La dominazione spagnola in Italia
Quadro storico e condizioni economiche della Basilicata
Prima di riportare la trascrizione del manoscritto sulla descrizione della
terra di S. Arcangelo, diamo alcune notizie circa la dominazione
spagnola e le condizioni economiche della Basilicata.
La triste situazione determinatasi nel secolo XVI nel regno di Napoli, di
cui faceva parte anche la Basilicata, si delineò con la caduta del regno
aragonese e con l'inizio delle invasioni straniere.
Nel 1501 dopo la fuga di Federico, ultimo re degli aragonesi, il regno
conquistato dagli spagnoli fu ridotto a provincia e governato per oltre
due secoli, fino alla morte di Carlo II avvenuta nel I 700, dai viceré
spagnoli. Durante questo periodo nessuna regione d'Italia poteva
considerarsi indipendente dalla Spagna, dal momento che possedeva, come
domini diretti, il regno di Napoli e di Sicilia al sud, la Lombardia al
nord, la Sardegna, lo stato dei presidii (formato dalla maremma toscana
e da parte del territorio della scomparsa repubblica di Siena) ed
esercitava, indirettamente, la propria influenza sugli altri stati
indipendenti: quali la Toscana, la repubblica di Genova, lo stato
pontificio, Venezia, il ducato di Savoia e i ducati minori.
Il regno di Napoli e quello di Sicilia erano passati dai sovrani aragonesi
a quelli spagnoli in cattive condizioni e la nuova dominazione riuscì a
far poco per migliorare la situazione, per garantire la pace interna e
per mitigare l'antica miseria di quelle popolazioni, come in Basilicata,
che ne mostravano evidenti i segni. Il regno di Napoli molto vasto era
diviso in otto province: il principato diviso in due, citra e ultra,
così come la Calabria, Calabria ultra e Calabria citra, la Puglia in
terra d'Otranto e terra di Bari; l'Abruzzo in due province; a queste
otto province furono aggiunte la terra di Lavoro, la Basilicata, la
Capitanata ed il contado del Molise. La situazione nel regno era grave
in quanto l'agricoltura era depressa, il commercio quasi inesistente, il
governo infido ed incapace a governare i magistrati corrotti, il
pubblico costume degradato al massimo, la popolazione ridotta
all'estrema miseria: il regno divenne sempre più covo di masnadieri e di
ladri. Era in uso un motto: "Il ministro di Sicilia rode, quel di Napoli
mangia, quello di Milano divora".
Il governo spagnolo centrale non si preoccupò di porre un rimedio ai mali
secolari che travagliavano il regno, specie la corruzione, e mitigare la
miseria derivante dalla grave situazione economica, ma si preoccupò
invece di contrastare con la forza gli atti di pirateria che i musulmani
d'africa con le loro flotte compivano contro le navi ed i paesi
costieri. Carlo V e Filippo II esercitarono il loro potere assoluto con
energia e governarono lo stato accentrando nelle loro mani non solo
tutta l'autorità, ma anche l'onere che un potere così vasto comportava,
senza sottrarsi a nessun sacrificio o dovere.
Non così i loro successori, Filippo III, Filippo IV e Carlo III, i quali
si dimostrarono incapaci di governare lo stato e demandarono tutti gli
affari nelle mani dei viceré e dei ministri plenipotenziari che
risiedevano a Napoli e province. La crescente inettitudine di questi tre
monarchi circondati da primi ministri incapaci accelerò il decadimento
della monarchia spagnola, condizione che però non permise all'Italia di
liberarsi da questo giogo. Gli sparuti tentativi fatti da alcune
province suddite del re di Spagna non ebbero altro effetto che di
aggravare il pesante e crudele dominio.
