PARTE
VIII
Donna Lucia Salicone
fu svegliata nel cuore della notte.
-Accorrete, donna Isabella sta per partorire. Le si sono rotte le acque
prematuramente. Per fortuna don Antonio era qui ed è corso a chiamare il
dottore. Io torno subito in casa.
Assunta, dopo aver parlato a scatti per l’agitazione, salutò e uscì. I
vicoli erano bui. Solo a tratti il chiarore della luna disegnava
intervalli di luce. All’improvviso fu colpita dalla vista di due
cavalieri, coperti da un mantello bianco con una croce scura sul petto,
che si dileguarono frettolosamente nella stradina che sbucava nella
piazza prospiciente la cattedrale. Sperò che passasse qualcuno; ma, data
l’ora tarda in paese tutti dormivano e le vie erano deserte.Fu presa
dalla paura e un brivido percorse la sua persona. Si fermò e, per
rasserenarsi, dubitò che quella visione fosse stata vera; forse era
stata una allucinazione dovuta al sonno interrotto bruscamente e
all’ansia per la sua padrona. Si sentiva molto legata a lei, era dolce e
non le faceva pesare la sua volontà; quando le impartiva qualche ordine,
lo faceva con tale garbo che le sembrava fosse un onore servirla, quasi
avesse scelto lei perché la stimava di più.
Giunse al portone di casa e sentì le grida di dolore di donna Isabella.
Tutta la servitù si era svegliata e tutti si adoperavano perché non
mancasse l’occorrente. Anch’ella si unì a loro con solerzia e senza
esitazione. Dopo un po’ giunsero donna Lucia e don Filippo: l’una entrò
subito nella stanza dove la levatrice, una donna robusta e sbrigativa la
accolse con sollievo, l’altro si accostò ad Antonio che era in preda ad
un’agitazione irrefrenabile. Colpiva il fatto che egli, sempre così
padrone delle situazioni, delle sue emozioni, avesse perduto il
controllo tanto che camminava nervosamente, ed aveva la camicia aperta
sul collo e i capelli in disordine. Erano in tre accanto alla puerpera,
la levatrice, la suocera e il dottore; ma lo stesso non riusciva a
tranquillizzarsi. All’alba, finalmente il vagito. Donna Lucia si
affacciò sulla porta con il bambino avvolto in candidi lini.
- E’ un maschio - disse – è una gran bella creatura.
Antonio si accostò al piccolo con le lacrime agli occhi: era frastornato e
tanto felice che gli sembrava gli venissero meno le forze.
- Donna Lucia, riferite ad Isabella che l’amo e che è la padrona del mio
cuore.
Donna Lucia rientrò sorridendo e pose il bambino accanto alla madre.
Seguirono ore di gioia tanto più sentita quanto più angosciante era stata
l’attesa e quanto più viva la preoccupazione. Verso sera, quando tutto
il fermento si era quietato, mentre Antonio cenava con Mariannina e i
suoceri, la servitù fu ammessa a salutare donna Isabella e a conoscere
il piccolo Giuseppe. Così ella, con il consenso del marito, aveva voluto
si chiamasse, in ricordo dello zio che l’aveva affascinata fin da
piccola con la sua grande cultura e che tanto aveva contribuito alla sua
formazione. Assunta chiese di rimanere da sola con la padrona perché
doveva dirle qualcosa in privato. La sua richiesta non fu accolta con
piacere dagli altri, che uscirono dalla camera un po’ contrariati.
-Donna Isabella, il Signore benedica vossia e questo splendido bambino.
Sapete la devozione che mi lega a voi e sapete che mai vi mentirei. Nel
tornare a casa dopo aver avvisato la vostra signora madre, ho visto due
cavalieri alti e robusti con un mantello bianco fin sotto al ginocchio e
con una croce in alto a sinistra sul petto.
Al rumore dei miei passi si sono affrettati e sono scomparsi dopo aver
attraversato la stradicciuola che porta alla cattedrale. Io mi sono
spaventata, ma non ho gridato perché ho temuto di svegliare qualcuno e
di attirare i due cavalieri verso di me. E’ stata una visione tanto
strana, che mi pare irreale.>
Isabella rimase sconcertata: tornava il mistero, tornava il tormento del
suo segreto. Allora era vero che ad Acerenza i Templari erano una
presenza inquietante. Chi sapeva? Si nascondevano nella cattedrale?
Questa nuova circostanza la convinse che doveva certamente confidarsi
con qualcuno, oltre che comunicare allo zio Saverio quanto aveva appena
udito. Non avrebbe atteso molto. Intanto, un po’ per la stanchezza, un
po’ per la sorpresa della rivelazione, desiderò rimanere sola; quindi,
cercò di tranquillizzare Assunta, accomiatandosi da lei.
-Mia Cara, sono certa che le ombre della notte ti hanno giocato un brutto
scherzo. Esse rincorrendosi e quasi giocando con gli spazi di luce
creano strane immagini. A me una volta parve di vedere un cane e mi
sembrò tanto vero che mi misi a correre. Ora va’ e riposati perché è
stata una giornata faticosa, preceduta da una notte di intenso lavoro.
Grazie per tutto quello che avete fatto per me.
-Grazie a noi? Grazie a voi che ci avete accolto nella vostra casa e ci
ritenete parte della vostra famiglia. Avete ragione voi riguardo ai
cavalieri; però, quello che mi confonde è il rumore dei loro passi sul
selciato, che è ancora molto distinto nelle mie orecchie e che io ho
sentito senza ombra di dubbio.
Isabella capì che non era riuscita a convincere del tutto Assunta e,
temendo che ella potesse riferire l’accaduto a qualcuno, le disse:
-Ma tu non fare parola di quanto hai visto. Se è stata solo una illusione,
un inganno dei sensi, perché suscitare il riso con il tuo incredibile
racconto? Se, invece, i cavalieri sono davvero apparsi ai tuoi occhi, il
parlarne potrebbe essere pericoloso.
- E’ vero, donna Isabella, oltre voi non saprà anima viva quello che ho
visto o mi è parso di vedere. Ora vi lascio. A domani e buon riposo.
*
Era il 24 gennaio del 1799. Isabella era in casa quando udì un frastuono e
un alto vociare, si affacciò alla finestra, che era quasi a livello
della strada, e vide un corteo improvvisato formato in gran numero dai
giovani che erano considerati “ le teste calde” del paese. Chiese,
allora, ad uno di essi cosa fosse successo.
