Dove la terra finisce
"i lucani in Cile"

 

 

PARTE I°  -  NEL PAESE DOVE LA TERRA FINISCE - Maria Schirone
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Le politiche di Emigrazione nella storia cilena La guerra del Pacifico Indigeni, conquistadores, immigrati
Sch. 1 - La leggenda e la festa de La Tirana
La presenza italiana in Cile Le organizzazioni associative degli italiani Le Compañías dei bomberos
Sch. 2 - Le Compañías dei bomberos
Il viaggio: "Ma non riconoscevo le stelle..."

Le politiche di Emigrazione nella storia cilena

Il nome Cile, nella lingua degli indios Aymara, antico popolo andino, significa “là dove finisce la terra “. L’emigrazione italiana verso questo"mondo ai confini del mondo" è stata sempre meno consistente al confronto con gli altri numerosi paesi di destinazione, dentro e fuori l’Europa. La differenza resta marcata anche rispetto agli altri paesi latinoamericani. Nelle analisi storiche delle vicende migratorie la scarsa rappresentatività numerica ha comportato una sottovalutazione anche della qualità di apporto allo sviluppo di quel Paese.

Nonostante la presenza degli italiani in Cile non abbia superato le 14.098 unità neI 1949 (con una percentuale max., in rapporto agli altri immigrati stranieri, dello 0,40% nel 1907), occorre dire che essa ha costituito il secondo gruppo europeo più rappresentato, dopo gli spagnoli. Non solo: le dinamiche di integrazione sono tra le meno stereotipate e prevedibili, e lo studio di questa realtà si presenta di grande interesse per i risvolti inediti che offre. Ove poi si consideri che tra gli italiani le provenienze sono ben circoscritte a poche aree regionali, si rimarcherà il ruolo innovativo e il contributo culturale (in un’accezione ampia) della presenza lucana nelle regioni del Nord e del Centro del Cile.

Vediamo. Rispetto all’intero territorio, la provenienza degli immigrati italiani è stata approssimativamente calcolata come segue:

tra il 1880 e il 1914: Liguria (50%), seguita da Piemonte e Lombardia (tuttavia i lucani erano presenti in gran numero già in quegli anni, come si dimostrerà con abbondanza di dati);

tra il 1915 e il 1949: Liguria (48%), seguita dalla Basilicata (10%) e altre regioni;

tra il 1950 e il 1985: Trentino (40%) seguito dalla Basilicata (13%), Abruzzo (8%), Liguria (6%) e altre regioni5.

Oggi la provenienza è così calcolata: permane la Liguria, per oltre il

50% della presenza italiana; Piemonte ed Emilia Romagna per circa il

10%; a seguire Lombardia, Toscana e Campania tra il 6 e il 5%; la Basilicata con circa il 4%. Tuttavia i lucani sono concentrati in poche località:

come a Iquique, dove rappresentano il secondo gruppo per provenienza, costituendo in tal modo l’altra significativa presenza dopo i liguri e alcuni piemontesi.

Nel 1996 i membri della collettività italiana, immigrati e discendenti, erano 25.950, dei quali oltre il 60% nati in Cile. Siamo alla seconda e terza generazione, ma il dato dimostra come i discendenti degli italiani abbiano voluto mantenere la cittadinanza italiana.

 

La storia dei flussi migratori dall’Europa (e dall’Italia) verso le lontane lande cilene si spiega con una coincidenza di esigenze6. Ai primi anni del XIX secolo il Cile era un piccolo paese il cui confine settentrionale si collocava al di sotto di Antofagasta e quello meridionale era segnato dal Rìo Biobío. Ebbene, che nelle poche terre disponibili si stabilissero gruppi di immigrati europei, fu una necessità avvertita innanzitutto dagli stessi cileni, che nel 1800 si contavano in poche centinaia di migliaia, prevalentemente amerindi. Del resto, tutta l’America latina guardava agli Stati Uniti in cui l’Emigrazione aveva cambiato il ritmo di sviluppo del paese. Benché l’Emigrazione di massa avesse luogo solo in alcune regioni del versante atlantico (in special modo nelle megalopoli di Buenos Aires, Montevideo e San Paolo, le cui popolazioni dal 1850 al 1940 raddoppiarono ogni 30-40 anni7), anche il Cile si pose il problema, guardando all’Europa “come modello e referente ideale per la costruzione delle istituzioni politiche, economiche e sociali del paese”8.

