Home Page

Artisti Lucani

Guest Book

Collaborazione

Home Libro

le fotografie

Albano di Lucania


 

<< precedente

ALBANO DI LUCANIA
a cura di Mario Scelzi

successivo >>

 

LA PESTE DEL 1656-1657

La Basilicata, nel sec. XVII, fu devastata da terremoti, pestilenze, carestie che sconvolsero il tessuto sociale ed il paesaggio naturale, aggravando le già precarie condizioni economiche. Soprattutto la pestilenza del 1656-1657 decimò la popolazione della regione, distrusse il bestiame e provocò, di conseguenza, una tremenda carestia. Dalla tassazione focatica fornitaci dal Giustiniani2 si arguisce che Albano fu uno dei paesi più colpiti, poiché morì di peste più del 50% della popolazione. Attribuendo una media di sei persone ad ogni fuoco (nucleo familiare), ricaviamo gli abitanti del paese relativi ad alcuni anni del XVI e XVII secolo.
 

Anno Fuochi Abitanti
1532 279 1674
1545 394 2364
1561 388 2328
l595 480 2880
1648 300 1800
1669 149 89422

 

Confrontando i dati della tabella, risulta evidente che la popolazione, dal 1595 al 1648 diminuì di ben 1080 persone. Non conosciamo le cause che determinarono un calo così vistoso; si suppone che Albano sia stata colpita dal terremoto del 1627 che provocò gravi danni in tutta la regione.

La calamità che, dopo qualche decennio, ridusse ulteriormente la popolazione, facendola scendere sotto i mille abitanti, fu la terribile peste del 1656-1657. Nell’Archivio Parrocchiale sono custoditi numerosi documenti risalenti a quel periodo e tutti, anche se con riferimenti marginali, ci presentano le conseguenze dell’immane sciagura. Il materiale è costituito da testamenti dettati da malati che, in cambio di messe e suffragi per l’anima, nonché di una degna sepoltura, cedono le loro sostanze al Reverendo Clero di Albano. Il lascito consiste per lo più in beni immobili, una casa, una vigna, qualche tomolo di terra o di grano, ma spesso sono nominati oggetti impensabili per noi che viviamo nel secolo del benessere e della tecnologia: un paio di scarpe, una pentola, una “sartagine” (tegamino), una botte, una madia, gomitoli di lana, alcuni bracci di tela di lino. Povertà, disperazione, bisogno di affetto, desiderio di pace nell’altra vita, sono i temi dominanti di ogni testamento. Dai documenti è possibile conoscere anche il tipo di coltura praticato nel Seicento (grano, orzo, vite, fave, cicerchie, lino, cotone), mobili e utensili che costituivano l’arredamento delle case di famiglie più agiate ed il linguaggio usato dal popolo, poiché il periodare risente molto di espressioni e termini dialettali. Contrariamente al dialetto di oggi, la lingua di allora si avvicinava di più al latino, come dimostrano i seguenti esempi: et congiunzione e; hora ora, dal lat. hora; voluntà = volontà, dal lat. voluntas; socero = suocero, dal lat. socer; in firmo = infermo, dal lat. infirmus; con firmo confermo, dal lat. confirmo; undeci = undici, dal lat. undecim; dodeci = dodici, dal lat. duodecim; ut supra = come sopra; et sic volo = e così voglio, ecc.

Un altro dato importante che scaturisce dalla lettura dei documenti del 1656-57 riguarda la proprietà privata. Contrariamente a quanto si ritiene, in Albano, nel sec. XVII, non erano pochi i cittadini “signori e padroni” di case, vigne, terre, pascoli, poiché la maggior parte delle donazioni fa riferimento a beni immobili.

Non è stato possibile decifrare tutti i testamenti, perché molti risultano sgualciti o sbiaditi nella scrittura. Altri presentano una grafia illeggibile per il frequente uso di termini tecnici o contratti. Tuttavia la gravità della catastrofe si desume ugualmente da quelli che si prestano ad una più agevole interpretazione. Riportiamo il testamento dettato da Antonio la Neglia al sacerdote D. Aloisi Fischetto che assolve alla volontà del testatore in qualità di scrivano, testimonio e confessore. Il documento, pur nella sua brevità, risulta più eloquente di una pagina di storia.
 

“A di 22 di 7bre 165623

 

Io Antonio la leglia stando in firmo p(er) pesta si e fatto testamento, et si lascia p(er} l’anima sua robbe

In primis24 Lascia la casa confinata co(n) la casa di Gio. Tomaso Martino, et altri fine con levare docati Sette che sono del Clero lasciati da Lucretia gliemme, et l’altri che restano siano p(er) l’anima mia.

Ite(m)25 Lascia tumila dodeci di grano che sono dentro il grano del S(igno)r Zacinto Vezzi, et che se pretende il terraggio, che si paga sopra li giornati delli boni, che si deve, che sono quatri, et undeci carlini che si deve.

Ite(m) Lasciala vigna alli macinili che si piglio la videgna del uva, et l’altra, et che si facciano bene comuni, moglie, et marito.

