a se stessa,
che mai ci sarebbe stata felicità per lei senza quegli occhi e quello
sguardo così intenso, così penetrante che le inquietava l’anima. Gli
altri non s’accorsero di nulla. I bambini si erano divertiti a correre
avanti e indietro al corteo; i grandi, lungo tutto il ritorno, erano
stati intenti a parlare di qualcosa che li turbava. Prima che Isabella
si ritirasse nella sua stanza, sentì il nonno che diceva al figlio
Giuseppe e alla moglie:
-Andiamo da Filippo, certamente non ancora dorme. Gli chiederemo
consiglio.
Isabella pensò che qualcosa di grave era successa perché aveva notato che
donna Anna aveva pianto durante tutta la funzione sacra. Forse si
trattava dello zio Antonio che non era arrivato per il Natale e, per di
più, mancava da casa da alcuni mesi. Era a Napoli, dove si dedicava,
insieme ad un gruppo di scienziati suoi amici, agli esperimenti di
fisica, in quegli anni in cui molte scoperte aprivano nuovi orizzonti.
Isabella avrebbe voluto saperne di più, ma frenò la sua curiosità e
rispettò la volontà dei nonni di dividere la loro preoccupazione
soltanto con il figlio Giuseppe e l’arcidiacono. Si avviò verso la scala
che conduceva nella sua camera da letto; non vedeva l’ora di rimanere
sola per godere della gioia che provava. Era talmente forte l’attrazione
che ella sentiva con tutta la sua persona verso Mario che avvertiva un
senso di paura. Gli sembrava ancora di provare il caldo della sua mano,
segnata da vene azzurre “ Perché lo ha fatto? Per protezione? Per
amicizia? O egli prova quello che provo io e ha voluto dimostrarmelo?”
Il mattino dopo, di buonora, stava scendendo in cucina per la colazione,
quando udì la voce di don Nicola provenire dalla sala d’ingresso.
-Gli scriveremo e biasimeremo la sua condotta ignobile. Sposarsi senza
avvisare la sua famiglia, incurante dei consigli che gli avevamo dato
per sottrarsi a quella donna. Anna, ti prego, non piangere, mi fa male
vederti soffrire tanto. Forse era inevitabile, quasi per legge di
natura, che tra tanti figli che abbiamo avuto qualcuno si sarebbe
allontanato, avrebbe trasgredito. In campagna, ad ottobre, si spargono i
semi nei solchi neri tracciati in precedenza, tutti eguali e tutti nello
stesso terreno. Quando le piantine cominciano a spuntare fanno tenerezza
così esili, ed è allora che hanno bisogno di maggiore cura. Ebbene poco
più tardi ci si accorge che, tra tante, qualcuna cresce sbilenca, non è
forte come le altre e va estirpata. Gli scriveremo che la nostra casa
resterà sempre aperta per lui qualora avesse bisogno di noi o provasse
nostalgia, ma che non accetteremo mai la compagna che ha scelto contro
la nostra volontà. Voi, Filippo, condividete questa decisione?.
- Pienamente,- rispose senza alcun commento l’arcidiacono e la sua voce
era roca.
Isabella conosceva molto bene lo zio e capì che la sua voce era appannata,
non tanto perché era ancora un po’ raffreddato, quanto perché era
oppresso da un dispiacere. Isabella si sentì quasi in colpa per aver
ascoltato e si allontanò frettolosamente perché non voleva che i suoi
cari capissero che era al corrente di ciò che era successo. Per loro era
una notizia da nascondere ai più piccoli e alle ragazze; per queste,
poi, era proprio sconveniente che sapessero certe cose. Un nodo le
stringeva la gola. Era purtroppo finito il tempo spensierato dei giochi:
la vita con le sue passioni, con le sue incognite la sorprendeva. Lo zio
Antonio, così dolce e divertente, eppure così serio nello studio e
nell’applicazione, li aveva lasciati per seguire la sua strada, il cui
percorso lo portava altrove. Lo avrebbe mai rivisto? Pensò con un certo
sgomento anche a lei e Mario. Cosa l’aspettava? Una gran pena la prese e
tornò in camera sua; non aveva più voglia di fare colazione.