Bernardo O’Higgins9 così si espresse nel 1823: “La scarsità della popolazione, la povertà dell'industria, il ritmo lento della civilizzazione, la disaffezione al lavoro, l’immoralità contratta durante il lungo esercizio della guerra, il ladrocinio, sono mali che preoccupano il governo. Senza urgenti rimedi la patria non può prosperare. (...); il radicamento di colonie europei (è) la misura p opportuna e benefica..."10

A questo proposito è opportuno sin d’ora evidenziare come nelle politiche di Emigrazione dei pur diversi governi latinoamericani, gli europei, e tra questi gli italiani, siano stati generalmente considerati come “apporta-tori di civiltà”, a differenza dell’America del Nord, crocevia di tutti i poveri del mondo, dove la figura dell’emigrante — colui per il quale l”’America” del miraggio è innanzitutto New York — si identifica sempre con il “pezzente” in fuga dalla miseria. Ma se qui nell’immaginario degli statunitensi l’immigrato italiano, in modo particolare, si confonde ora con la malavita ora con l’ambulante, ciò non accade (o accade in modo episodico e meno duro) nell’America del Sud. E’ pur vero che, come sappiamo, lo stesso nucleo fondante degli Stati Uniti risiede negli europei del nord, i quali, dopo l’abolizione della schiavitù, usano gli europei del sud (italiani, spagnoli, greci, slavi ecc.) come manodopera di rimpiazzo.

Un’impronta storica differente da quella latinoamericana. Qui, “è come se questo continente, che deve la propria scoperta a Colombo e il nome a Vespucci, sia sempre pronto a pagare all’Italia il suo contributo di riconoscenza. Il fatto che Garibaldi in Uruguay, e suo figlio durante la rivoluzione messicana, abbiano partecipato ai grandi momenti della storia del Sudamerica, non ha potuto che rafforzare questa tendenza   L’atteggiamento dell'America latina è veramente l’opposto di ciò che accade nel Nordamerica..."11

E non è un caso che il Canto a la Argentina di Rubén Darío si apra con l’esaltazione della presenza italiana: “ Hombres de Emilia y los del agro / romano, ligures, hijios / de la Tierra del milagro /partenopeo, hijios todos / de Italia, sacras a las gentes..."12

 

Il primo provvedimento cileno a favore dell’Emigrazione è del 1817 e rappresenta una novità rispetto alla precedente epoca coloniale, durante la quale l’ingresso in Cile era proibito a chiunque non fosse spagnolo. Ora invece siamo sulla scia dei moti indipendentisti, nati in tutto il Sudamerica per espellere la Spagna dal continente13, anche in ideale collegamento con le rivoluzioni americana e francese. Alle aspirazioni indipendentiste non rimangono estranei i mercanti britannici e nordamericani che intuiscono le nuove opportunità offerte dalla cacciata degli spagnoli.

A quella prima apertura fa seguito la legge del 1824 che concede privilegi agli stranieri che portino nel paese fabbriche e manifatture, soprattutto legate allo sfruttamento del rame. La politica immigratoria dà i primi risultati: l’incremento demografico risulta più del doppio già in 40 anni. Nel frattempo la letteratura di propaganda tenta di associare il risveglio dei popoli “dalle catene della Spagna” con l’emigrante che “spezza i legami col paese d’origine per rinascere nella terra desiderata”14. Un tentativo, ci pare, alquanto maldestro.

Dalla metà del secolo il Cile si organizza per l’accoglienza delle prime comunità provenienti dall’Europa. E’ il periodo dell’ondata di provvedimenti per l’abolizione della schiavitù, cui fanno eccezione, per ora, Cuba e Brasile, e che rende ovunque necessario il reperimento della manodopera15. La legge del 18 novembre del 1845, seguita da altre disposizioni negli anni ‘51 e ‘53, dà inizio alla colonizzazione programmata e dispone l’accoglienza di coloni tedeschi in territori demaniali del sud del Cile (Valdivia, Osorno, Puerto Montt ecc.)16. Si tratta dei primi nuclei, che dopo la 2° guerra mondiale assumeranno una notevole importanza numerica con l’emigrazione di richiamo, soprattutto per i tedeschi fuggiaschi17. In questa fase i coloni affrontano tutte le spese iniziali, da quelle di viaggio a quelle per l’avvio delle attività. Il modello tedesco è presto seguito dagli svizzeri che nel 1877 si stabiliscono a Punta Arenas.

