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I Proventi Fiscali del Principe di Stigliano
(da un manoscritto del XVI secolo)

ANTONIO MOLFESE
 

1. LA DOMINAZIONE SPAGNOLA IN ITALIA MERIDIONALE

La triste situazione determinatasi nel secolo XVI nel Regno di Napoli, di cui faceva parte anche la Basilicata, si delineò con la caduta del Regno Aragonese e con l'inizio delle invasioni straniere.
Nel 1501 dopo la fuga di Federico, ultimo re degli Aragonesi, il regno conquistato dagli spagnoli, fu ridotto a provincia e governato per oltre due secoli, fino alla morte di Carlo II avvenuta nel 1700, dai viceré spagnoli.
Alfonso d'Aragona, debellato Renato d'Angiò, imperò indisturbato con il nome di Alfonso I. Alla sua morte (1458) gli successe nel Regno di Napoli il figlio naturale Ferdinando I d'Aragona, in quello di Sicilia il fratello Giovanni d'Aragona. A Ferdinando I successe il figlio Alfonso II (anno 1494) e poi per rinuncia di costui il figlio Ferdinando II. Questi, privato del regno da Carlo VIII di Francia, si rivolse per aiuto al congiunto e dopo molte peripezie il Regno di Napoli passò a Federico ultimo discendente di Alfonso I e ultimo degli Aragonesi a Napoli. Dal momento che era succeduto a Carlo VIII in Francia Luigi XII, questi si rivolse a Ferdinando il Cattolico e prese a trattare con lui una divisione del regno.
Dopo molte peripezie il Regno riunito di Napoli e di Sicilia restò al solo Ferdinando il Cattolico (anno 1503), che dopo qualche tempo si ritirò in Spagna e governò a mezzo di viceré e di luogotenenti. Alla morte di lui (anno 1516) il Regno di Napoli e di Sicilia passò a Carlo V (dell'Impero) arciduca di Austria.
Seguirono nel Regno di Napoli e di Sicilia Filippo II, Filippo III e Filippo IV, figlioli l'uno dell'altro, e poi Carlo II di Spagna che morì senza prole nel 1700.
I viceré, che si sono succeduti durante il periodo spagnolo e che in pratica hanno avuto il dominio dei territori italiani, nel Regno delle due Sicilie sono stati in ordine:
Luigi Darmignach duca di Nemers, a cui seguì Consalvo Ferrante di Cordova duca di Terranova, che regnò dal 1502 al 1506; Don Antonio di Cardone marchese della Padula e Don Giovanni d'Aragona conte di Ripacorsa, che restò fino al 1516; in seguito, anche se con qualche assenza, Don Carlo di Lanoia fino al 1523; Don Ugo di Moncada fino al 1527, Filiberto Scialò principe d'Orange fino al 1528, Don Pietro di Toledo marchese di Villafranca dal 1532 fino al 1553, Don Pietro Paceco cardinal secondino fino al 1556, Don Ferrante AlvarEs di Toledo fino al 1559, Don Enrico di Gusman conte di OlivarEs fino al 1595, Ferrante Ruiz De Castro conte di Lemos fino al 1599, D. Giovanni Alfonzo Pimentel conte di Benevento lino al 1603.
Durante questo periodo nessuna regione d'Italia poteva considerarsi indipendente dalla Spagna, dal momento che questa possedeva, come domini diretti, il Regno di Napoli e di Sicilia al Sud, la Lombardia al Nord, la Sardegna, lo stato dei presidi (formato dalla Maremma toscana e da parte del territorio della scomparsa Repubblica di Siena) ed esercitava, indirettamente, la propria influenza sugli altri stati indipendenti, quali la Toscana, la Repubblica di Genova, lo Stato Pontificio, Venezia, il Ducato di Savoia e i ducati minori.
Il Regno di Napoli e quello di Sicilia erano passati dai sovrani aragonesi a quelli spagnoli in cattive condizioni e la nuova dominazione riuscì a far poco per migliorare la situazione, per garantire la pace interna e per mitigare l'antica miseria di quelle popolazioni, specie in Basilicata.
Il Regno di Napoli molto vasto era diviso in Otto province (Fig. 1): il Principato in due, Citra e Ultra, così come la Calabria: Calabria Ultra e Calabria Citra; la Puglia in Terra d'Otranto e Terra di Bari; l'Abruzzo in due province.
A queste otto province furono aggiunte la Terra di Lavoro, la Basilicata, la Capitanata ed il Contado del Molise.
La situazione del regno era grave in quanto l'agricoltura era depressa, il commercio quasi inesistente, il governo infido ed incapace a governare, i magistrati corrotti, il pubblico costume degradato al massimo, la popolazione ridotta all'estrema miseria; inoltre il regno divenne sempre più covo di masnadieri e di ladri.
Il governo spagnolo centrale non si preoccupò di porre un rimedio ai mali secolari che travagliavano il Regno di Napoli, specie la corruzione, né di mitigare la miseria derivante dalla grave situazione economica, ma si preoccupò invece di contrastare con la forza solo gli atti di pirateria che i musulmani d'Africa con le loro flotte compivano contro le navi ed i paesi costieri.
Carlo V e Filippo II esercitarono il loro potere assoluto con energia e governarono lo stato accentrando nelle loro mani non solo tutta l'autorità, ma anche l'onere che un potere così vasto comportava, senza sottrarsi a nessun sacrificio o dovere.
Non così i loro successori, Filippo III, Filippo IV e Carlo II, i quali si dimostrarono incapaci di governare lo stato e demandarono tutti gli affari nelle mani dei viceré e dei ministri plenipotenziari che risiedevano a Napoli e province.
La crescente inettitudine di questi tre monarchi, circondati da primi ministri incapaci, accelerò il decadimento della monarchia spagnola, condizione che però non permise all'Italia o ad alcuni stati di liberarsi da questo gioco.
Gli sparuti tentativi fatti da alcune province suddite del Re di Spagna non ebbero altro effetto che di aggravare il pesante e crudele dominio.
Il Regno di Napoli, dominio diretto della corona spagnola, dipendeva dal Re, che esercitava da Madrid il potere per mezzo dei viceré, quasi sempre spagnoli, i quali in genere non conoscevano o conoscevano poco il potere affidato al loro governo e la cui massima preoccupazione era quella di ricavare quanto più ricchezze potevano dalla carica che ricoprivano.
Il viceré era coadiuvato nello svolgimento delle questioni amministrative da un Consiglio Segreto, composto di nobili e perciò incapaci di comprendere le vere necessità del paese. I funzionari che lo circondavano, e che avrebbero dovuto limitare la sua autorità ed esercitare un discreto controllo, lo imitavano invece nelle ruberie e nei soprusi, sicuri della loro impunità.
I due regni di Napoli e di Sicilia avevano dei propri parlamenti (assemblee rappresentative composte da uomini eletti dal popolo per discutere le leggi e fare gli interessi del popolo stesso) che, eccetto il nome, nulla avevano in comune coi parlamenti attuali.
I membri di quei parlamenti, anche se levavano qualche protesta contro l'opera ed i soprusi dei viceré, non trovavano ascolto, perché i loro poteri erano limitati e perché quasi sempre finivano col piegarsi alla volontà del monarca.
Nel 1563 Filippo II creò un Consiglio Supremo, che avrebbe dovuto occuparsi solo degli affari d'Italia, ma in realtà esaurì la sua funzione diventando uno strumento per l'esazione delle sole imposte.
Negli stati soggetti alla dominazione spagnola non vi era un apparato amministrativo uniforme e differenti erano gli uffici locali che provvedevano, insieme al viceré, all'amministrazione della vita pubblica; vi era un'amministrazione centrale e periferica.