Il Natale fu vissuto all’insegna di una mestizia diffusa. Nessuno aveva
molta voglia di parlare e conversare; fu forse effetto di una
suggestione collettiva, certo è che anche quelli che non sapevano del
doloroso accaduto non riuscirono a vincere un certo disagio che dominava
in casa e nella famiglia. Nel tardo pomeriggio, lo zio Giuseppe,
l’arcidiacono e Mario si ritirarono nella biblioteca; ma non chiamarono
Isabella come erano soliti fare. A loro, invece, si unì don Canio. Ella
non si rammaricò, desiderava stare vicino alla nonna per usarle ogni
premura possibile nel tentativo di consolarla. Lo zio Antonio sarebbe
mancato a tutti, né era pensabile che la vicenda avrebbe avuto una
soluzione meno dolorosa.
*
La notte precedente il giorno della Befana cadde tanta neve che il mattino
dopo fu necessario spalarla davanti al portone per permettere le uscite
di emergenza. Cominciò il lavoro il giovane Carlino; poi, però, vi
parteciparono tutti allegramente e i piccoli finirono per giocare a
palle di neve per la disperazione di Maddalena, che dové cambiarli da
capo a piedi. Quella sera si ritrovarono tutti intorno al camino.
-Padre, raccontaci dell’arrivo dei nostri avi irlandesi nell’alta Acerenza
- chiese don Giuseppe, che tra gli altri era l’unico che conosceva la
storia della sua famiglia. Essa lo affascinava molto ed amava farsela
ripetere ogni volta che don Nicola si dimostrava disposto a farlo.
Questi, in realtà, preso dalle sue occupazioni non aveva la pazienza di
riandare con la mente a fatti antichi, lontani nel tempo. Legato
all’urgenza del presente non si lasciava prendere dai ricordi: quella
sera, però, non si sottrasse alla richiesta.
- L’Irlanda per il suo atavico spirito di indipendenza contro gli inglesi,
il cui dominio era diventato insopportabile, e per la difesa delle
tradizioni cattoliche contro la chiesa protestante da quando con Enrico
VIII l’Inghilterra si era staccata dalla Chiesa di Roma, fu teatro di
sanguinose repressioni. Sotto il regno di Elisabetta I i rivoltosi,
capeggiati da potenti famiglie, tra le quali gli O’Connors, sostenuti
dal papato e dal re di Spagna, resistettero valorosamente per circa
dieci anni, ma lo scontro si concluse con la vittoria degli inglesi a
Kinsale nel 1603. Misure severissime furono prese contro gli irlandesi,
in particolare contro i capi dell’insurrezione, che nel 1607, insieme
con altre cento famiglie dell’Ulster, furono costretti o scelsero
spontaneamente l’esilio, dal momento che erano stati privati dei diritti
politici e civili e le loro terre erano state espropriate. La loro fu
detta “la fuga dei Conti”. Gli O’Connors insieme agli O’Hara, ai Mac
Donalds, ai Mac Roe e ad altri - così continuava il racconto don Nicola-
giunsero a Roma e furono ricevuti con tutti gli onori da Sua Santità
Urbano VIII. Narrarono la loro esperienza dolorosa di esuli e di come in
Irlanda fosse ormai impossibile la sopravvivenza per i cattolici. Quelli
che erano rimasti nascondevano la loro fede per paura di ritorsioni e
persecuzioni; nessuno, però, l’aveva abiurata. Anche loro sarebbero
rimasti per continuare la lotta e per diffondere il loro credo
religioso, ma, essendo considerati i capi della rivolta, erano stati
espulsi, dopo che tutti i loro beni erano stati confiscati.