Una legge del 4 agosto 1874 consente ai privati di colonizzare la zona australe popolata dagli indios Mapuche, sui quali il Cile Otto anni dopo otterrà una vittoria militare. Nel frattempo, naturalmente, il titolo di “colono” non spetta agli indios, ma soltanto agli immigrati europei e Nordamericani.

In ogni caso, tali presenze contribuiscono ai primi innesti di cultura europea e con essa all’assorbimento di principi liberali, in Cile come in Uruguay, Argentina, Messico, prima che in altri paesi dell’America latina, che su questo piano rimangono almeno un passo indietro. E’ un processo lento e faticoso, in una realtà in cui l’indipendenza non aveva avuto l’esito sognato da Bolívar, di un’unica grande America Latina. Ne era conseguita invece una frantumazione politica in tanti stati, in ciascuno dei quali covano guerre civili: piccole unità indebolite, dalle quali emergono i caudillos, capi locali che rappresentano interessi particolari e che si contendono il potere militarmente. L’approdo è spesso la restaurazione, su scala locale, dell’ordine preesistente fondato sull’appropriazione delle risorse produttive da parte di una ristretta minoranza. Questa “impronta”, come modello di potere, resterà latente anche nelle successive esperienze politiche, fino in tempi recenti. Tali considerazioni rendono meno retorica la ‘lettura’ dell’indipendenza, tutt’altro che omologata alle rivoluzioni borghesi europee contemporanee.

Siamo sempre alla metà del secolo quando la scoperta dell’oro californiano e dei giacimenti australiani vengono ad intensificare la navigazione sulle rotte oceaniche e lungo le coste del Pacifico (Perù e Cile), apportando consistenti benefici: mentre in California si costituiscono insediamenti cileni, Valparaíso diviene il primo scalo del Pacifico tra l’Europa e il Nord America sulla rotta dall’Atlantico verso Capo Horn18. Ciò, alme no fino a quando l’apertura del canale di Panama (1915) non deviò i traffici commerciali. Nel frattempo anche la costruzione di ferrovie era diventata di interesse nazionale. William Wheelwright, lo stesso americano che aveva introdotto la navigazione a vapore lungo il Pacifico, aprì un tratto di strada ferrata di circa 80 chilometri che collegava la città mineraria settentrionale di Copiapó alla costa.

 

I benefici tuttavia non si avvertirono nel lavoro contadino, che rimaneva in condizioni servili e tecnologicamente molto arretrate. Dall’epoca dei conquistatori le terre (latifundios) erano nelle mani degli encomenderos, cui venivano affidati gruppi di indi o mestizos, obbligati come inquilinos a lavorare sulle terre del padrone. Il quale li aveva a carico, accampando in cambio numerosi diritti19.

Ora al bracciante (o fittavolo), indio o immigrato, si chiedeva che producesse di più mantenendo quello stereotipo del contadino latinoamericano tradizionale, con scarsi bisogni e una rassegnazione tale da accettare larghi margini di arbitrio. E’ in queste condizioni che si trovarono i primi lavoratori della terra immigrati: si trattava di cinesi, giuridicamente liberi, ma venduti ai proprietari o a società di opere pubbliche dagli organizzatori del trasporto. Comunque, questi sistemi erano gli stessi largamente subiti fin verso la fine del secolo scorso anche dagli emigranti italiani, ad es. in Brasile20.

 

Mamma mia, ca me scrive sempre,
me disce: torna, torna, ngasa toia
t’agg crusciù cu pane, e senza pane,
e mo, perché haie purdù la via?
Num pozz mo turnà
mamma mia
Chi viegna a fa? pe mo
nu ngnè fatìa.
21

 

5 L. Baggio, P. Massone, Presencia italiana en Chile, 1996. p. 34. N.B.: a chi scrive pare dubbia anche l’improvvisa impennata in percentuale relativamente al Trentino. Ma il testo cui si fa rif. non precisa niente di più.