 

2. AMMINISTRAZIONE DEL REGNO DI NAPOLI

2.1. Organizzazione centrale ed uffici principali

Il Regno di Napoli (Pacichelli) era amministrato da sette uffici principali, che, tanto in pace che in guerra, risiedevano a Napoli.
Per mezzo di essi tutti gli ordini reali venivano eseguiti; essi amministravano le entrate e le uscite del regno, rappresentavano il Re nelle pubbliche funzioni e, tramite i loro luogotenenti ed impiegati, esercitavano la loro autorità fin nelle remote terre del regno. Tutti avevano una rendita di 2.190 ducati l'anno.
Il primo di essi era il Gran Contestabile, a cui era affidato tutto l'esercito terrestre, portava la spada nuda davanti al Re nelle cavalcate e sedeva a mano destra del Re. Si identificava nella persona del Viceré.
Il secondo era il Gran Giustiziere, che governava la Corte suprema e si occupava delle cause civili e criminali, così come delle cause feudali, e tutti i titolati del regno erano sotto la sua giurisdizione. Il suo luogotenente era il reggente della Vicaria (Corte di giustizia del Regno). Sedeva alla sinistra del Re.
Il terzo era il Gran Ammirante; era capitano di tutta la milizia marittima, aveva potere di nominare luogotenenti e sedeva alla destra del Re dopo il Gran Contestabile.
Il quarto era il Gran Camerario, che aveva cura del patrimonio reale; la sua carica venne poi assunta dal luogotenente della Camera della Sommaria, che veniva eletto dal Re con i suoi presidenti; amministrava i proventi provenienti dallo jus tapeti, dalle catapanie delle terre demaniali, dalle relevie dei baroni, dalle tasse del sale e dello zucchero; sedeva dopo il Gran Giustiziere.
Il quinto era il Gran Protonotario, primo notaio o segretario del Re, il quale nei pubblici parlamenti era il primo a parlare, riceveva le risposte degli altri e conservava le scritture reali.
Il sesto era il Gran Cancelliere, il cui incarico era di suggellare tutti i privilegi e le scritture reali; la sua giurisdizione fu poi esercitata dai reggenti la cancelleria e dal segretario del regno; egli esercitava la sua autorità sopra il Collegio, dove venivano laureati i dottori in legge, in medicina e teologia. Si avvaleva della collaborazione di mastrodatti e baiuli e rilasciava privilegi a coloro che si laureavano. Sedeva dopo il Camerlengo.
Il settimo ed ultimo ufficio era il Gran Siniscalco, il quale era il prefetto o maestro della casa reale; aveva in consegna gli ornamenti e gli apparati regi ed aveva il compito di provvedere a quanto bisognava al Palazzo; aveva anche cura delle razze dei cavalli, delle foreste e delle tenute di caccia riservate al Re; la sua giurisdizione era in parte divisa con il Maestro Cavallerizzo e in parte con il Maestro di Caccia. Sedeva ai piedi del Re.
 