-Le truppe francesi hanno cacciato i borboni. A Napoli hanno fatto la
Repubblica.
Così disse e passò oltre.
Assistette alla scena l’avvocato Lagala. Salutò donna Isabella ed
intervenne, poiché era evidente che ella era rimasta interdetta e
desiderava saperne di più.
- E’ vero quanto vi hanno riferito. Aggiungo che il nuovo governo
attraverso le “Istruzioni generali ai patrioti” ha sollecitato patrioti
e cittadini a costituire Municipalità democratiche e popolari in ogni
parte degli Stati napoletani, senza attendere l’arrivo dei commissari, e
a diffondere il verbo rivoluzionario piantando alberi della libertà,
cantando inni repubblicani, celebrando feste solenni in nome della
indipendenza. In molti paesi lucani sono stati innalzati alberi della
libertà. Non solo a Potenza, dove ieri si è tenuta una grande
manifestazione durante la quale, al grido di “Francia dentro e
Ferdinando fuora”, si rovesciavano stemmi e rappresentanti del governo
borbonico.
-Vi ringrazio, avvocato. Vorrei chiedervi a proposito…
-Donna Isabella, perdonatemi; ma non posso trattenermi oltre. Devo
lasciarvi. Corro in piazza dove è prevista una riunione di noi notabili
per decidere il da farsi.
Detto questo, si unì al corteo che proseguiva mano a mano ingrossandosi
tra urli e schiamazzi. Isabella rientrò col cuore in subbuglio;
finalmente il riscatto del popolo dal giogo feudale dei nobili fedeli
alla corona. Furono giorni di grande fermento, di voci, di notizie, di
smentite. Tutti i componenti della famiglia Glinni erano d’accordo ad
accettare il nuovo corso della storia. Solo don Saverio si dichiarava
ostile alla Francia. Una sera, durante una cena numerosa e vivace, ci fu
uno scontro diretto tra lui e Pietro Paolo, che era un acceso liberale.
Don Saverio asseriva che non era una rivoluzione condivisa dalle masse
urbane e rurali. E, poi, c’era la triste vicenda del Santo Padre Pio VI
costretto a trasferirsi in territorio francese dove si era spento sotto
la custodia del Direttorio.
Pietro Paolo, dal canto suo, sosteneva che era risaputo che il clero fosse
ostilissimo alla Francia. C’erano, però, a Potenza figure come il
vescovo Andrea Serrao ed il vicario ed arciprete della cattedrale don
Domenico Vignola ed altri che erano convinti che il rinnovamento in atto
avrebbe portato benefici al popolo insieme con una riforma religiosa e
morale.
La discussione si protrasse a lungo e tutti condividevano le
argomentazioni di Pietro Paolo; anche Rosa e il marito erano fra i più
accaniti sostenitori dei nuovi processi democratici.
L’entusiasmo, però, durò poco. Proprio a Potenza ci fu una svolta
drammatica. I fedeli seguaci del conte Loffredo al grido di“ Abbasso la
Repubblica, morte ai giacobini” avevano abbattuto l’Albero della Libertà
ed avevano brutalmente assassinato il vescovo Andrea Serrao, Antonio
Serra, rettore del Seminario Vescovile, e tanti altri, tra cui molti
nobiluomini. Era il 24 febbraio 1799.
Minguccio raccontò che un suo parente che si trovava a Potenza e che era
scampato per caso a quella violenza, gli aveva riferito che le teste dei
due martiri, infilate su picche erano state portate in giro per la
città; quindi, insieme con quelle dei signori Siani, sistemate a guisa
di croce, erano state esposte in piazza sopra il sedile: quella del
vescovo Serrao in alto, a destra e a sinistra quelle dei signori Siani e
quella del rettore Serra sotto. A Potenza regnava il caos e la plebe si
era unita ai facinorosi.
Isabella rimase sconcertata. Rivolgendosi al marito disse:
- E’, dunque, finito così presto il sogno di libertà? E’ così mutevole la
folla? E’ così sottile il filo che tiene legate le vicende umane?
-Mia cara, a mio parere è ancora lungo il cammino perché il rinnovamento
prenda radici nelle coscienze e nelle menti. Non c’è ancora volontà
comune, troppo distanti sono le fasce sociali ed i gruppi. Ciascuno
rivendica un credo e un’esigenza.
Quattro giorni dopo Antonio ed Isabella dovettero riaffrontare il discorso
in termini diversi giacché era di nuovo cambiata la realtà.
-Vedi, cara Isabella, che carosello di avvenimenti. A Potenza è stata
ripristinata la Municipalità repubblicana con l’aiuto di reparti armati
delle vicine municipalità ed è stato ripiantato l’Albero della Libertà
in piazza del Seggio. Altra violenza, altro sangue, altre vendette.
-Mi pare tutto così provvisorio, così incerto. Questi cambiamenti
repentini; queste scomposizioni e ricomposizioni, quasi un perfido gioco
guidato da una mente malsana, mi pare rispondano al fluttuare delle idee
che solo in pochi sono ferme e chiare; nei più, invece, sono vaghe e,
talvolta, senza fondamento. Lo zio Giuseppe affermava che dovere degli
intellettuali non era promuovere operazioni solitarie e velleitarie;
piuttosto era quello di formare gli spiriti, diffondere la cultura,
l’informazione perché potesse aver vita un’azione congiunta. D’altronde,
è così misera la condizione dei più, che è difficile per essi nutrire
ideali quando devono lottare per la sopravvivenza.
Entrambi sentivano il peso delle vicende del momento.
E la loro apprensione non era infondata. Poca vita ebbero la Repubblica
Partenopea e tutte le Municipalità che si erano andate formando ed
affermando nei pochi mesi che seguirono all’appello dei patrioti
napoletani. Migliaia di contadini, completamente soggetti al clero, ex
soldati borbonici, numerosi volontari legittimisti, masnade brigantesche
formarono l’Esercito della Santa Fede sotto la guida del cardinale
Fabrizio Ruffo e al comando di Curcio, detto Sciarpa. Salirono dalla
Calabria, già riconquistata e, attraverso punti strategici, giunsero in
Puglia, dove, ad Altamura, furono compiute stragi inaudite. Sciarpa e i
suoi seguaci arrivarono in Lucania ove si ebbero numerosi esempi di
eroismo collettivo: ad Avigliano, a Potenza, a Tito, a Muro, a Tolve. La
resistenza di Picerno, che fu sottoposta ad incendi e saccheggi, fu
particolarmente accanita. Vi morirono anche i fratelli Michele e
Girolamo Vaccaro di Avigliano, che insieme con Carlo e Giulio Corbo,
loro compaesani, studiavano a Napoli ed erano stati tenaci divulgatori
della Rivoluzione Napoletana nel potentino. Alla difesa di Picerno
parteciparono anche le donne, che combatterono strenuamente accanto ai
loro uomini e non esitarono a fondere le canne d’organo delle chiese, i
piombi delle finestre, gli utensili domestici per preparare le munizioni
che necessitavano.