-Con quali sostanze affrontarono il viaggio? E come pensavano di poter
vivere altrove?- chiese Isabella- visibilmente incuriosita e contenta di
poter ascoltare il racconto delle loro origini.
-Per fortuna- riprese don Nicola- erano stati confiscati i loro beni
immobili, ma essi non furono privati del danaro e dei gioielli per
suprema volontà della corona inglese che si sarebbe macchiata di un
disonore inqualificabile qualora avesse lasciato completamente prive di
risorse tante famiglie esponenti della nobiltà, anche se avversarie. Ad
essa interessavano le terre e i castelli in Irlanda e bastava che
fossero esiliati i nobili che avevano capeggiato la rivolta. Il
drappello degli esuli comprendeva anche donne e bambini che andavano
difesi e protetti. Gli uomini, bene armati, si erano divisi; alcuni
precedevano le carrozze, altri le seguivano. Viaggiavano soltanto di
giorno e al calar del sole si fermavano per riprendere il cammino
all’alba. Dovettero lottare contro molti nemici: la paura, la
stanchezza, le malattie, tra cui la peste, che allora infieriva in molte
città dell’Italia settentrionale e che impediva loro di entrare in esse
per approvvigionarsi. E c’erano i briganti che infestavano molte
campagne, specialmente quella romana.
La loro odissea, per buona parte, ebbe termine una volta giunti a Roma. Il
Pontefice li accolse con paterna comprensione e i nobili romani fecero a
gara nell’offrire loro ospitalità: venivano considerati degli eroi
poiché avevano difeso la religione cattolica. Dopo quasi tre mesi,
quando ormai si erano riposati e tranquillizzati, il Papa mandò a
chiamare i capi famiglia e comunicò loro i nomi dei paesi di fede sicura
che si erano offerti di ospitarli: alcuni andarono in Spagna, altri nel
Regno delle due Sicilie, molti furono affidati ai vescovi delle varie
diocesi, perché pensassero ad una loro sistemazione. Gli O’Connors,
insieme ad altre due famiglie furono destinati ad Acerenza. Il mio
bisavolo era solito dire che essi, come tutti gli altri profughi, si
allontanarono da Roma con rammarico, al pensiero di dover affrontare di
nuovo un lungo viaggio…
Una pausa di don Nicola permise di alimentare il fuoco che si stava
spegnendo nel camino. Regnava nello stanzone un silenzio d’attesa,
interrotto dallo scoppiettio della legna poggiata di fresco sugli alari.
-Da quando erano entrati in territorio lucano - riprese il narratore- una
certa pace e una rassicurante tranquillità aveva preso il cuore dei
viaggiatori; il paesaggio, così ricco di boschi, che ricordavano tanto
il paesaggio della loro Irlanda, acquietò l’ansia: avrebbero certamente
trovato un rifugio sicuro e serena accoglienza. Questa era la loro
speranza. Oh, la loro Irlanda verde, dove anche le piante aprivano spazi
ai ricordi e alla fantasia, l’erica, la betulla, il sorbo selvatico e
dove il vento freddo e tagliente aveva la velocità di una rondine o di
una donnola e diventava parole e racconto!
Una strada stretta e polverosa si inerpicava sulle alture; poi, scendeva
per brevi tratti di pianura, quindi, risaliva tra il giallo delle
ginestre, il cui profumo penetrante riempiva l’aria e la cui vista
allegrava l’animo degli esuli, che, incuranti degli scossoni, guardavano
fuori dai finestrini delle carrozze. Era mezzogiorno quando videro in
lontananza Acerenza che apparve loro come un paese incantato; già ne
avevano visti altri arroccati come nidi d’aquile, ma Acerenza sembrò
loro il luogo voluto da Dio a termine della loro peregrinazione. Scesero
dalle carrozze, si inginocchiarono e in celtico elevarono una preghiera
di ringraziamento a Dio. Poi, il più anziano, Patrick O’ Connors, aprì
un sacchetto che conteneva un pugno di terra d’Irlanda e vi mescolò un
po’ di terra lucana a segno che il passato e il futuro dei profughi
dovevano convivere pacificamente e dare frutti. Dopo aver richiamato i
bambini, che si erano allontanati rincorrendosi, risalirono sulle
carrozze con animo sollevato: ognuno in cuor suo provava un brivido di
fronte alle incognite che l’attendevano; ognuno covava un sogno, un
sospirato progetto. Presto sarebbero arrivati.