2.2. Organizzazione periferica ed uffici

A capo dell'Università (oggi Comune) vi era il sindaco liberamente eletto tra i boni homines e i magnifici (titolo concesso ai cittadini illustri della terra); egli era coadiuvato nell'amministrazione della cosa pubblica dagli eletti officiales o assessori.
Camerario o camerlengo o erario era l'assessore alle finanze che svolgeva la sua mansione coadiuvato da apprezzatori, tassatori e razionali nella riscossione di dazi, di gabelle e di entrate del feudo.
Baglivo o baiulo, ufficiale del governo, riceveva ordini dal Sovrano e dai giudici. Oltre al potere amministrativo (salvaguardia dei beni dello Stato) istruiva e derimeva le controversie civili ed era abilitato anche ad arrestare ladri e assassini.
Notario o cancellarius o mastrodatti teneva il registro delle deliberazioni del feudatario, del sindaco, delle autorità in genere ed annotava tutto ciò che avveniva nella comunità.
Capitano era il responsabile militare della zona e sovraintendeva alla sicurezza del comune in pace e in guerra.
I giudici (questi erano presenti nelle Università più grandi) derimevano le cause civili e penali o istruivano processi che inviavano a Napoli.
I mastro giurati o ufficiali di polizia erano nominati dal baglivo e vigilavano sull'ordine pubblico.
I viari o guardie rurali vigilavano sul territorio e sulle campagne allora infestate da molti ladri e assassini.
Gli uffici, dove si svolgeva l'attività amministrativa del Regno, venivano chiamati genericamente tribunali e i loro funzionari magistrati. Il termine indicava il luogo dove si amministrava la giustizia civile e penale, cioè le controversie che sorgevano (cause civili e penali).
Infatti le cause civili erano azioni giudiziarie promosse dai privati per ottenere dal magistrato il riconoscimento o la tutela dei propri diritti o legittimi interessi-diritti relativi al nome, alla cittadinanza, ai vincoli familiari, al patrimonio, ai rapporti di lavoro.
Le cause penali invece erano quelle promosse dall'autorità giudiziaria, d'ufficio o a querela di parte, a carico di cittadini colpevoli di reati, cioè di violazione delle norme penali dettate a tutela della società, e comportavano la condanna ad una pena detentiva o pecuniaria (cioè alla prigione o al pagamento di una somma).
I tribunali e i loro funzionari magistrati non solo applicavano la legge ma amministravano il patrimonio reale e le rendite dello Stato, provvedevano all'esazione dei tributi, decidevano delle liti contro il fisco, svolgevano cioè tutte le pratiche necessarie a governare il Regno.
In questi tribunali (il tribunale della Vicaria, organo centrale di giustizia per il regno si trovava in Napoli, fu istituito al tempo di Carlo I d'Angiò e vi si dibattevano le cause civili e penali ed in esso si trovavano anche le carceri) erano frequenti le ruberie e la corruzione degli addetti.
I giudici giusti ed onesti erano rari e ciò dipendeva anche dal fatto che, non avendo uno stipendio dallo Stato, erano costretti a vivere delle sportule, cioè degli emolumenti che pagavano ad essi le parti convenute per il servizio prestato, per cui la giustizia spesso era tramutata in un indegno mercato dovuto in parte alla esosità e alle corruzioni dei giudici, sempre in cerca di illeciti guadagni per poter vivere bene, ed in parte alle stesse situazioni locali che venivano a verificarsi.
A Napoli e nel regno l'ordinamento dello Stato non poteva funzionare bene dal momento che le leggi non erano applicabili a tutti i cittadini nello stesso modo e nella stessa misura. Infatti essendovi tra essi disuguaglianza accadeva che venivano esentati dall'osservanza e dal rispetto delle leggi la nobiltà, il clero, i militari, i funzionari di corte.
I nobili poi pretendevano, oltre i privilegi di cui godevano in larga misura, anche l'immunità per le loro abitazioni, per le strade dove queste erano situate, per i servitori che vestivano la loro livrea e per tutti i luoghi dove erano esposti i loro stemmi.
I preti arrivavano perfino a pretendere che fosse concessa l'impunità a coloro con i quali andavano sottobraccio. I malfattori potevano quindi sottrarsi alla giustizia ed il governo si trovava impotente a difendere i cittadini, malgrado il gran numero di soldati di ventura che risiedeva nel paese. Questi ultimi erano mal pagati e consideravano le città meridionali, in cui venivano a svernare ed a svolgere il loro servizio, come terra d'occupazione e, malgrado i divieti, spesso s'abbandonavano a saccheggi, a violenze ad atti di spavalderia.
I viceré per far rispettare le leggi e garantire la quiete pubblica emettevano bandi. Il bando o banno era un provvedimento di carattere normativo ed esecutivo, emanato dall'autorità, che veniva diffuso con avvisi affissi ma soprattutto mediante lettura da parte di un banditore, che girava la città e lo gridava, donde la parola 'grida'.
Grida erano anche chiamati i bandi degli spagnoli, quando governavano l'Italia, ed avevano valore fino a quando restava in carica il governatore che le aveva emanate. Sebbene fossero in gran numero questi bandi e grida raramente venivano rispettati e l'ordine pubblico non era affatto garantito.
Alle cariche pubbliche non si accedeva mediante concorso ma esse venivano acquistate da colui che poteva offrire una somma più alta di denaro o aveva raccomandazioni più influenti. Per ovviare a tali inconvenienti furono promulgate varie leggi, ma poco si riuscì a fare dal momento che non esisteva l'autorità che le facesse rispettare.
Ripetutamente si cercò anche da Madrid di porre un freno al malcostume dei governatori e dei funzionari che governavano in Italia.
Esisteva anche una norma con cui si reprimeva l'abuso, di impiegati, di uscieri, di trombettieri, di servitori del viceré e delle varie

altre cariche dello Stato, di richiedere le buon feste, questuando nelle case private. Ovunque imperava lo sprezzo per la legge; i delitti si moltiplicavano, i malfattori non venivano puniti anche per l'aiuto e la protezione che davano loro i baroni e la polizia, che spesso era connivente.
Alcuni, per sfuggire alle giuste sanzioni della legge, prendevano gli ordini religiosi minori, non per pentimento dei loro misfatti, ma per acquistare l'immunità dai reati commessi.
Tutte queste notizie sono tanto più degne di fede e rispecchiano la reale situazione del paese all'epoca, dal momento che le voci dei sudditi che si levavano a protestare segnalavano proprio gli stessi inconvenienti che vengono riportati anche nelle relazioni degli ambasciatori veneti (Alvise di Lando 1580).
La cattiva amministrazione ed il malcostume erano causa e nello stesso tempo conseguenza della povertà; ma le cause della povertà del regno erano anche altre.
La situazione economica indotta ed intimamente legata anche alle condizioni geografiche delle terre era disastrosa.
Tranne qualche eccezione, come in Campania ed in parte in Puglia, l'Italia meridionale era un paese essenzialmente povero, anche nel suolo coltivabile, dove sparute zone fertili si alternavano ad immense estensioni argillose e aride, a pascoli bradi, a boschi impervi, e dove l'agricoltura, che era la maggiore ed unica risorsa economica, era travagliata dalla mancanza d'acqua e da un clima troppo caldo e non era sostenuta da un'adeguata attività commerciale e industriale.
Durante la dominazione spagnola, molti fattori contribuirono ad aggravare questa naturale povertà: il notevole aumento della popolazione, l'inasprimento eccessivo delle tasse ed infine la decadenza dei paesi mediterranei in seguito allo sviluppo del commercio atlantico, che già allora cominciava a crescere.
La popolazione del regno, nei due secoli della dominazione spagnola, subì inoltre un costante incremento. Infatti nei regni di Napoli e di Sicilia la popolazione nel 1595 era quasi raddoppiata rispetto ai primi del secolo XVI; ma a questo aumento costante non corrispondeva un adeguato accrescimento della ricchezza del paese.

Numerazione di fuochi*
nel Regno di Napoli (CL Racioppi)

Anno Fuochi Anime
1465 232896 (senza Napoli) 1373760 (con Napoli: 250000)
1518 247866 1737196
1595 (data poco sicura) 550090 3628501
     
In Basilicata (G. Racioppi)
Anno Fuochi Anime
1505 22295  
1561 38753  
1648 39201  
1669 27795 (dopo una terribile pestilenza)  
     

A Sant'Arcangelo (L. Giustiniani)