I sanfedisti a tappe si diressero a Napoli che capitolò non senza strenui
tentativi di difesa e la cui resa fu sottoscritta dallo stesso cardinale
Ruffo. Dovunque, nei paesi, nelle città albergava un clima angoscioso di
caccia alle streghe. Per paura che potessero tornare i rivoluzionari,
veniva perseguitato chiunque avesse appoggiato la causa repubblicana o
avesse soltanto simpatizzato per essa. Anche in Lucania la reazione
borbonica fu violenta e sanguinosa con il preciso intento di eliminare i
ribelli con la morte, il carcere, l’esilio.
Per Isabella la capitolazione della Repubblica Partenopea equivaleva alla
fine di un sogno, nel suo animo si insinuò una profonda tristezza, una
struggente malinconia” come quella -a suo dire- che le suscitava la
musica che suonavano in chiesa durante i funerali o il venerdì santo”.
Quale sarà il destino di Mario, che, secondo quanto aveva saputo, era
stato incaricato di compilare la Carta Costituzionale della Repubblica
Partenopea?
Questo pensiero le trafisse il cuore.
Sentì bussare alla porta , era Antonio.
-In nome del ripristino dell’ordine e dello Stato si vanno compiendo
razzie ed uccisioni; non si è sicuri in nessun luogo e urge che ognuno
prenda una risoluzione per sé poiché non c’è nessun potere centrale che
ne garantisca una, che faccia da guida. Nell’aria c’è un’ aria diffusa
di terrore. Io non so se sia il caso di ritirarci nella nostra tenuta in
campagna, lontana dal paese e dalle strade di transito; però penso che
la nostra potrebbe sembrare una fuga e ciò sarebbe molto pericoloso.
Dobbiamo essere previdenti, sono tempi di inganni e di sospetti.
Dobbiamo pensare ai nostri figli, a Mariannina e a Giuseppe. Qual è il
tuo consiglio?
-A me pare, Antonio, che l’allontanarci da Acerenza, dalle persone che,
comunque, potrebbero venire in nostro aiuto, sarebbe un errore. Nessuno
sa di Costanza, piuttosto, temo che la simpatia che hai palesemente
nutrito per i patrioti e la dichiarata adesione di Pietro Paolo agli
ideali di Libertà e Indipendenza, costituiscono motivo di fondato
timore. D’altro canto, l’antica nobiltà della famiglia Glinni, i cui avi
profondamente cattolici sono stati costretti a lasciare l’Irlanda perché
compromessi nelle lotte contro i protestanti, e l’appoggio dello zio
Saverio sono elementi a favore della nostra salvezza.
-E sia! Continueremo a vivere normalmente agli occhi degli altri; anche
se, poi, saremo vigili e attenti e cercheremo di essere in stretto
contatto con tutti i parenti in modo da rimanere uniti. Sarà necessario
essere informati su tutto quanto avviene a Potenza e nei paesi vicini.
L’abbracciò. Isabella sentì il caldo della sua persona così rassicurante.
*
-Mi capita spesso, quando intorno c’è silenzio, di udire delle grida che
provengono da quella casupola isolata, nella pianura che si slarga verso
la strada per Cancellara. Mi sembrano invocazioni di soccorso- disse
Isabella ad Assunta-, con la quale stava preparando la lista delle cose
da fare e da preparare nell’avvicinarsi della santa Pasqua.
-Vossia ha ragione, sono grida disperate. Una povera donna è vittima di un
marito brutale che ogni sera si ubriaca e compie atti violenti contro di
lei, gravida, contro i tre figli, due maschi di cinque e otto anni ed
una ragazzetta di dodici. E’ anche sicuro che abusa della figlia, voi mi
capite…Qualche vicino ha tentato di intervenire, ma è stato inutile
perché il marito nega ogni colpa e la moglie per paura non dice la
verità. I figli, poi, sono terrorizzati.
Isabella tacque e continuò ad elencare tutto quanto era necessario perché
fossero conservate le tradizioni. Bisognava preparare le”scarselle”,
biscotti con le uova sode, le varie pizze con la ricotta, quelle salate
con la toma e la salsiccia e molte uova, e quelle dolci con i canditi e
il grano bollito, chiamate pastiere, la cui ricetta aveva portato da
Napoli lo zio Giuseppe che raccontava di averla sottratta ad un
pasticciere che ne era molto geloso. Brava a prepararle era donna Lucia
che, essendo vissuta a lungo a Napoli le aveva spesso gustate ed aveva
apportato anche modifiche personali nella loro esecuzione. Era
severamente proibito saggiare le pizze e i biscotti prima che passasse
il prete a benedire la casa. Questa proibizione sollecitava qualche
tentativo di furto da parte dei più piccoli, talvolta riuscito, talaltra
scoperto con le conseguenti punizioni, mai molto gravi, perché
l’accaduto era sempre oggetto di risate da parte di tutti. Isabella si
ricordò che bisognava dire ai fattori di portare un certo numero di
agnellini da latte per i giorni di Pasqua e di Pasquetta. Quest’ultima,
come al solito, l’avrebbero trascorsa tutti insieme in campagna e,
secondo l’uso, oltre all’agnello a zuppa, ”lu cutturiedd”, avrebbero
mangiato nel brodo di vitello la verdura mista che le contadine, esperte
nel riconoscerla, raccoglievano nei campi e lungo i pendii. La loro
ampia gonna pieghettata era quasi avvolta da un largo grembiule annodato
in vita, che esse ripiegavano in su, in modo da farlo diventare una
capiente tasca, dove riponevano la scarola e le cicorielle campestri
insieme con rametti di finocchietto selvatico. Isabella dette ordini
precisi e dettagliati e si allontanò. Quanto le aveva detto Assunta
l’aveva colpita; non riusciva a togliersi dalla mente la visione di
quella donna e dei suoi bambini sofferenti. Decise all’improvviso cosa
voleva fare e tornò sui suoi passi.