Il regno di Napoli, dominio diretto della corona spagnola, di cui faceva
parte anche la Basilicata, dipendeva dal re che esercitava da Madrid il
potere per mezzo dei viceré, quasi sempre spagnoli, che in genere non
conoscevano o conoscevano poco il paese affidato al loro governo e la
cui massima preoccupazione era quella di ricavare quanto più ricchezze
potevano dalla carica che ricoprivano. Il viceré era coadiuvato nello
svolgimento delle questioni amministrative da un "consiglio segreto",
composto di nobili e perciò incapaci di comprendere le vere necessità
del paese. I funzionari che lo circondavano, e che avrebbero dovuto
limitare la sua autorità ed esercitare un discreto controllo, lo
imitavano invece nelle ruberie e nei soprusi sicuri della loro impunità.
I regni di Napoli e di Sicilia avevano dei propri parlamenti che,
eccetto il nome, nulla avevano in comune coi parlamenti attuali che sono
assemblee rappresentative composte da uomini eletti dal popolo per
discutere le leggi e fare gli interessi del popolo. I membri di quei
parlamenti,anche se levavano qualche protesta contro l'opera ed i
soprusi dei viceré, non trovavano ascolto perché i loro poteri erano
limitati e perché quasi sempre finivano col piegarsi alla volontà del
monarca. Nel 1563 Filippo II creò un consiglio supremo che avrebbe
dovuto occuparsi solo degli affari d'Italia, ma in realtà esaurì la sua
funzione diventando uno strumento per l'esazione delle sole imposte.
Negli stati soggetti alla dominazione spagnola non vi era un apparato
amministrativo uniforme e differenti erano gli uffici locali che
provvedevano, insieme al viceré, all'amministrazione della vita
pubblica.
Esistevano un'amministrazione centrale e una periferica.
Amministrazione centrale
Organizzazione centrale ed uffici principali.
Il Regno di Napoli (Pacichelli 1702) era amministrato da 7 uffici
principali, che, tanto in pace che in guerra, risiedevano a Napoli. Per
mezzo di essi tutti gli ordini reali venivano eseguiti; i preposti a
tali uffici amministravano le entrate e le uscite del regno,
rappresentavano il Re nelle pubbliche funzioni e tramite i loro
luogotenenti ed impiegati esercitavano la loro autorità fin nelle remote
terre del regno. Tutti avevano una rendita di 2190 ducati l'anno.
Il primo di essi era il Gran Contestabile, a cui era affidato tutto
l'esercito terrestre, portava la spada nuda davanti al Re nelle
cavalcate e sedeva a mano destra del Re. Si identificava nella persona
del Viceré.
Il secondo era il Gran Giustiziere, che governava la Corte suprema e si
occupava delle cause civili e criminali, così come delle cause feudali,
e tutti i titolati del Regno erano sotto la sua giurisdizione. Il suo
luogotenente era il reggente della Vicaria (Corte di giustizia del
Regno). Sedeva alla sinistra del Re.
Il terzo era il Gran Ammirante; era capitano di tutta la milizia
marittima, aveva potere di nominare luogotenenti e sedeva alla destra
del Re dopo il Gran Contestabile.
Il quarto era il Gran Camerario, che aveva cura del patrimonio reale; la
sua carica venne poi assunta dal luogotenente della camera della
Sum-maria, che veniva eletto al Re con i suoi presidenti; amministrava i
proventi provenienti dal Jus Tapeti, dalle Catapanie delle terre
demaniali, dalle relevie (nota
5) dei baroni, dalle tasse del
sale e dello zucchero; sedeva dopo il Gran Giustiziere.
Il quinto era il Gran Protonotario, primo notaio o segretario del Re, il
quale nei pubblici parlamenti era il primo a parlare, riceveva le
risposte degli altri e conservava le scritture reali.
Il sesto era il Gran Cancelliere, il cui incarico era di suggellare tutti
i privilegi e le scritture reali; la sua giurisdizione fu poi esercitata
dai reggenti la cancelleria e dal segretario del regno; egli esercitava
la sua autorità sopra il Collegio, dove venivano laureati i dottori in
legge, in medicina e teologia. Si avvaleva della collaborazione di
mastrodatti e baiuli e rilasciava privilegi a coloro che si laureavano.
Sedeva dopo il Camerlengo.