1532 123  
1545 154  
1561 168  
1595 350  
     
* Per ogni fuoco si consideravano in media 5 persone

La città di Napoli era eccessivamente popolata per il forte afflusso di popolazione che dalle campagne, dove non c'era che miseria, si era riversata nella capitale, nella speranza di trovare condizioni di vita meno dure.
I viceré, per soddisfare i crescenti bisogni della corte spagnola e del governo, contribuirono ad accrescere la miseria del popolo, accollando ai sudditi sempre nuove imposte e impedendo loro di svolgere liberamente le attività economiche con una serie di assurde imposizioni.
L'accusa formulata da alcuni storici alla Spagna di aver seguito nell'amministrazione del Regno di Napoli una cattiva politica economica con ordinamenti superati ed espedienti spesso controproducenti, quali dazi molto pesanti, divieti di esportazione, calmieri, gabelle, era fondata.
Mentre il calmiere, prezzo politico stabilito dall'autorità competente in caso di carestia, era necessario per alcuni generi di prima necessità come il pane e la farina, le gabelle, che erano somme aggiuntive che il cittadino pagava allo Stato all'atto del consumo del prodotto, erano inique, dal momento che lo stesso prodotto era già stato in precedenza tassato o alla produzione o all'atto di ingresso sul territorio.
Gli spagnoli gravavano con gabelle quasi tutte le vettovaglie di prima necessità, tassando successivamente la carne, il pesce ed in ultimo la frutta.
Il contadino, che produceva generi di prima necessità, era costretto a pagare in natura o in danaro una tassa sul prodotto.
Questa politica economica si rivelò più dannosa che utile e tutto ciò trova una sua giustificazione, e cioè che la Spagna governava il Regno di Napoli con gli stessi metodi, buoni o cattivi che fossero, con cui governava se stessa.
È stato posto l'accento sul fatto che durante il periodo della dominazione spagnola si esigevano anche grosse somme di denaro sotto forma di tasse.
Il sistema tributario, e cioè l'insieme degli ordinamenti che regolano le imposte dirette e indirette, in vigore sotto gli spagnoli era però diverso da quello attuale, soprattutto perché il peso delle imposte non era equamente distribuito e i metodi con cui si attuavano le esazioni erano inumani.
Nel periodo della dominazione spagnola esistevano imposte ordinarie e straordinarie. Erano imposte ordinarie quelle dirette ed indirette che gravavano soprattutto sulle classi più umili e più povere.
L'imposta diretta presupponeva l'esistenza di un catasto, nel quale venivano indicati i beni di ogni tipo posseduti dal contribuente dietro dichiarazione dello stesso controllata da un perito della università (comune). In base al catasto venivano stabiliti i prestiti forzosi che i cittadini dovevano sottoscrivere. Vi era poi l'imposta diretta personale, che colpiva in maniera indifferenziata tutti i nuclei familiari, qualunque fosse la loro condizione economica, o tutti gli individui in età lavorativa (focatico, testatico, boccatico).
Da questa imposta erano per larga parte esenti il clero, la nobiltà, i militari, gli impiegati dello Stato.
Le imposte indirette erano costituite in prevalenza da dazi e gabelle e andavano a beneficio dei comuni e dei feudatari. Erano tasse sul trasferimento e sul consumo dei beni di più largo uso.
Le imposte straordinarie, o donativi, come era in uso a quel tempo chiamare l'imposta diretta supplettiva, avevano come caratteristica il fatto di essere votate dal Parlamento e gravavano quindi su tutti i cittadini, nobili, plebei, religiosi e laici, ed andavano soprattutto a beneficio dei dominatori. Alcuni servizi pubblici, i più importanti, erano sostenuti dal governo, ma altri ricadevano sulle spalle dei sudditi e costituivano le corvees, cioè un obbligo pubblico che i cittadini avevano verso lo Stato. Si porta ad esempio l'obbligo di alloggiare gratuitamente gli ufficiali e i soldati nelle case private, il pagamento dei pedaggi, che altro non erano che tributi che si esigevano là dove la particolare natura del luogo, per esempio un passaggio obbligato, offriva motivo per la loro imposizione; erano quindi una specie di dazio di transito interno. Vi era ad esempio in Basilicata il pedaggio che si pagava al ponte di Acinello (ponte costruito sul fiume Sauro al confine tra Gorgoglione e Stigliano) e quello che si pagava al ponte di legno sul fiume Agri, quasi in vicinanza dello sbocco al mare e situato quindi sulla strada che congiungeva la Basilicata alla Calabria, la attuale statale ionica.
L'eccessiva quantità di imposte e tasse, che i cittadini dovevano pagare nel regno e in quasi tutti i paesi dell'orbita spagnola, a lungo andare impoverì le entrate dello Stato e le risorse economiche e produttive dei paesi sottoposti.
Milioni di ducati uscivano ogni anno dal regno per pagare i debiti contratti dalla Corte di Spagna e gli eserciti di ventura, e tutto questo offendeva molto i sudditi napoletani. Il loro malumore veniva inoltre accresciuto dal continuo e progressivo aggravamento di tutte le imposte.
In forza dei privilegi del regno, che erano stati concessi prima dal Re Ferdinando e poi mantenuti da Carlo V, nessuna nuova tassa poteva essere imposta senza l'assenso del Parlamento, che rappresentava la nobiltà e il popolo.
Fu proprio questa politica troppo esosa verso i sudditi a portare la conseguente crisi finanziaria, la debolezza del governo ed il continuo bisogno di denaro che costrinsero il governo centrale della Spagna a cedere il diritto di riscuotere le varie imposte a diversi finanziatori, specie genovesi, che anticipavano il denaro al governo impadronendosi, per ripagarsi, di tutte le fonti di ricchezza.
Questi finanziatori della corona o apprendatori, come era in uso chiamarli, divenuti creditori dello Stato, tartassando le popolazioni con l'invio di un gran numero di commissari e di esattori, gente crudele, che puniva senza pietà quelli che cercavano di sottrarsi alle loro esose richieste. I loro metodi erano violenti e briganteschi, come il sequestro di bestiame, di generi alimentari, di merci e le richieste di compensi che esigevano per restituire ciò che avevano sequestrato.
La popolazione era quindi angariata in ogni maniera e pagava più di quanto avrebbe dovuto per accontentare le richieste degli esattori, i quali si arricchivano speculando sulla sua miseria.
A tutto questo si devono aggiungere le pretese dei feudatari e dei loro rappresentanti di volere acquistare ad un prezzo minimo i prodotti agricoli dai loro vassalli e l'imposizione di una serie di pedaggi, che, come abbiamo già detto, creavano impedimento al libero scambio delle merci.
Il governo poi interveniva continuamente in tutti gli affari del paese, pretendendo di regolare l'industria, il commercio ed ogni altra attività economica con una serie interminabile di prescrizioni, ordini e divieti, che non contribuivano certo a creare le condizioni ideali per migliorare il tenore di vita delle popolazioni.
Questa ingerenza del governo nell'economia del paese portò anche un esteso contrabbando, specie dei generi più richiesti e di maggior valore, che nessun provvedimento riuscì a stroncare.
La maggiore ricchezza del Regno di Napoli si fondava sulla produzione agricola; essa variava da zona a zona, dal momento che vi era una profonda differenza tra le zone costiere molto fertili e le zone interne più povere. Vi erano però anche terre desolate, dove regnava la malaria, e zone addirittura incolte, perché purtroppo esposte alle incursioni dei pirati e dei turchi, e ampie distese coltivate rudimentalmente o abbandonate, dalle quali una popolazione rada e misera traeva a stento il minimo indispensabile per non morire.
Talora il ricavato era modesto, perché le colture non erano alternate razionalmente e i metodi di lavorazione primitivi. Spesso capitava che i contadini non sapevano neppure a quale causa attribuire i cattivi raccolti, e allora si rivolgevano ai santi perché intervenissero a renderli più abbondanti.
Altra fonte di ricchezza era costituita dall'allevamento del bestiame: cavalli, muli, capre e soprattutto pecore. Vi erano pregiati allevamenti di equini, le regie razze, curati direttamente dallo Stato o da feudatari illuminati, come quello che tenne il feudo di Stigliano e S. Arcangelo (Eligio della Marra ed i vari principi Carafa).
 