6 La ricostruzione che segue relativa alle politiche legate all’Emigrazione è un rapido riordino cronologico, funzionale al tema, per il quale cfr.: H. Herring, Storia dell’America latina, 1971;T.H. Donghi, Storia dell’America latina, 1972; A.A.V.V.,Il contributo italiana allo sviluppo del Cile, ed. Fondazione Agnelli, 1993; W. Bernhardson, Cile, 1998, e più in generale la bibliografia di riferimento.

7 Buenos Aires contava 70.000 abitanti nel 1869; 220.000 nel 1895; 700.000 nel 1914.

8  M.R. Stabili, Dalla riflessione alla pratica storiografica: itinerario e senso di una ricerca sugli italiani in Cile, in il contributo italiano allo sviluppo del Cile, cit., p. 36.

9 Comandante in seconda dell’esercito di San Martin (v. n. 13 a p. 17); figlio illegittimo di un irlandese al servizio degli Spagnoli come viceré del Perù, divenne un eroe dell’indipendenza sconfiggendo nel 1817 l’esercito spagnolo a Chacabuco. A capo della nuova repubblica cilena, egli abolì i numerosi titoli nobiliari descrivendoli come puri e semplici ‘geroglifici’ che non potevano aver posto in una nazione libera. Fu il primo presidente del nuovo Stato.

10 Cit. in M.R. Stabili, c.s., p. 37.

11 R. Paris, L’Italia fuori d’Italia, Storia d’Italia, Einaudi, 4*, p. 570.

12 Idem, p. 569. Ma gli italiani sono anche coloro che portano altrove la "coscienza di classe”, come quadri del nascente movimento operaio: come in Argentina e in Uruguay; in Costa Rica il primo sciopero è organizzato nel 1889 da 1200 operai italiani ingaggiati nella costruzione della linea ferroviaria San José-Puerto Limon. Questo ruolo resta politicamente significativo almeno fino alla Prima guerra mondiale. Cfr. ivi, p. 574.

13 La proclamazione ufficiale dell’indipendenza del Cile è del 1818. In ogni paese dell’America latina lo svilupparsi di una nuova identità americana accrebbe il desiderio di autonomia. Ricordiamo in sintesi che dal Venezuela un esercito di criollos (creoli, spagnoli nati in America) comandati da Simon Bolívar si fece strada attraverso le Ande e poi verso il Perù. L’Ejército de los Andes di José de San Martin, composto anche da schiavi liberati, marciò sulla cordigliera dall’Argentina al Cile, occupò Santiago e si diresse a nord verso Lima. Suo vicecomandante, per la liberazione del Cile, fu Bernardo O’Higgins, primo presi -dente della nuova repubblica.

14 Vincente Perez Rosales, Essai sur le Chili, cit. in il contributo italiano..., p. 37.

15 In Cile il provvedimento di abolizione della schiavitù è del 1850.

16 Cfr. M.R. Stabili, cs., p. 43.

17 Durante la repressione seguita al colpo di stato del 1973 che costò la vita al legittimo presidente Salvador Allende non fu secondaria la presenza e il ruolo degli ex ufficiali nazisti che avevano trovato rifugio in quest’area meridionale. Nel 1983 il settimanale tedesco Der Spiegel pubblicò un articolo su una comunità agricola del sud cileno, Dignidad, creata da immigrati tedeschi ex nazisti. In seguito alle indagini di giornalisti tedeschi e cileni si seppe che molti oppositori erano stati torturati e uccisi proprio in quella colonia, attrezzata e organizzata come ultimo baluardo nella difesa dei “valori” di una Germania sconfitta. La notizia è in i. Blancpain, Lesallemands au Chili, cit. da M.R. Stabili, cs., p. 32.

18 Contemporaneamente anche a Mendoza, nelle Ande argentine, comincia il richiamo dell’Emigrazione. Nel giro di pochi decenni le province latinoamericane conoscono il maggior ritmo di incremento demografico, raddoppiando o triplicando la popolazione in Argentina, Brasile, Cile, Perù, Venezuela, Bolivia, Messico.

19 Questa relazione fra ‘servitore e padrone’ è durata fino al secolo scorso; molti di quei possedimenti sono rimasti intatti fino agli anni ‘60. Cfr. W. Bemhardson, Cile, cit. p. 5.

20 Cfr. TI-I. Donghi, Storia dell’America latina, cit., p. 200.

21 N. Tommasini, Folklore, magia, mito o religiosità popolare, Bari 1980, p. 19.

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