-Come riuscirono a superare l’ostacolo del linguaggio? - chiese Paolina-
Dovette essere faticoso e difficile il rapporto con gli altri in terra
straniera. Immagino che essi rimpiangessero amaramente quanto avevano
lasciato.
Paolina era la più allegra delle figlie di don Nicola e quella sera
meravigliò tutti per la serietà e l’interesse con cui seguiva
l’affascinante racconto dell’odissea dei suoi avi.
-Era umano che essi avessero nostalgia della patria lontana, con la sua
inimitabile atmosfera mitica, e del tempo felice trascorso in essa;
questo, però, era stato molto breve, molto più lunga, invece, la
dolorosa esperienza della sopraffazione e delle persecuzioni. Inoltre,
erano stati cacciati; perciò, affrontarono la nuova vita con una grande
forza d’animo, sorretti dal desiderio e dalla necessità di ricostruire i
loro focolari e la loro esistenza. Per quanto riguarda la lingua, vi
dirò che già conoscevano alcune parole ed espressioni italiane per aver
soggiornato per quasi tre mesi a Roma, poi, furono anche aiutati dal
latino della liturgia ecclesiastica, da cui ricavavano termini
ricorrenti, conosciuti pure dal popolo.
Per molti anni furono”i furastieri”, cioè gli stranieri, verso i quali gli
acheruntini nutrirono dapprincipio sentimenti contrastanti di varia
natura che andavano dal sospetto alla curiosità, dal timore alla
ammirazione. A vincere ogni diffidenza, dovuta per buona parte alla
ignoranza che ai loro occhi faceva apparire i nuovi arrivati più come
gente scacciata dall’Irlanda per chissà quali misfatti che come eroi
della loro stessa fede, fu il comportamento che questi tennero dal primo
giorno in cui giunsero. Erano onesti, gentili, devoti, disponibili,
grandi lavoratori e queste qualità conquistarono la stima e il cuore
degli abitanti del luogo che imparò a considerarli non più come
forestieri ma come conterranei. In occasione del primo Natale, che i
nostri antenati trascorsero ad Acerenza, il mio trisavolo ordinò al
fornaio tante panelle di pane quante erano le famiglie del paese e le
fece distribuire in segno di amicizia. Finché visse conservò questa
cortese consuetudine che, come sapete, si è tramandata in parte fino a
noi.
Col passare del tempo la gente del luogo trasformò il nostro cognome da O’
Connors in Glinni, cioè provenienti dalla terra di Glinn, in Irlanda,
dove c’erano i nostri possedimenti tra cui il castello. I nostri
antenati accettarono di buon grado questa trasformazione quasi per
aprirsi a nuova vita. Infatti, le nuove generazioni degli Glinni si
sentono, ormai, profondamente legate alla terra lucana che considerano
propria, pur conservando in un riposto angolo del cuore la nostalgia
della lontana Irlanda, quasi un richiamo.
Don Nicola aveva terminato il suo racconto. Si decise di andare a dormire,
ciascuno portando con sé l’emozione provata e una vaga disposizione a
fantasticare, almeno per una notte, su come sarebbe stata la loro vita
in Irlanda. I più piccoli si erano già addormentati e furono portati in
braccio dai più grandi.
Quella notte Isabella sognò di essere in un prato di erica mossa dal vento
del nord. Il clima era rigido ed ella, per ripararsi, indossava un lungo
mantello di velluto blu con il cappuccio, da cui fuoriuscivano due
ciocche ribelli. In lontananza la figura di un giovane dal portamento
ardito, che guardava il cielo quasi inseguisse un sogno. Camminando
entrambi furono vicini, uno di fronte all’altro. Lo riconobbe. Era Mario
e si abbracciarono teneramente.