2.3. Cavallerizza o viridario di Sant'Arcangelo

Era un castello posto a circa tre miglia dall'abitato di Sant'Arcangelo, situato sulla sponda destra del fiume Agri. Fu edificato verso il 1500, pare da architetti francesi che allora erano accreditati alla Corte di Napoli.
Fu costruito da Eligio della Marra, poi abitato dai feudatari Carafa e della Marra, che vi dimorarono fino all'inizio del 1600.
Erano soliti passare il periodo estivo nel viridario di Sant'Arcangelo, dove si recavano a riscuotere le prebende che venivano dal feudo e ad amministrare le terre.
La restante parte dell'anno la trascorrevano a Napoli, dove possedevano il palazzo a Riviera di Chiaia e una villa al capo di Posillipo.
La cavallerizza era a forma di elle, con un corpo centrale a cui si accedeva attraverso un ampio cortile, da cui si dipartiva un'ampia scalinata che portava all'abitazione del principe.
La casa gentilizia, lunga circa 80 m. e larga 10, era situata su tre piani; era costruita in pietra e mattoni e con lamie a botte.
Nella parte al piano terra vi erano i servizi del palazzo (così era chiamato anche nelle carte geografiche dell'epoca), mentre al primo piano vi erano i saloni di rappresentanza e ai piani superiori le stanze di soggiorno e da letto della famiglia. Annessa all'abitazione del principe era l'abitazione degli impiegati e del personale che attendeva all'andamento del palazzo.
Vi era una scuderia capace di 100 cavalli con annesse abitazioni per il personale addetto all'allevamento degli stessi.
La razza dei cavalli era molto pregiata ed era quella che forniva alla Corte di Spagna sia i cavalli per il tiro che quelli per le corse, oltre che i cavalli per la milizia.
La Carriera, cioè un manufatto ad archi coperto, lungo 200 m. circa e largo 8 m., serviva d'inverno per allenamento alla corsa dei cavalli. Vi era poi un giardino annesso circondato da mura, dove veniva coltivata frutta, verdura, e che serviva per le provviste fresche del principe.
Oltre alla cavallerizza esistevano due altre costruzioni, una della Procesa a questa collegata con una strada carrozzabile, dove venivano allevate le cavalle fattrici (sono visibili ancora ruderi in contrada Procesa), un'altra sulla fiumarella di Roccanova a un miglio dallo sbocco sul fiume Agri, dove venivano allevati i puledri e che si chiamava la difesa dei puledri (o dei polletri). Anche questa difesa era collegata con la cavallerizza da una strada, che serviva per allenare alle lunghe distanze (oltre 4 miglia) i puledri, in attesa di scegliere i migliori da avviare alle competizioni o ad altro servizio.
Studi approfonditi in corso da parte dello scrivente chiariranno definitivamente la storia intorno al Palazzo.
Per l'allevamento delle pecore — che rappresentava soprattutto per alcune zone (Molise, Basilicata, Puglia) una fonte notevole di ricchezza per l'esportazione del pecorino e delle carni — era stata istituita da Alfonso I d'Aragona la cosiddetta Dogana delle pecore.
Questi richiese un tributo ai pastori che conducevano i loro greggi a svernare; si adoperò a garantire la sicurezza delle strade, a vendere loro una certa quantità di sale a basso prezzo e li esonerò da qualsiasi altro diritto di pedaggio.
L'uso poi di chiudere determinati appezzamenti di terreno, destinandoli a pascolo, era comune a molti paesi, perché lo Stato vi poteva percepire due diritti, uno sul pascolo e l'altro per gli eventuali danni recati dal bestiame.
Il commercio, se si esclude quello esercitato dai venditori ambulanti di cui pullulavano le strade delle grandi città come Napoli, fu sempre molto attivo, ma andò progressivamente decadendo un po' per l'incuria del governo, un po' per gli intralci che derivavano da numerose restrizioni.
Inoltre il commercio era limitato, sia all'interno del paese per la scarsità di strade, per la loro insicurezza e per la generale povertà, sia verso l'esterno perché difficilmente il prodotto poteva raggiungere i porti da cui poi poteva essere spedito.
Ottimi prodotti della terra andavano consumati in loco per la difficoltà del trasporto e per il loro costo eccessivo che non rendeva più competitiva la vendita.
Alla fine del secolo XVI e per tutta la metà del secolo XVII le condizioni economiche generali del regno, che come abbiamo visto non erano floride, furono aggravate dall'eccessivo accrescimento della popolazione e dalla cosiddetta Rivoluzione dei prezzi, cioè dal un notevole aumento del costo della vita.
L'aumento dei prezzi provocò, come succede anche ai nostri giorni, l'aumento dei salari e contribuì a limitare le attività produttive del Regno.
Il grano cominciò a scarseggiare e andò restringendosi la possibilità di esportarlo, cosicché diminuì lentamente anche il commercio con l'estero. Cresceva perciò il malcontento delle popolazioni, la cui miseria abituale era aggravata anche dalle carestie e dalle pestilenze che spesso travagliavano il regno.
Mentre il parlamento per provvedere alle spese chiedeva sempre nuovi sussidi, i viceré aumentavano smodatamente i dazi, anche quelli sul frumento, che era il principale alimento dei poveri, e i banditi infestavano il territorio commettendo violenze e ruberie, protetti dalla grande nobiltà locale, così che la miseria generale continuò a crescere sempre più.