-Assunta, fa’ preparare la carrozza; andiamo a vedere cosa succede in
quella famiglia. Certamente a quest’ora il marito è al lavoro.
-Donna Isabella, che dite mai? A mio parere… non potete… dimenticate
quello che vi ho detto.
- Fa’ quanto ti ho ordinato: E’ chiaro che verrai anche tu con me.
Dopo un po’ erano sulla strada che portava alla misera casa, ognuno con
una diversa preoccupazione nel cuore. Isabella di slancio aveva deciso,
ma non sapeva bene come si sarebbe dovuta comportare; Assunta aveva
paura e si era pentita di aver parlato; Minguccio, che aveva anch’egli
cercato di dissuadere Isabella, sentiva tutto il peso e la
responsabilità di essere l’unico uomo.
Giunti a destinazione, egli scese per primo, si avvicinò alla porta e
bussò. Aprì un bambino, forse il più piccolo, sporco e lacero con gli
occhi cisposi. Minguccio si assicurò che non ci fosse il padre e fece
cenno alle due donne di scendere. La scena che si presentò agli occhi di
Isabella superava ogni immaginazione. Regnava nella stanza un degrado
fisico e morale che commuoveva e disgustava, una sofferenza palpabile e
straziante. La madre macilenta in piedi presso una piccola finestra,
stringeva i due bambini e nel suo sguardo c’erano impotenza e lacrime;
la ragazza era per terra in un mucchio di stracci, piena di lividi e
graffi; nei suoi occhi sgomenti di bestia ferita si leggeva una
sconfinata tristezza. Assunta poggiò sul tavolo il cesto pieno di cibo
che la padrona le aveva fatto preparare, mentre Isabella si avvicinava
alla donna per rassicurarla. Quella si ritrasse confusa e piena di
vergogna.
-Signora -disse- non è posto per voi. Questo è l’inferno; e scoppiò in un
pianto rotto da impressionanti singhiozzi.
Assunta intanto offriva i biscotti ai bambini che, increduli che qualcuno
si accostasse a loro con dolcezza, li addentarono avidi e inconsapevoli.
Minguccio chiuse la porta per evitare che qualche passante vedesse la
scena di Isabella che si chinava amabilmente verso la ragazza, che era
rimasta immobile e vigile come chi, avendo conosciuto solo violenza e
percosse, vive nella paura e nel sospetto, e le porgeva la mano
sorridendo.
-Come ti chiami? - le chiese- e poiché ella non rispondeva le asciugò le
lacrime con il suo fazzoletto. Aveva deciso cosa fare, non c’era tempo
da perdere, prima perché era necessario salvare quelle povere vite
dall’infamia in cui erano costrette e, poi, non voleva che tornasse il
padrone di casa. Rivolgendosi alla donna, disse:
-Sono Isabella Glinni e vi prometto che, d’ora in poi, non dovrete più
temere di nulla. Porto con me la ragazza, che sarà accolta nella mia
casa e, dopo che si sarà ristabilita, avrà cura dei miei bambini.
Uscendo da qui mi recherò da don Saverio, il parroco della cattedrale
che è mio zio e lo pregherò di portarvi aiuto e protezione.
La donna fu presa da un tremito convulso che per un po’ le impedì di
parlare, poi, disse:
-Il Signore che è nei cieli, troppo lontano dalla mia sciagura, vi
benedica per questo atto di bontà. Io, però, ho paura che, quando
tornerà mio marito, sarà preso dalla collera non trovando la figlia e
sarà feroce con i ragazzi e con me; egli mi accusa di aspettare un
figlio non suo: ha fatto così anche le altre volte. Andate via finché
siete in tempo, non vorrei che vi trovasse qui.
-Vi assicuro che don Saverio verrà subito e, mi auguro, prima che torni
vostro marito. Domani mattina Assunta tornerà e vi porterà del vestiario
per voi e per i ragazzi. Affidatevi a me, avete bisogno che qualcuno vi
aiuti. Convincete vostra figlia a venirsene con me.
La donna, confortata dalle parole di Isabella, ebbe un moto di coraggio e,
avvicinandosi alla figlia, la scosse e le disse:
-Va’, figlia mia, salvati almeno tu. Non può continuare un disonore grande
come un lago nella mia casa. Va’, nun po’ esse chiù nere de la
menzanotte.
La piccola si alzò mostrando la sua magrezza e il suo abbandono: era scura
per le croste di sporcizia e delle ferite, gli abiti erano molto larghi
per lei e i capelli, crespi di natura, erano un cespuglio incolto.
-Ma’, io me ne vado, ma tu vienimi a trovare.
Nel dire così la abbracciò, poi, baciò sulla guancia i due fratellini e
dette la mano ad Assunta.
Piangeva; ma una volta uscita non si voltò più indietro, anche perché fu
invitata a salire in carrozza e questo le parve una cosa straordinaria.
Guardava dal finestrino con gli occhi pieni di sorpresa e di meraviglia.
Si ricordò che solo un giorno aveva attraversato il paese piena di
gioia, quello della sua prima comunione. Era una creatura di pena e di
dolore.
Giunti a casa, Isabella scrisse una lettera per don Saverio e chiamò
Minguccio perché gliela consegnasse con la massima urgenza. Gli disse di
servirsi della carrozza in modo da accompagnarlo nella casa da cui erano
appena tornati. Era certa che lo zio si sarebbe messo subito a
disposizione.
Poi, affidò ad Assunta la povera ragazza. Dopo averla lavata, avrebbe
dovuto chiamare “la capera”, perché le tagliasse i capelli, giacché non
era possibile pettinarli. Avrebbe, inoltre, dovuto mandare Arcangela
nella grande casa a prendere alcuni abiti di quando eravamo tutti più
piccoli. Erano conservati nelle casse in soffitta: erano tanti e in
buone condizioni. Sarebbero serviti per lei e per i fratellini. Le
espresse gratitudine per la dedizione con cui la sostituiva in molte
faccende.
Infine, le disse:
-Ora vado a riposarmi, l’aver conosciuto una realtà così tragica mi ha
toccato il cuore. Mi auguro che tutto proceda secondo quanto ho
stabilito, e nel migliore dei modi; in caso contrario, vieni a
chiamarmi.
Assunta e Minguccio si misero subito all’opera, orgogliosi della loro
padrona, di cui apprezzavano le doti spirituali e morali, e la
naturalezza con cui andava incontro agli altri.