Il settimo ed ultimo era il Gran Siniscalco, il quale era il Prefetto o
Maestro della casa reale; aveva in consegna gli ornamenti e gli apparati
regi ed aveva il compito di provvedere a quanto bisognava al Palazzo;
aveva anche cura delle razze dei cavalli, delle foreste e delle tenute
di caccia riservate al Re; la sua giurisdizione era in parte divisa con
il Maestro Cavallerizzo e in parte con il Maestro di Caccia. Sedeva ai
piedi del Re.
Amministrazione periferica
Organizzazione periferica ed uffici.
A capo dell'università (oggi comune) vi era il sindaco liberamente eletto
tra i honi homines e i magnifici (titolo concesso ai cittadini illustri
della terra); egli era coadiuvato nell'amministrazione della cosa
pubblica dagli eletti officiales o assessori.
Camerario o camerlengo o erario era l'assessore alle finanze che svolgeva
la sua mansione coadiuvato da apprezzatoli, tassatori e razionali nella
riscossione di dazi, di gabelle e di entrate del feudo.
Baglivo e Baiulo, ufficiale del governo, riceveva ordini dal sovrano e dai
giudici. Oltre al potere amministrativo (salvaguardia dei beni dello
Stato) istruiva e dirimeva le controversie civili ed era abilitato anche
ad arrestare ladri e assassini.
Notaio o cancellarius o mastrodatto teneva il registro delle deliberazioni
del feudatario, del sindaco, delle autorità in genere ed annotava tutto
ciò che avveniva nella comunità.
Capitano era il responsabile militare della zona e sovraintendeva alla
sicurezza del comune in pace e in guerra.
I giudici (questi erano presenti nelle università più grandi) dirimevano
le cause civili e penali o istruivano processi che inviavano a Napoli. I
mastrogiurati, o ufficiali di polizia, erano nominati dal baglivo e
vigilavano sull'ordine pubblico.
I viari o guardie rurali vigilavano sul territorio e sulle campagne allora
infestate da molti ladri e assassini.
Gli uffici, dove si svolgeva l'attività, venivano chiamati genericamente
"tribunali" e i loro funzionari "magistrati" ed il termine significava
il luogo dove si amministrava la giustizia civile e penale, cioè le
controversie che sorgevano (cause civili e penali).
I
tribunali e i loro funzionari magistrati non solo applicavano la legge
ma amministravano il patrimonio reale e le rendite dello stato,
provvedevano all'esazione dei tributi, decidevano delle liti contro il
fisco, svolgevano cioè tutte le pratiche necessarie a governare il
regno. In questi tribunali erano frequenti le ruberie e la corruzione
degli addetti. I giudici giusti ed onesti erano rari e ciò dipendeva
anche dal fatto che, non avendo uno stipendio dallo stato, erano
costretti a vivere delle "sportule", cioè degli emolumenti che pagavano
loro le parti convenute per il servizio prestato; per questo motivo la
giustizia spesso era tramutata in un indegno mercato dovuto in parte
alle esosità e alle corruzioni dei giudici, sempre in cerca di illeciti
guadagni per poter vivere bene, ed in parte alle stesse situazioni
locali che venivano a verificarsi.
Disuguaglianza tra i cittadini
Appena gli
spagnoli subentrarono agli aragonesi, il regno di Napoli si riempì di
titolati che comprarono o ereditarono feudi. Per ricordare quelli che
interessano la zona della regione della Basilicata, oggetto del presente
studio, diremo che i Guevara comprarono il feudo di Monto peloso
(Irsina), i d'Avalos il feudo di Tursi, i Cardenas il feudo di Pisticci
e i della Marra quello di Stigliano. Colobraro conobbe i Sanseverino, i
Podico, i Pignatelli, i Baroni Cernite ed i Carafa.
A Napoli, nel Regno ed anche in Basilicata, l'ordinamento dello stato
presentava un difetto molto grave dal momento che le leggi non erano
applicabili a tutti i cittadini nello stesso modo e nella stessa misura.