Il disagio per l'aumento del prezzo del grano era avvertito soprattutto dalla plebe, che era sempre più numerosa.
Nella città di Napoli si verificava un afflusso continuo di persone, che, stanche del fiscalismo e delle spoliazioni dei percettori, cioè degli esattori, si trasferivano nella capitale attirate dal miraggio di aumentare i propri guadagni con lavori meno faticosi di quello dei campi. Il governo cercava di venire incontro ai meno abbienti, mantenendo invariato il prezzo del pane nei momenti di carestia, con gravi sacrifici, e tentava di frenare le manovre degli speculatori, vietando l'esportazione del grano.
Alla gabella della farina e del pane si aggiungeva la tassa di molitura o di macinato, che in taluni dei nostri comuni importava sin otto carlini, ed anche più, a tomolo e il dazio di cotta o cottura dei forni, i quali erano monopolio del barone (ancora oggi nei paesi medievali si vedono forni ad uso domestico costruiti all'esterno del fabbricato, in quanto autorizzati dovevano essere visibili).
Nessuno poteva cuocere il pane in forni propri, o introdurre nell'abitazione farina e pane provenienti da altri paesi. Le multe erano pesanti e per chi non pagava c'erano le pene corporali.
Spesso i contadini per eludere questa imposizione ricorrevano al sotterfugio di cuocere focacce e pagnotte sotto le ceneri dei focolai domestici; ma scoperti dai gabellotti — guardie incaricate a regolamentare il pagamento delle gabelle, corrispondenti alle attuali guardie di finanza — venivano denunciati e se ritenuti colpevoli andavano incontro a pene pecuniarie o a pene corporali.
Per portare un esempio, non si poteva, ancorché diluviasse, portar via dall'aia il grano trebbiato, fin tanto clic non fosse stato pesato alla presenza del gabellotto, che a sua volta doveva dar conto agli esosi arrendatori.
Tutti i sudditi dunque erano sottoposti alla legge dei molini, che insieme al frantoio e al forno per il pane facevano parte delle bannalità, che altro non erano che l'uso obbligatorio di impianti di cui il feudatario aveva il monopolio e dei quali tutti i sudditi dovevano servirsi.
Le macine per la molitura del grano erano pesanti e a farle muovere provvedevano coppie di muli o di asini; lavoro questo un tempo svolto dagli schiavi.
I gabellotti erano là pronti a colpire le frodi ed a esigere quanto spettava al feudatario, all'università (cioè al Comune), ad essi stessi ed alle restanti autorità intermedie.
Si produceva farina di grano duro, di grano mescolato ad altro cereale ed infine di orzo, quest'ultima solo per la povera gente.
È ancora in uso un proverbio in Basilicata: quando un individuo mostra poca resistenza alla fatica gli si chiede: «Hai mangiato pane di orzo?».
Le monete in corso in quel periodo erano in ordine crescente: il cavallo, il tornese, il grano, il carlino, il tarì ed il ducato.
(Prima della grande guerra 1918 un ducato equivaleva a £. 12.000 di oggi (Mansone Italia A., Napoli, Fiorentino Editore, 1976). Il salario dei contadini, 'bracciali', oscillava tra un grano e mezzo
e due grani e mezzo, equivalenti a 450-900 lire al dì; con questo salario, escluse le feste, le giornate piovose o quelle in cui si rimaneva disoccupati, bisognava nutrirsi, pagare il fitto di casa e vestirsi.
Il cavallo o callo e il tornese costituivano l'unità di misura per l'acquisto dei generi alimentari. Un rotolo di pane (891 gr. circa), per portare un esempio, costava da 6 a 12 cavalli circa ed un rotolo di legumi costava la metà.
I nobili italiani non si interessavano dei campi e preferivano poltrire nelle corti nelle varie capitali; privi di potere e di operosità si consolavano con i privilegi, le ricchezze, gli sfarzi ed il vezzo di legiferare.
Tutto questo però avveniva specie in periferia; infatti i notabili del paese si riunivano nei seggi, che erano luoghi particolari situati in piazze o zone centrali, dove si incontravano per discutere di pubblici affari
e dell'amministrazione del paese. I seggi erano in proporzione alla grandezza delle città e al numero delle famiglie nobili ivi presenti. Accanto ai nobili vi era la borghesia, che era considerata un ceto sociale economicamente povero e indolente ma spiritualmente libero. I suoi elementi migliori si davano alle professioni liberali, per lo più l'avvocatura, per raggiungere così gli alti gradi delle gerarchia sociale.
Molte funzioni pubbliche, che fino ad allora erano state una prerogativa feudale, vennero in mano ad individui che non avevano alcuna nobiltà di sangue. La carriera impiegatizia contava pochi capi, molti subalterni e moltissimo personale d'ordine (personale di umile condizione), che considerava assai conveniente avere un impiego. Il magro salario veniva però raddoppiato con le mance e gli illeciti, che indistintamente compiva sia l'alto funzionario che l'usciere.
Vi era poi il popolo, cioè la classe che esercitava le attività più umili, più pesanti ed era rappresentata da bracciali (contadini), operai
e artigiani, gente che lavorava molto e guadagnava poco; vi erano poi i pastori e i massari.
La classe sociale più bassa era rappresentata da una popolazione molto numerosa, che viveva alla giornata di mance, di elemosina, di provvisorie e saltuarie retribuzioni per piccoli e saltuari servizi.

 