Isabella fu presa da un sonno profondo e, come spesso le accadeva quando
era in apprensione, sognò un Cavaliere Templare. Sognò di inseguirlo
spinta dal desiderio di conoscere il suo volto. Egli, però, non si
voltava e continuava a battere gli stivali sul selciato. Tra nebbia e
fumo talvolta scompariva; poi, riappariva presso la cattedrale in un
gioco di perfidia insospettabile. Finalmente il cavaliere si fermò, si
accostò al magnifico portale e cominciò a girarsi verso Isabella
tremante per la curiosità e l’emozione: lo guardava fissamente per
timore che le sfuggisse la rivelazione mentre il cuore le batteva
fortemente. Il cavaliere con movenze lente ed eleganti fu di fronte ad
Isabella; ma, ahimè! il volto era senza lineamenti, senza colori, senza
occhi, non aveva un segno umano. Nel portamento, nell’andatura,
nell’aspetto imponente e amabile le era sembrato di poter riconoscere
che fosse qualcuno a lei vicino, addirittura familiare. Però, le
sfuggiva qualcosa di essenziale per identificarlo. Si svegliò di
soprassalto, assorta e di cattivo umore, come capita quando si è fatto
un brutto sogno: le sembrava che le ricorrenti visioni notturne del
cavaliere fossero un invito diretto a lei perché risolvesse l’enigma;
ma, doveva constatare di non esserne capace e rimaneva delusa e
crucciata. O, piuttosto, una forma di difesa le impediva di farlo per
timore di trovarsi di fronte ad una verità sconcertante, ad una scoperta
che l’avrebbe smarrita. Alla fine si tranquillizzò al pensiero che era
solo un gioco della sua mente sottoposta ad una forte tensione.
Girandosi da un lato vide il marito che la stava guardando nell’attesa
che si svegliasse.
-Sei qui, mi hai fatto quasi paura. Quando sei entrato? Non mi sono
accorta; ero immersa in un sonno profondo. Oggi ho avuto un’esperienza
molto dolorosa e ho bisogno del tuo consiglio e del tuo appoggio.
-Assunta mi ha raccontato ogni cosa mentre tu dormivi. Anch’io vorrò
rendermi utile per aiutare questi tuoi assistiti, ne parlerò con don
Saverio per sapere qual è il modo migliore. Il tuo sonno era molto
agitato e non sapevo se svegliarti per tranquillizzarti o lasciarti,
comunque, riposare ancora per un po’.
Isabella non si soffermò sull’ultima frase, anzi di proposito, cambiò
discorso.
- Ero sicura che avrei avuto la tua approvazione conoscendo la nobiltà del
tuo sentire. Oggi ho avuto la conferma di come sia difficile per gente
che vive nella desolazione più completa coltivare ideali di qualsiasi
tipo. Ogni riscatto è impossibile per loro. E’ necessario che migliori
lo stato sociale e umano perché possano a pieno titolo partecipare a
progetti e lotte comuni, altrimenti ogni fermento di cambiamento rimarrà
estraneo a loro e non condiviso.
-Tu sapessi quanti casi simili a quello di cui sei venuta a conoscenza
stamattina ci sono nelle nostre campagne, non perché la nostra gente e i
nostri contadini siano cattivi e incoscienti per natura; ma, è colpa
della ignoranza in cui sono lasciati e della miseria e dell’abbrutimento
in cui vivono. Anzi essi sono di indole riservata, forti, rispettosi,
ospitali, ma, non potendo ribellarsi ed essendo nell’impossibilità di
avviare qualsiasi iniziativa rivolta a cambiare la loro condizione, si
sono rassegnati alla soggezione che vedono come un destino implacabile.
La loro rassegnazione nasce dalla mancanza di speranza.
Un mattino, dopo alcuni mesi, la ragazza le disse - Mi chiamo Teresa e i
miei fratellini Rocco e Giovanni - e scappò via rossa per la vergogna.
Interruppe così il suo silenzio che aveva impensierito Isabella presa
dal timore che soffrisse per la lontananza dalla madre.
-Assunta, che sorpresa! La piccola mi ha parlato, si chiama Teresa; penso
che d’ora in poi non dovrò più preoccuparmi.
-Lo so- rispose Assunta- è una creatura singolare. Io ho potuto osservarla
da vicino, dapprincipio mi colpiva il fatto che mangiava in fretta,
troppo in fretta. In realtà conservava il cibo nel suo grembiulino e
appena poteva scappava via e lo portava alla madre e ai fratellini. Me
ne accorsi e le parlai rassicurandola che oramai nella sua casa non
mancava nulla perché in molti si prendevano cura della sua famiglia,
specialmente don Saverio e don Antonio, il quale aveva preso a lavorare
con sé il padre e sorvegliava che non si ubriacasse. Le mie parole la
rasserenarono e da quel giorno ha cominciato a parlare con noi della
servitù e, di tanto in tanto, anche a sorridere. Quello che posso dirvi
con certezza è che adora il piccolo Giuseppe. Se io o Arcangela le
diciamo di sorvegliarlo non si muove e segue i suoi movimenti come un
cane fedele.
-Tante volte la vita priva i bambini della ingenuità e della
spensieratezza che sono proprie della loro età e li mette troppo presto
di fronte ad una realtà spietata. Spero che per Teresa siano finite le
prove dolorose.
*
-Costanza, voi qui? Quali eventi vi riconducono ad Acerenza?
-Oh! donna Isabella, eventi tristi e dolorosi. Come sapete, con il ritiro
delle truppe francesi richiamate nel nord contro gli austro-russi, la
Repubblica Partenopea è stata travolta insieme a tutti gli altri
municipi repubblicani dall’esercito della Santa Fede. I patrioti
napoletani hanno opposto un’estrema resistenza, poi, si sono arresi e
sono venuti a patti con il cardinale Ruffo. Lo stesso Mario Pagano ha
partecipato ai negoziati di resa. Purtroppo, però, i patti che
riconoscevano ai repubblicani l’onore delle armi e assicuravano loro la
vita, purché emigrassero in Francia, sono stati traditi. La revoca è
stata chiesta dalla regina Carolina con una lettera a Lady Hamilton da
consegnare all’ammiraglio Nelson che, al suo arrivo a Napoli, non ha
riconosciuto la capitolazione precedentemente conclusa. Non ha avuto
pietà di nessuno, punendo i rivoluzionari con la morte, con la
prigionia, con l’esilio e tutti con la confisca dei beni.