Infatti non essendovi uguaglianza tra i cittadini accadeva che venivano
esentati dall'osservanza e dal rispetto delle leggi la nobiltà, il
clero, i militari, i funzionari di corte. I nobili poi pretendevano,
oltre i privilegi di cui godevano in larga misura, anche l'immunità' per
le loro abitazioni, per le strade dove queste erano situate, per i
servitori che vestivano la loro livrea e per tutti i luoghi dove erano
esposti i loro stemmi. I preti arrivavano perfino a pretendere che fosse
concessa l'impunita' a coloro con i quali andavano sottobraccio. I
malfattori potevano quindi sottrarsi alla giustizia ed il governo si
trovava impotente a difendere i cittadini, malgrado il gran numero di
soldati di ventura che risiedeva nel paese. Questi ultimi, mal pagati
come erano, consideravano le città meridionali in cui venivano a
svernare e a svolgere il loro servizio come terra d'occupazione e,
malgrado i divieti, spesso s'abbandonavano a saccheggi, a violenze o ad
atti di spavalderia. I viceré per garantire la quiete pubblica
emettevano bandi (il bando era un decreto dell'autorità che veniva
comunicato con avvisi affissi, ma soprattutto mediante lettura da parte
di un banditore che girava la città e lo gridava donde la parola
"grida"). I bandi avevano valore di legge fino a quando restava in
carica il governatore che li aveva emanati. Sebbene fossero in gran
numero, questi bandi raramente venivano rispettati e l'ordine pubblico
non era affatto garantito.
Alle cariche pubbliche non si accedeva mediante concorso, ma esse venivano
acquistate da colui che poteva offrire la somma più alta di denaro o
aveva raccomandazioni più influenti. Per ovviare a tali inconvenienti
furono promulgate varie leggi, ma poco si riuscì a fare dal momento che
non esisteva l'autorità che le facesse rispettare. Ripetutamente si
cercò poi di mettere un freno al malcostume dei governatori e dei
funzionari. Vi era una norma con cui si reprimeva l'abuso di impiegati,
di uscieri, di trombettieri, di servitori del viceré e delle varie altre
cariche statali, di richiedere le "buone feste" questuando nelle case
private. Ovunque imperava lo sprezzo per la legge; i delitti si
moltiplicavano e i malfattori non venivano puniti anche per l'aiuto e la
protezione che davano loro i baroni e la polizia che spesso era
connivente. Alcuni, per sfuggire alle giuste sanzioni della legge,
prendevano gli ordini religiosi minori, non per pentimento dei loro
misfatti, ma per acquistare l'immunità dai reati commessi. Tutte queste
notizie sono tanto più degne di fede e rispecchiano la reale situazione
del paese all'epoca dal momento che le voci dei sudditi, che si levavano
a protestare, segnalavano proprio gli stessi inconvenienti che si
trovano anche nelle relazioni degli ambasciatori veneti (una relazione
scritta da Alvise di Lando nel 1580 fornisce una chiara descrizione di
come veniva amministrata la giustizia nel regno di Napoli in quel
periodo).
Le cause civili erano azioni giudiziarie promosse dai privati per ottenere
dal magistrato il riconoscimento o la tutela dei propri diritti o
legittimi interessi-diritti relativi al nome, alla cittadinanza, ai
vincoli familiari, al patrimonio, ai rapporti di lavoro.
Le cause penali invece erano quelle promosse dall'autorità giudiziaria,
d'ufficio o a querela di parte, a carico di cittadini colpevoli di
reati, cioè di violazione delle norme penali dettate a tutela della
società, e comportavano la condanna ad una pena detentiva o pecuniaria
(cioè alla prigione o al pagamento di una somma).
Il disagio per l'aumento del prezzo dei generi di prima necessità, e del
grano in particolare, era avvertito soprattutto dalla plebe, che era
sempre più numerosa; nella città di Napoli si verificava un afflusso
continuo di popolazioni che, stanche del fiscalismo e delle spogliazioni
dei percettori, cioè degli esattori, si trasferivano nella capitale
attirate dalla possibilità di aumentare i propri guadagni con lavori
meno faticosi di quelli dei campi.