3. CONSERVAZIONE E COMMERCIO DELLE DERRATE ALIMENTARI

3.1. Conservazione delle vittuaglie

Al termine di questa introduzione al manoscritto è necessario fornire ancora alcune informazioni su come si conservavano le vittuaglie, almeno quelle più deperibili, alcune note su pesi e misure, una dieta giornaliera dell'epoca, riferita a un popolano, ed il costo delle derrate alimentari.
Il rito della conservazione degli alimenti è antico come il mondo, anche se sono migliorati, con il passare del tempo, i metodi, per le necessità e la spinta delle nuove diete, che inducevano le massaie a ritrovare sempre nuovi procedimenti.
La sterilizzazione e pastorizzazione delle 'conserve', che consiste in un riscaldamento più o meno spinto, creava nel recipiente dove era posto il cibo (generalmente conserva di pomodoro o di altri ortaggi o frutta) un abbattimento della carica microbica (batteri, muffe, lieviti vivi), che permetteva così la conservazione per molti mesi.
Tutto questo si otteneva a meno che una chiusura non ermetica causasse un successivo inquinamento o il prodotto venisse conservato in modo non idoneo. Molte volte però il prodotto alterato presentava modificazioni evidenti, per cui non veniva più consumato e quindi buttato; se però l'alterazione non era percettibile si poteva andare incontro a una seria intossicazione o infezione.
Altro metodo di conservazione era l'essiccamento. Già la natura adotta il sistema di disidratare i semi per conservarli per la riproduzione, allontanando, mediante essiccamento, l'acqua, principale causa del deterioramento. Questo metodo è stato il primo ad essere messo in atto dall'uomo per conservare carne, pesce, frutta. Tutto ciò si otteneva esponendo il prodotto al freddo o al sole, con l'aggiunta anche di sale, per la carne e il pesce, per evitare una rapida alterazione. La disidratazione o l'essiccamento raggiungevano lo scopo sottraendo l'acqua al prodotto; si bloccava così la crescita di microorganismi e si limitava l'attività degli enzimi. Molto spesso questa pratica non riusciva, per cui le carni erano attaccate da mosche, parassiti e vermi.
Anche in questi casi si potevano venire a creare problemi di salubrità degli alimenti a volte gravi.
L'affumicatura era una pratica antichissima che di solito rappresentava un trattamento complementare della salagione e consisteva nell'esporre alimenti al fumo che si sprigionava da trucioli e segatura di 'legno bruciati. Il fumo impregnava le sostanze alimentari trattate, specie gli strati superficiali dei cibi, di corpi aromatici che posseggono un buon potere antisettico, batteriostatico, antiossidante. I batteri non sporigeni vengono uccisi dal calore e gli effetti delle successive contaminazioni sono ridotti per l'azione conservante che viene determinata dalle sostanze antibatteriche assorbite (aldeidi, fenoli, acidi alifatici). Il sale c la disidratazione che accompagnava l'operazione di affumicatura contribuivano a mantenere stabili i prodotti affumicati (erano però soggetti ad ammuffirsi).
La salagione vera c propria, salagione secca o umida (salamoia), ha permesso a intere generazioni di sopravvivere quando il cibo scarseggiava. La presenza del sale inibisce lo sviluppo della maggior parte dei microorganismi capaci di causare alterazioni nelle sostanze alimentari. La conservazione col sale implica la morte dei batteri, ma cattive condizioni di conservazione possono esporre il prodotto nuovamente agli attacchi dei batteri o muffe; inoltre con la disidratazione il sale inibisce dì per sé lo sviluppo dei microorganìsmi putrefacenti e influenza l'attività degli enzimi.
La conservazione dei cibi avviene anche mediante l'aggiunta di spezie. L'azione conservante delle spezie è qualche volta maggiore di quella degli stessi conservanti chimici, esplicata come azione inibitrice o tossica per i microorganismi, grazie al loro contenuto in olii essenziali (senape, chiodi di garofano, pepe e peperoncino).
Anche l'aggiunta di zucchero in soluzione quando raggiungeva il 50% ostacolava lo sviluppo dei batteri (marmellate di frutta) e l'aceto e l'olio, che evitavano il contatto dell'aria con gli alimenti, erano usati per conservare il cibo.

3.2. Ma come i nostri antenati si procuravano il sale?

Le vie del sale effettuate con navi, con carovane di cammelli o a dorso di muli attraverso i valichi appenninici, l'Atlantico o il Sahara, non sono mai state fermate da ostacoli naturali.
Il sale non è solo all'origine della civiltà ma anche dei traffici e delle fortune commerciali; è un bene indispensabile per gli uomini e per le bestie, serve per salare le carni e il pesce.
Il sale è essenziale, insostituibile, è un alimento sacro; nell'antico ebraico, come nell'attuale lingua Malgascia, cibo salato equivale a cibo sacro. Nell'Europa dei mangiatori di insipide pappe farinose dava luogo a grosso consumo: 20 grammi al giorno a persona, il doppio dell'attuale.
Un medico storico pensa che le sollevazioni contadine dell'ovest francese nel '500 contro la gabella potrebbero spiegarsi con una fame di sale che il fisco avrebbe contrastato.
Gli usi del sale erano immediati e indispensabili alla fabbricazione della bottarga provenzale e delle conserve familiari che si diffusero nel secolo XVIII.
 

3.3. Commercio di alcune derrate alimentari

Le esperienze fraudolente di molti macellai come di buona parte dei commercianti di allora convinsero i responsabili e gli amministratori del Comune ad emettere ordini tassativi nella conduzione del macello e sulla vendita delle carni.
Oltre che sulla esattezza del peso il controllo era esercitato anche sulla provenienza delle carni.
Era ammessa la macellazione delle bestie infette malate o già morte, ma l'operazione non avveniva nel pubblico macello (si fa per dire), veniva compiuta fuori la porta della macelleria.
Le carni provenienti da questi animali erano a libera contrattazione, ma era proibita la vendita a peso come la carne normale.
La testa dell'animale era venduta a metà prezzo ed i piedi non venivano pesati.
Dal momento che la carta per avvolgere la carne non esisteva questa veniva infilzata in un ramo di ginestra e così portata a casa. Si era soliti chiamare la carne il fungo di ginestra. Questo aneddoto mi è stato raccontato da zio Vincenzo Armentano, poeta dialettale di S. Arcangelo.
I macellai poi godevano di agevolazioni circa le imposte dirette sugli animali da macello, pertanto erano tenuti a denunciarne l'esatto numero. Poiché l'indice di tassabilità era relativo alle bestie allevate per uso pubblico, non era lecito tenere, tra queste, bestie altrui oltre il numero quattro. Le macellerie dovevano tenere esposta l'autorizzazione a vendere e gli ufficiali addetti alla sorveglianza avrebbero dovuto prendere solo visione dell'autorizzazione e restituirla all'esercente.
La carne era quella proveniente da animali allevati nelle masserie.
Le macellerie in dialetto erano chiamate chianche, dall'appoggio in pietra levigata usata per spezzettare e esporre la carne. Infatti, fin verso l'inizio del '900, epoca in cui furono resi obbligatori i mattatoi e le visite veterinarie alle carni da porre in vendita, gli animali si sgozzavano nel retro bottega della chianca con le norme igieniche che possiamo immaginare. Fino all'inizio degli anni '50 in molti paesi della Basilicata non esistevano macelli pubblici e gli animali, come descritto da Carlo Levi, erano macellati nell'angusto retro bottega o all'aperto, su uno scanno di legno di media altezza con ad una estremità una V in legno o in ferro, entro cui si appoggiava la testa dell'animale per tenerla ferma durante il sacrificio. Questo arnese si chiamava u scannature.
 