-Mio Dio, Costanza! Che fine hanno fatto i propositi e il fervore dei mesi
precedenti durante i quali sembrava che tutto fosse cambiato? I
contadini e il popolo non hanno capito che si lottava per loro? Come mai
hanno ingrossato le fila degli oppressori? Ma dimmi, per carità, le
condanne sono state eseguite o saranno possibili delle trattative?
Costanza, visibilmente commossa ed agitata, rispose:
-Siamo stati sconfitti. La Repubblica Partenopea ha avuto il consenso solo
degli intellettuali, degli spiriti nobili, ma le masse non erano ancora
pronte al riscatto. Tutti sono stati puniti e molti giustiziati, tra i
quali il nostro amato Mario Pagano.E’ salito sul patibolo il 29 ottobre
in Piazza del Carmine a Napoli. E’ morto da eroe, serenamente, senza
ribellarsi. Ahimè, condannarlo alla forca come un comune malfattore! Lo
hanno impiccato perché le sue parole così giuste, così suadenti, così
coraggiose gli rimanessero chiuse in gola, non infiammassero più gli
animi, non illuminassero più le menti.
Ma- così è già leggenda- esse gli gonfiarono il cuore già spento e quando,
cosa incredibile a dirsi!, lo slegarono si liberarono nell’aria e furono
rapite dal vento che furioso le portò ovunque avessero eco, ovunque ci
fosse chi le sapesse custodire, diffondere perché si moltiplicassero
all’infinito e diventassero anelito di lotta contro i privilegi e i
soprusi dei potenti. Questo vento di idee e di parole investì terre
vicine e lontane, valicò i mari , gli oceani, i deserti. La terra di
Lucania piange il figlio suo martire e lo piange l’alta Brienza, il
paese sperduto dov’è nato. Intorno nella campagna sbocciano i fiori
spontanei che la rendono meno aspra e desolata ed essa si va coprendo di
viole, di giunchiglie, di ginestre, di non ti scordar di me, di narcisi,
insolitamente, poiché non è la loro stagione. E nei boschi si ode il
concerto triste degli uccelli notturni, tra i quali i barbagianni
scandiscono il tempo con il loro verso gutturale e sorprendente. E’ il
compianto doloroso di tutti gli esseri per la morte di un eroe. E le
parole di Mario Pagano diventano ricchezza, lievito, germogli, piante,
musica, l’odore terragno della pioggia, il sudore che impregna da secoli
i solchi alla vigilia della semina, lacrime, coraggio, furia. Diventano
l’anima dolente della gente del Sud.
Isabella rimase impietrita: un urlo lungo e doloroso si allargò nel suo
petto, sconvolse il battito sereno del suo cuore e un tumulto le chiuse
il respiro. Nessuno potè udirlo perché quell’urlo le rimase dentro,
prigioniero di un dolore senza fine, non fluì in lamento né ebbe sfogo
nel pianto. Costanza la sorresse.
-Donna Isabella, mi dispiace. La vostra sensibilità è rimasta colpita dal
lutto che ci ha privato di un uomo nobile e caro, di un maestro, di un
amico. I tempi sono tristi di opere e nessuno è più al sicuro. Io stessa
e molti patrioti lucani siamo in pericolo. La repressione è feroce e non
si tengono in conto meriti d’intelletto o di nobiltà di schiatta.. La
libertà di pensiero, l’amore per una causa giusta sono esecrate e
portano a morte certa. Io vengo da Potenza dove fatti gravi stanno
accadendo; tutti quelli che hanno lottato per lo spirito nuovo di
indipendenza dai borboni e per la repubblica sono perseguitati senza
scampo e molti sono stati già uccisi. Impera una violenta sete di
rivendicazioni e di vendetta.
-Che pena! Che orrore! Solo Tu, Dio Onnipotente, puoi venire in nostro
soccorso!
Così esclamò Isabella, profondamente provata per l’angoscia e la
indignazione.
-Sono venuta a darvi notizia di questi misfatti per mettervi in guardia,
perché possiate difendervi o, comunque, arginare il pericolo. La mia
visita ha anche lo scopo di rassicurarvi che né io né Rachele abbiamo
mai fatto il nome vostro e della vostra famiglia. L’ospitalità che mi
avete offerta è un nostro segreto e mai svelerò di essere stata accolta
da voi e di essermi nascosta qui, nella vostra casa. Devo raggiungere
Rachele a Montalbano; uno strano destino di salvezza mi accompagna e mi
aiuta a sfuggire a guardie e investigatori. E’ certo la potenza suprema
di Dio, che poc’anzi avete invocata, ad assistermi. Dite a don Antonio
che il nostro gruppo è salvo e raccomandategli di essere prudente.
Isabella legò a sé Costanza in un forte abbraccio per comunicarle tutta la
sua disperazione, ma non riuscì a dirle se non poche parole.
- L’attenzione non è mai troppa in queste circostanze. Siate vigile anche
al più lieve fruscio, all’incontro più banale, dubitate di ogni cosa
finché non siete al sicuro. Andate.
Rimasta sola, si adagiò sul divano e chiuse gli occhi, la luce del giorno
offendeva il suo dolore. Le tornavano visioni della sua giovinezza
quando era felice nella grande casa: i nonni, nonna Anna così dolce e
cara, lo zio Filippo, la biblioteca, Mario e la sua passione. Lo rivide
mentre le sorrideva quel natale che vissero così intensamente perché
capirono di essere presi l’uno dell’altra. Dal profondo della mente e
del cuore affioravano gli antichi sogni. Di fronte alla dura realtà del
loro impossibile amore ella aveva nel corso degli anni represso e
rimosso le sue intime emozioni e i ricordi, che ora, invece, premevano e
si affollavano in un carosello impietoso. Dopo un’ora di acuta
sofferenza ella si ricompose e pensò che la cosa più triste, che suonava
offesa alla dignità dei singoli e degli Stati, era l’avere impiccato un
uomo come Mario, che aveva messo a disposizione dei diseredati, per i
quali non c’era possibilità di riscatto concreto, il suo fervido
intelletto. Egli era persuaso, che soltanto unendo gli intenti,
predicando e diffondendo le idee di una giustizia meritevole e comune,
sarebbe stato possibile convincere i potenti di quanto fossero
sacrosanti i diritti che toccavano, naturalmente e senza distinzione, a
tutti gli uomini.
Sentì dei rumori nell’ingresso: era Antonio.