Ite(m) Lascia vinti bracci di tela di lini che mi dicano messe p(er) me, et esso la quale è inpotere di Gio. Do(meni)co Vitetti, et è stata pagata.

Ite(m) Lascia doi tumila di orgi, et uno di cicerchie, dai votticelli di dieci barili l’uno, et dai arcelli, et una caldara, et una catena di ferro, una sartagina et tutti l’altri aciamenti che si trovano dentro in detta casa, una sporta che in casa di Gio. Matteo di Scielzo, et tutti li supradetti robbe che si faccia beneficio p(er) l’anima nostra, et che si dicano li messe della Croce, il finerale di docati quatri, et l’altre restante si ridicano messe all’alme previligiate.

Ite(m) lascia una spaialengna a S(an)to Cono et cossi è stata la mia volu(n)tà, et faccio il segno della Croce.

Io Antonio la neglia con firmo ut supra.

Io D. Aloisi Fischetto confessore ho fatto questo testame(n)to p(er) voluntà delli detti, et sono testi(mo)nio ut supra, et no(n) more(n)do mia moglie sia donna (signora), et padrona, p(er) in fino che campa”.

Dalla lettura del testamento si evince pure che il reverendo D. Aloisi Fischetto possedeva, nel complesso, una preparazione culturale non certo brillante, almeno per quanto concerne l’uso della lingua. Ciò non deve destare meraviglia, poiché, nei secoli passati, anche tra il clero vi erano sacerdoti semianalfabeti. In Albano è rimasto proverbiale il curriculum scolastico di alcuni preti, investiti degli ordini sacri senza sottoporsi alla lunga e tediosa fase di preparazione nel seminario. Riportiamo quanto scritto a riguardo dal nostro concittadino Nicola Molfese (1931-1984) a cui la morte improvvisa ha negato la soddisfazione di pubblicare un’approfondita ricerca sui generi di vita del paese negli ultimi decenni: “Nel gruppo dei professionisti, e forse al vertice della scala, andavano pure compresi i sacerdoti: in ogni famiglia nobilizia era invalsa la consuetudine di esprimere almeno una figura di religioso, tanto alto era il decoro che ne derivava, così che si contavano a quei tempi decine e decine di sacerdoti. D’altro verso, il costo... di tali professionisti era molto basso, nè si sottilizzava troppo sull’intensità della vocazione: bastava frequentare pochi mesi il seminario diocesano, per imparare a leggere il latino (o perfezionare la lettura dello stesso italiano), per tornarsene a casa muniti degli ordini e di ogni altro attributo sacerdotale. Gli anziani del paese ricordavano alcuni casi limiti di ordinazione, in cui, dicevano essi, bastava recarsi presso la sede diocesano con un asino carico di doni (salsicce, provoloni, prosciutti, ecc.), per conseguire in poche settimane l’ambita investitura. Che essi, poi, badassero più agli onori temporali che alle cure spirituali, era largamente scontato e tollerato; tanto che talune manifestazioni della loro vita privata, che, per l’estrema scabrosità oggi farebbero gridare allo scandalo, allora passavano del tutto inosservate, sia agli occhi della pubblica opinione che a quelli delle superiori gerarchie ecclesiastiche. Un adagio popolare, ancora oggi molto in voga, così sentenziava con chiara allusione: ‘Fa’ quello che prete dice e non quello che prete fa’ “26

Un’altra nota saliente che scaturisce dall’esame dei documenti del 1656 è costituita dal fatto che essi presentano il medesimo schema nell’introduzione, nel corpo e nella chiusura. Ecco alcuni esempi di apertura: “In nomine Domini 25 d’Agosto 1656. Per essere breve la vita mia per il morbo della pesta o contagio et essendo sano di mente faccio questo mio ultimo testamento..” (Serie Prima, n. 23). “Die 11 Settembre 1656 Albani. Anna de Moles per esser tempo di Pesta, nè sapendo l’hora della sua morte, nella Matrice chiesa di detta Terra in presenza delli rifratti testimoni ha voluto fare questo presente suo testamento...” (Serie Prima, ti. 104). “Dì prima Ottobre 1656. Io Laurenzio Valenzano stando in pericolo di morte per la pesta ho chiamato è Dan Aloisi che mi faccia testamento et lascia al SS. Sacramento, et al SS. Rosario le robbe...” (Serie Prima, ti. 26).

Anche la conclusione è quasi sempre la stessa e reca la firma di D. Ambrosio Tonno oppure di D. Aloisi Fischetto i quali, professandosi testimoni e confessori, scrivono il testamento per volontà del testatore.