3.4. Pesi e misure

Nel Regno di Napoli ogni paese aveva i suoi pesi e le sue misure, che erano regolati dall'arbitrio dei baroni; fra le grandi innovazioni di Ferdinando I si deve ricordare quella di aver reso uniformi i pesi e le misure in tutte le province del Regno con la Costituzione del 6 aprile 1480. Egli ordinò di servirsi del suo nome e fece scolpire tutte le misure da allocare nel cortile del castello Capuano, dove furono conservate a lungo.
Ordinò che in tutto il regno fossero osservate le sue disposizioni e annullati ogni privilegio ed esenzione; stabilì inoltre che in tutte le città delle province si tenessero le misure formate di pietra ed esposte al pubblico per potersi in ogni occasione riconoscere e consultare. Tra le misure ricordiamo il palmo, che si divideva in 12 once e ogni oncia in 5 linee, dette pure minuti; di 8 palmi si componeva la canna; nella misura di estensione abbiamo pure il braccio, di palmi 2 e mezzo.
Generalmente si usava il braccio per misurare i panni e le tele del paese, la canna per le merci straniere. Per la misura della terra vi era il moggio, detto anche tomolo. Per misurare frumento, biada, castagne, noci vi era il mezzo tomolo detto volgarmente mezzetto, il quarto, lo stoppello e la scotella. Per pesare qualsiasi oggetto si usavano la stadera e la bilancia, ma il rotolo era quello che sembra ne regolasse la quantità; il rotolo si componeva di 33 once, e 100 rotoli formavano il cantaro; quando il peso era grande si usava la stadera e si pesava a cantaro; la carne, la frutta e il pane si pesavano a rotoli e si usava la bilancia. Le bilance erano di diverso peso, secondo la quantità dei rotoli, le piccole bilance pesavano a libbra e a once.
Per i liquidi come l'olio e il vino le misure erano numerose. In Basilicata nelle vendite all'ingrosso di usava la botte, che era composta di 12 barili. La caraffa era la generale misura dei liquidi, soprattutto del vino, la cui capacità variava da regione a regione.
La razione giornaliera pro-capite del tempo (1590) per un popolano era costituita da 1/4 di rotolo di cereali, mezzo rotolo di patate, verdure e legumi, 3/4 di oncia di olio, una oncia e mezzo di prodotti proteici animali (carne, pesce o formaggio), 1/3 di rotolo di frutta, mezza oncia di sale, 1/3 di caraffa di vino. La carne era usata dai ricchi, ma i poveri la mangiavano quando gli animali morivano o si infortunavano in modo grave.

 

4. LE ENTRATE IN NATURA E IN DANARO

Le entrate del feudatario erano numerose; esse si riferivano a tributi che venivano pagati sui servizi e provenivano dai censi, dalle gabelle, dagli affitti su manufatti e terre che erano state cedute alla comunità (chiamata allora università) e si riscuotevano per conto del feudatario.
Si pagava quindi:
— per il piatto (che altro non era che un appannaggio o una rendita, che il feudatario si attribuiva per le spese della corte e dell'amministrazione statale o conferiva a dignitari o funzionari per il mantenimento e le spese relativi alla carica ricoperta o alla funzione svolta).
— per l'erbaggio (che era una rendita di affidatura ma che poteva essere terratico in caso di semina o ghiandatico in caso che nel feudo vi fossero querce che producevano ghiande).
Il fitto per il feudo o parte di esso e per le difese era stabilito da un apprezzatore, che valutava il corrispettivo in denaro e in natura da pagare, che veniva reso pubblico per mezzo di un atto del notaio previe garanzie reali in danaro o in titoli.
In genere le difese, oltre che terreni seminativi, avevano boschi con querce e castagni ed animali, quale parte integrante del bene.
L'apprezzatore con una operazione di estimo-rurale stabiliva il minimo di contribuzione in danaro ed in natura al di sotto del quale il fondo non si poteva concedere in fitto.
Qualora parte del pascolo esistente nel fondo fosse lasciato per i numerosi animali del feudatario (pecore, capre, ovini, giumente, cavalli), parte della somma era scomputata, ma l'affittuario era obbligato a:
a) dare prestazioni in natura o in danaro per lo sfruttamento degli animali;
b) accollarsi le eventuali perdite subite (morti);
c) restituire al termine del contratto il capitale così come era stato consegnato.
Le entrate delle esazioni per espletamento della giustizia locale (mastrodattia delle prime cause) erano cospicue; anche tale servizio era dato in fitto così come la bagliva civile, la portolana e lo scandaggio.
Entrate provenivano da fitti per taverne, botteghe, orti, da censi sopra stabili, soprattutto da molini, da forni che, anche se necessitavano di notevole manutenzione, rendevano enormemente all'affittuario. Vi erano poi le entrate dalle multe che si comminavano per furto di legna, di animale o di altri beni, se non era, per la gravità, prevista, in aggiunta, anche la galera.
I proventi per le cause civili e penali e per i servizi ai carcerati erano gravosi.
Come si può osservare nel manoscritto le entrate in denaro erano cospicue così come quelle in natura.
Dall'affitto dei molini e dei forni provenivano grano, orzo e legumi, nonché pane. La tassa della molitura era in rapporto al quantitativo di grano molito ed in genere variava dalla decima alla dodicesima parte del prodotto molito o cotto; per i forni era inoltre prevista la restituzione di 1/12 della legna consumata per la cottura.
Anche dai terraggi provenivano molte vettovaglie, che variavano a seconda delle coltivazioni (noci, castagne, grano, orzo, legumi, vigne, da cui proveniva mosto di vino). I terraggi venivano però pagati anche con altri generi di prima necessità come la bambagia, il lino ed altro.
Per mandare avanti tutto l'apparato la corte andava incontro a spese che riguardavano sia le istituzioni per il culto, quali monasteri, chiese, cappelle, sia il mantenimento del personale religioso e sia il vitto e il salario che venivano dati ai funzionari, di ogni ordine e grado, che servivano la corte.
Inoltre ai funzionari, che per ragioni di servizio venivano mandati fuori, venivano pagati sia il viaggio espresso in miglia, effettuato a piedi o con la cavalcatura, sia le spese di alloggio nel paese dove erano costretti a dimorare per la notte.
Tutte le entrate nei vari giustizierati andavano ai mastri razionali, che avevano il compito di sindacare e rivedere l'operato degli altri ufficiali, di revisionare tutti i conti del danaro fiscale e di risolvere le controversie sugli stessi.


 

"Entrate del State di Basilicata del Anno 7e indictionis 1593 et 1594"  SEGUE >>       

 

 

 

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