-La morte violenta di Mario Pagano è un grande lutto per tutti i patrioti
e, in particolare per quelli lucani che in lui vedevano la luce che
avrebbe guidato la nostra gente verso un destino migliore, verso una
vita più dignitosa. Isabella, so quanto ti fosse caro, quanto fossi
legata a lui nei ricordi dei giorni in cui la sua presenza e quella
dello zio Giuseppe e dello zio Filippo facevano della tua casa un
fervido centro di cultura. Lo piangeranno in molti, certo tutti quelli
che ritengono che agire per assicurare all’umanità una vita felice è un
merito, farla soffrire è, invece, un delitto. Mi dispiace lasciarti. E’
tempo di vendemmia e tu sai che i nostri vigneti sono pregiati, essi
sono il nostro vanto e ad essi dedico tutte le mie energie perché siano
i migliori della zona.
Le dette un bacio sulla guancia ed uscì in fretta.
La visita ai vigneti era una scusa. Egli si era sottratto volontariamente
alla vista di Isabella in quella triste circostanza. Non avrebbe potuto
sopportare la sua commozione, il suo rimpianto. Sempre in lui si era
insinuata una sottile gelosia per quello che Mario aveva rappresentato
per la moglie; per la evidente ammirazione che ella nutriva per lui. Non
dubitava dell’affetto di Isabella, e della sua devozione; ma Mario, di
cui anch’egli apprezzava la struttura morale e intellettuale, era stato
il suo antagonista. Si era sforzato di non deluderla, di essere
all’altezza di situazioni e comportamenti, poiché il paragone era arduo.
Comprimeva debolezze sue proprie, semplici aspirazioni, desideri comuni.
Aveva spesso rinunziato ad essere se stesso.
Tutto questo, però, non gli impedì di provare disgusto nel ripensare al
senso di liberazione che aveva avvertito alla notizia della morte di
Mario. Come aveva potuto farsi vincere da un sentimento così
riprovevole? Si fermò per un acuto dolore al petto. Per fortuna, arrivò
la carrozza e si abbandonò sul sedile. Ordinò a Tommaso di procedere
lentamente. Aveva bisogno di riprendersi.
- Va’ piano. Non c’è fretta. Non torneremo in paese prima di sera.
La fitta dolorosa si attenuò poco a poco; ma i pensieri lo tennero in
agitazione lungo tutto il tragitto. Dopo la scomparsa di Mario sarebbe
finita la sua intima pena?
Che sprovveduto! Non era forse morto da eroe? Il suo nobile sacrificio lo
avrebbe, di sicuro, reso ancor più degno di venerazione.
Lo prese, poi, una forte pietà per il giovane patriota, che sul patibolo
aveva pagato per l’ idea illusoria che la virtù potesse vincere la
fortuna. Non aveva avuto tutto ciò che aveva lui: una moglie bella e
giudiziosa e due figli che erano il suo vanto. La lotta per una società
nuova lo aveva costretto ad una totale rinuncia; gli aveva negato
qualsiasi legame o consolazione. La pietà smorzò gli altri sentimenti.
Gli occhi di Antonio si riempirono di lagrime e nel suo cuore scese una
gran pace.
*
Ad Isabella non dispiacque rimanere sola, avrebbe potuto continuare a
ripensare al passato, a covare la sua tristezza, a tentare di
rassegnarsi di fronte alla crudele realtà. Salì in camera da letto e
guardò, attraverso i vetri della finestra, in alto dove le nuvole
andavano rincorrendosi e addensandosi. Così ogni giorno: al mattino un
cielo limpido incantava d’azzurro, poi, le nuvole e un grigiore diffuso
scolorava le cose.”Davvero- pensò- le parole di Mario, la sua ansia
intellettuale, il suo spirito sono nell’aria? Davvero è possibile
riconoscerli nel vento di tramontana, nella dolce brezza primaverile o
nell’ alito di vento che a volte improvviso ci sfiora a sorpresa il
viso? Oh! rivederlo almeno per un minuto per sorridergli. Chissà che il
suo sorriso non potesse guidarlo nelle ombre della morte. Infami!
Traditori! Le loro vite siano maledette!”
Un turbinio di sensazioni diverse non le dava tregua. Immaginava che Mario
salisse verso il cielo e gioiva contenta, oppure vedeva il suo corpo
penzolare dalla forca ed allora un’angoscia tenebrosa le oscurava la
mente. Il soffrire tanto per la sua morte non le sembrò una colpa nei
riguardi di Antonio e delle sua famiglia, non certo un’infedeltà anche
solo a livello di pensiero; esso scaturiva non tanto dal ricordo del suo
amore perduto tempo fa, quanto dalla fine violenta di Mario, dal suo
destino negato di gloria, dalla sua vita spezzata. Provava una pena
profonda per la sua sorte così perfida, così impietosa, così straziante
e uno spasimo le chiudeva la gola e il cuore.
Assunta bussò alla porta.
-Donna Isabella, don Saverio è passato a farvi visita. E’ dabbasso che vi
aspetta.
-Digli che scendo subito. Fallo accomodare in salotto.
Si lavò il viso perché andassero via le tracce di pianto, si ricompose e
scese. Forse la visita dello zio l’avrebbe distolta dai suoi pensieri.
Si ricordò che avrebbe dovuto riferire allo zio dell’incontro di Assunta
con i due cavalieri. Gli ultimi avvenimenti l’avevano distratta dal
dirglielo.
-Zio Saverio, avete saputo? Un grande lutto colpisce noi tutti. E’ morto
Mario Pagano,l’eroe del pensiero, il nostro amico, lo studioso del
diritto che ha incantato le menti.
-Sì, Isabella, è una grande perdita. Io sono venuto da te per questo,
perché so quanto soffri; per te poco più che adolescente Mario era un
punto luminoso, un ideale di perfezione. Ricordo quanto eri orgogliosa
di essere ammessa in biblioteca accanto al trio dei grandi, Mario, lo
zio Filippo e lo zio Giuseppe, e come li guardavi estasiata. La notizia
mi accora molto e molto pregherò perché il Signore ammetta la sua anima
nella luce del Suo regno.
-Zio Saverio, i tempi sono amari di trepidazioni e paure e, per questo,
Antonio mi aveva proposto di andare in campagna, quasi a nasconderci.
Io, però, l’ho dissuaso, convinta che distaccarci dalla famiglia, così
numerosa e importante, sarebbe un errore. Ancora, noi tutti contiamo sul
vostro aiuto e, tramite voi, su quello della Chiesa. Il clero può molto
e la diocesi di Acerenza ha voce in seno al suo capitolo.