Esaminando gli Atti, si desume che il piano concordato dai due intraprendenti sacerdoti mirava a conseguire un duplice obiettivo, porgere una parola di conforto, amministrare, in caso di necessità l’estrema unzione e tutelare, contemporaneamente, gli interessi de Reverendo Clero. Tutti i testamenti, infatti, a differenza degli altri Atti conservati nell’Archivio Parrocchiale, oltre ad essere simili nella forma e nel contenuto, sono scritti su foglietti volanti che i due prudentemente, avevano sempre a portata di mano. Non c’era momento migliore della peste per spillare ai malati una casa, una vigna, tomoli di grano e di orzo, e i due reverendi non si fecero sfuggire un’occasione così propizia. Considerando che il nostro paese viveva allora in pieno feudalesimo, il piano architettato dai due sacerdoti rientra nella norma. La Chiesa, nel corso dei secoli, ha annoverato tra le sue fila figure illustri di Santi, di asceti, di missionari, ma anche persone non portate a predicare il Vangelo e a sposare la povertà. Non bisogna stupirsi se, nel Seicento, alcuni preti ricorrevano a certi espedienti per sopravvivere, giacché molti intraprendevano la vita ecclesiastica per imposizione dei genitori o per assicurarsi un’esistenza tranquilla e senza problemi economici. Contro il malcostume di alcuni sacerdoti e chierici di Albano, si eleva di frequente la vibrata protesta del Vescovo di Tricarico che, con editti e decreti, invita il clero all’osservanza delle disposizioni canoniche, “sotto pena di privazione di loro officio”27.

L’Archivio Parrocchiale abbonda di documenti riguardanti donazioni elargite da ammalati a beneficio della Chiesa. Nel testamento di Francesco Antonio Molfese leggiamo: “Il suddetto in letto giacente infermo di corpo, sano però per la Dio grazia di mente, ed in retta sua loquela, memoria, et udito lascia al reverendo Clero i seguenti beni...” (Serie Prima, ti. 168). Quando il lascito risulta consistente, il testatore, oltre ad un funerale solenne, messe, preghiere, candele, vuole pure che “il suo cadavere sia seppellito nella Matrice Chiesa di questa suddetta terra, e propriamente nella sepoltura del SS. Rosario, essendo così la suo volontà” (Serie Prima, ti. 168). Mediante testamenti, lasciti, donazioni, istrumenti rogati dal notaio, le terre appartenenti al Clero di Albano, nel 1813, ammontavano a 422 tomoli, senza annoverare le case possedute e il cospicuo patrimonio zootecnico.

Abbiamo cercato, nell’Archivio Parrocchiale, il libro dei defunti relativo al 1656-1657, per avere un quadro preciso dei morti per peste, ma, con rammarico, abbiamo constatato che è andato smarrito. In compenso è stato possibile compilare una statistica delle nascite, attingendo i dati dal libro dei battezzati. Il risultato del sondaggio conferma quanto avevamo ipotizzata: la popolazione di Albano, nel giro di pochi anni, si è quasi dimezzata, passando da 75 battezzati nel 1655, a 45 nel 1657, Nei successivi decenni, la media è scesa progressivamente, fino a raggiungere il limite minimo di 25 battezzati nel 1680. La riduzione così vistosa è stata, forse, una delle conseguenze della peste, Dai testamenti e dal libro dei battezzati è possibile anche circoscrivere la durata del morbo. Il primo testamento che menziona la peste risale al 25 agosto 1656; il libro dei battezzati, con grafia frettolosa, prova tangibile della drammatica lotta contro l’epidemia, registra, dal 25 settembre 1656, al 5 febbraio 1657, il battesimo di quattro bambini soltanto. Un particolare da non trascurare ci viene fornito dal “Cedolone per la pubblicazione della scomunica di certe persone...”, datato 26 luglio 1656. In esso leggiamo: “Per i sospetti che corrino p(er) il contagio, suspendiamo in altro tempo il Sinodo, che p(er) lo solito dovea celebrarsi all’amità d’Agosto p(ro)ssimo venturo”28.

La pestilenza ha, quindi, infierito su Albano per sei mesi circa: agosto 1656-gennaio 1657.


21 L. Giustiniani, op. cit., pag. 93.

22 Dallo “Status animarum in Albano” (APA, Serie VI, n. 5) apprendiamo che il paese, nel 1672, contava 947 abitanti. Ciò conferma che, per conoscere l’ammontare della popolazione, e consigliabile moltiplicare per sei il numero dei fuochi.

23 APA, Serie Prima, n.94.

24 in primis: tra le prime cose.

25 Item: parimenti, e così pure.

26 N. MOLFESE, Paese di Lucania, dattiloscritto inedito gentilmente concesso dal fratello Emilio Domenico, pagg. 155-156.

27 Si vedano a proposito le disposizioni vescovili concernenti il trasporto di "armi di fuoco, e di taglio” (pag. 276); il modo di vestire di sacerdoti e chierici (pag. 277); il Decreto di Mons. Zavarrone sulla puntatura (pag. 278).

28 APA, Serie Terza, lett. I.

 

 

Home

la peste del 1656-57

il Duca Ruggiero

Albanesi "rei di stato"

fotografie magia popolare comparizio dell'Annunziata documenti

 

 

[ Home ]    [ Scrivici ]

 


.

.


.

.