-Isabella, è tardi. Ho bisogno di te perché ti reclama la piccola Rosa che
ha la febbre.
La chiamava la nonna, alla quale non potè certo rivelare quanto poco
avesse gradito la sua voce che l’aveva allontanata da una magica
illusione. Ella, invece, di solito, amava essere risvegliata dalla voce
soave di donna Anna; la predisponeva ad affrontare la giornata con più
lena, con più entusiasmo. Si sentiva guidata e protetta.
-Va bene, nonna, sarò subito pronta, disponete di me.
Appena fu sola ricordò con un fremito il profondo sentimento di
trepidazione che aveva preso il suo cuore nel sognare Mario, con la
chioma ricciuta scomposta dal vento e gli occhi neri e intensi,
avvicinarsi e abbracciarla. Mai lo avrebbe dimenticato. Mentre si
preparava pensò che l’amore che si nutre per una persona riempie
l’animo, la mente ed occupa anche l’inconscio: esso è certamente un dono
divino per gli umani.
Incontrò Mario nel corridoio che portava in sala da pranzo e fu presa
dall’impulso di carezzargli il viso così segnato dall’ardore delle idee,
ma dovè dominarsi e limitarsi a sorridergli. I loro sguardi si
incrociarono e fu incanto, entrambi si sentirono estraniati dal mondo,
privi di ogni difesa e limite terreno. Isabella era tra le braccia di
Mario che le sfiorò le labbra con un bacio. Arrossì, ma tutto le sembrò
naturale e inevitabile e avrebbe voluto che il tempo si fermasse. E
naturale le parve che da allora in poi si parlassero più
confidenzialmente; segno della loro complicità e del loro trasporto.
-Partirai presto, ma il ricordo di te riempirà le mie giornate -gli disse
mentre si dirigevano dov’erano riuniti tutti gli altri per la colazione
-e le renderà meno noiose in questo paese dove le ore sono lente a
passare, specialmente per le donne. Esse sono avviate fin da piccole ai
lavori domestici e a non pensare ad altro che ad una futura famiglia;
passano dalla soggezione al padre a quella del marito; io le paragono a
farfalle dalle ali bellissime e variopinte, a cui non è concesso volare.
La condizione delle donne è ancora più penosa nelle classi sociali più
basse, dove una quotidianità di fatica ingrata ne annulla qualsiasi
aspirazione, anche la più semplice, ed esse vivono vinte al servizio
degli altri. Io mi considero fortunata per essere venuta al mondo in una
famiglia nella quale, pur nel rispetto dei tempi e dei costumi, c’è una
forte tradizione di libertà e un grande amore per lo studio e la
cultura, da cui non sono escluse le donne.
-E proprio questi sono gli unici mezzi per la liberazione dei singoli, dei
popoli, dei deboli. Tocca a noi, Isabella, cui la fortuna ha concesso un
più ampio respiro di vita diffondere con la parola, con gli scritti, con
l’esempio la coscienza dei diritti tra gli uomini. Io ti ammiro molto
per come sei, per ciò che fai, che dici e con quale dolcezza. La tua
grazia e la tua forza mi affascinano.
Erano intanto giunti nella sala dove tutti gli altri erano riuniti per la
colazione e non sfuggì alla maggior parte di essi la luce particolare
che illuminava i loro occhi.
Lo zio Giuseppe e Mario rimasero ad Acerenza fino alla fine di gennaio e
la loro presenza servì molto ad attenuare il dispiacere di don Nicola e
donna Anna, procurato dal matrimonio a sorpresa dello zio Antonio.
All’atto della partenza una promessa:
-Isabella ti porto nel cuore. Ti scriverò.
Ed Isabella da quel momento non visse che per quelle parole.
Parte III -
Segue >>
|