-Tutti voi siete la mia famiglia e la vostra sopravvivenza mi sta a cuore
più di ogni altra cosa. Anche io sono capace di slanci e di eroismi, ma
senza esaltazione: quella che non condivido è la rivoluzione senza caute
riflessioni sul prima e sul dopo.
-Forse siete voi dalla parte del giusto. Ora devo dirvi dell’altro. Ho
tardato a riferirvi un episodio che mi ha sconcertato, ma i fatti
convulsi degli ultimi mesi non mi hanno dato la serenità per parlarvene.
Proprio la sera in cui cominciai a star male per il parto del piccolo
Giuseppe, mandai Assunta a chiamare mia madre perché accorresse. Ella
non aspettò che mia madre si preparasse e tornò in gran fretta a casa.
Sulla via del ritorno- così mi ha raccontato- ha visto due cavalieri con
un mantello bianco e una croce sul petto. Un cappuccio copriva loro il
capo sì che risultava difficile distinguere i loro visi. Potete
immaginare la mia sorpresa e il mio sgomento; però, ho avuto la forza di
dominarmi per non tradire il mio turbamento e ho raccomandato ad Assunta
di non rivelare mai, a nessuno, quanto aveva visto perché era
pericoloso. Quando io a buon proposito volevo inculcarle il dubbio che
la visione potesse essere stata un gioco della luce lunare, ella ha
obiettato dicendo che anche lei aveva pensato a qualcosa di irreale,
frutto di immaginazione; ma il rumore degli stivali sul selciato lo
ricordava bene e ancora nitido le rintronava nelle orecchie.
-Che dici mai? Una mattina, non so con precisione quando, il sacrestano mi
disse che nella notte precedente aveva sentito dei rumori nella
cattedrale e che insieme a due suoi amici era accorso e aveva trovato
presso l’altare di San Canio un grosso martello e uno scalpello come se
qualcuno avesse voluto servirsene per forzare o spaccare la lastra di
marmo che copre il sarcofago del nostro Patrono. Non è improbabile che
questo episodio sia legato alla presenza delle figure misteriose viste
da Assunta. Mi sono sempre chiesto perché non avessero completato
l’opera. Sono stati veramente interrotti dal sacrestano e i suoi
compagni? O hanno scelto di non farlo? O è sopraggiunto qualcuno a dar
loro un contrordine? Il mistero si fa sempre più fitto e il tuo racconto
non fa che accrescere il mio turbamento. Da quando abbiamo scoperto il
vestito di Cavaliere del Tempio, vivo in un continuo incubo, mi pongo
tanti interrogativi, faccio numerose congetture senza venire a capo di
nulla. Due cose sono certe, la prima è che gli avvenimenti di cui siamo
a conoscenza sono senza ombra di dubbio legati tra loro, la seconda è
che dobbiamo distruggere l’abito perché non ha senso il conservarlo,
anzi è causa di grave preoccupazione.
-Sono anch’io del vostro parere. Non so perché né come; ma non mi piace
sapere che è nascosto nella grande casa. Non c’è tempo da perdere.
Domani verrò in cattedrale per la messa mattutina; dopo, affronteremo al
meglio la circostanza. Antonio è fuori, è tempo di vendemmia. Volete
trattenervi a pranzo con noi? Proverò davvero un gran piacere se
deciderete di restare.
-E sia! Ho il desiderio di vedere i progressi dei tuoi figli.
-Ora vado a chiamarli, vi terranno compagnia, mentre io darò disposizioni
in cucina. Mi gioverà non rimanere sola.
Vennero alla spicciolata il padre, la madre, la sorella e Pietro Paolo,
Carolina e il marito. Non pensava arrivassero in tanti; in realtà, l’ora
triste li aveva spinti a voler stare insieme, convinti che l’unione li
rendeva più forti e più sicuri, e, la cosa più importane, potevano
esporre liberamente le proprie idee senza il timore di essere traditi.
- Zio Saverio- disse Pietro Paolo- avete vinto voi. La repressione
regalista cui non è estranea la Chiesa ha spento nel pianto e nel sangue
ogni sogno di riscossa, ogni ideale di libertà. E il popolo continuerà a
sottostare e a soffrire, a piegarsi e a servire.
< Caro nipote, non voglio che tu creda che io sia addirittura un
sanfedista senza amore per i propri fedeli e per la propria terra;
ritengo, però, che le rivoluzioni vadano preparate, che non possono
essere volute soltanto da pochi, mentre gli altri si affidano al caso o
al partito del più forte o, comunque, ad una scelta dettata dalla
superstizione e dall’ignoranza. Soffro molto nel vedere come la nostra
gente è in balia degli eventi senza essere consapevole, spinta da
chiunque riesce a controllare le sue emozioni e ad allettarla con
promesse, che quasi sempre risultano false.
-Certamente non ci arrenderemo. Forse avete ragione voi, i tempi non sono
ancora maturi e allora lavoreremo perché i più sentano un credo comune.
Noi, a cui non è stata negata la possibilità di istruirci, di conoscere,
di avere agi e nobiltà abbiamo la responsabilità di non dimenticare i
meno fortunati, di aiutarli a liberarsi da una schiavitù che mortifica
loro e condanna noi.
- Pietro Paolo- intervenne don Filippo- mi colpisce la tua foga, sei così
giovane! I tuoi sentimenti ti nobilitano; però, ti consiglio di essere
prudente, di non esporre le tue idee così ribelli al di fuori della
famiglia, di non fidarti perché potrebbe essere molto pericoloso. Ho
saputo che le esecuzioni a Potenza e dintorni sono all’ordine del
giorno, e non solo di repubblicani e di chi realmente ha contribuito al
sovvertimento dell’ordine precostituito, ma anche di persone innocenti,
basta che siano sospettate: figuratevi che hanno impiccato un semplice”
bracciale” completamente ignaro.
- E’ vero- rispose Pietro Paolo- la cautela è d’obbligo; però, riprovevole
è l’indifferenza: Il discorso di libertà, di indipendenza, di riscatto
deve continuare. Daremo vita a società segrete, che, dapprima si
muoveranno nell’ombra, poi, convertiranno alle loro idee tutte le classi
sociali e, finalmente, cambierà la Storia. La Francia ci offre l’esempio
di come ciò sia possibile. Mi hanno riferito che il nostro Mario Pagano,
nel recarsi al patibolo, ha pronunziato queste parole ”Due generazioni
di vittime e di carnefici si succederanno, ma l’Italia, o signori, si
farà“ e noi opereremo perché nasca una Nazione Una e Libera.
Parte IX -
Segue >>
|