Anche in
Basilicata, specie nei paesi, la situazione non era differente, il
governo cercava di venire incontro ai meno abbienti, mantenendo
invariato il prezzo del pane, nei momenti di carestia con gravi
sacrifici, e tentava di frenare le manovre degli speculatori, vietando
l'esportazione del grano. Alla gabella della farina e del pane si
aggiungeva la tassa di molitura o di macinato, che in taluni dei nostri
comuni importava perfino otto carlini, ed anche più, a tomolo e il dazio
di "cotta" o cottura dei forni, i quali erano monopolio del barone
(ancora oggi nei paesi a forte retaggio medievale si vedono forni per
uso domestico costruiti all'esterno e, in quanto autorizzati, ben
visibili). Spesso i contadini per eludere questa imposizione ricorrevano
al sotterfugio di cuocere focacce e pagnotte sotto le ceneri dei
focolari domestici, ma scoperti dai gabellotti (guardie incaricate di
tutto quanto concerneva il pagamento delle gabelle, qualcosa di simile
alle nostre guardie di finanza), andavano incontro a pene corporali,
multe e processi. Per citare un esempio, non si poteva, sebbene
diluviasse, portar via dall'aia il grano trebbiato, fin tanto che non
fosse stato pesato alla presenza del gabellotto, che a sua volta doveva
dar conto agli esosi arrendatori, cioè agli appaltatori e speculatori di
gabelle. Nessuno poteva cuocere pani in forni propri, nessuno introdurre
nell'abitazione farina e pane proveniente da altri paesi. Le multe erano
forti e per chi non pagava c'erano anche le pene corporali. Tutti dunque
erano sottoposti alla comune legge dei mobili: le macine schiacciatrici
del grano erano ben pesanti ma a farle muovere provvedevano coppie di
muli e di asini ansanti e scheletrici, che giravano e rigiravano tirando
la macina fino a crepare (in un altro tempo questo lavoro lo facevano
gli schiavi). I gabellotti erano là pronti a colpire le frodi ed a
esigere quanto spettava al feudatario, all'università (cioè al comune),
ad essi stessi, al catapano, ed eventualmente all'accusatore. Si
produceva farina di grano puro, di grano mescolato con altri cereali e
infine di orzo, quest'ultima per la povera gente.
La situazione economica
Condizioni naturali dell'Italia meridionale
La situazione economica legata alle condizioni naturali delle terre era
disastrosa: tranne qualche eccezione, come la Campania e parte della
Puglia, l'Italia meridionale era un paese essenzialmente povero dove
zone fertili si alternavano ad immense estensioni argillose e aride,
pascoli bradi a boschi impervi, e dove l'agricoltura, che era la
maggiore risorsa economica, era travagliata dalla mancanza d'acqua e da
un clima troppo caldo e non era
sostenuta
da un'adeguata attività commerciale e industriale. Durante la
dominazione spagnola, molti fattori contribuirono ad aggravare questa
naturale povertà: il notevole aumento della popolazione, l'inasprimento
eccessivo delle tasse ed infine la decadenza dei paesi mediterranei in
seguito allo sviluppo del commercio atlantico. La popolazione del regno,
nei due secoli della dominazione spagnola, subì inoltre un costante
incremento. In Sicilia e nel regno di Napoli la popolazione nel 1607 era
quasi raddoppiata rispetto ai primi del sec. XVI; ma a questo aumento
costante non corrispondeva un adeguato accrescimento della ricchezza del
paese. La città di Napoli era eccessivamente popolata per il forte
afflusso di popolazione che dalle campagne, dove non c'era che miseria,
si era riversata nella capitale, nella speranza di trovare condizioni di
vita meno dure.
Numerazione dei fuochi nel regno di Napoli:
Anno 1465 232.896 fuochi -
Anno 1518 247.866 fuochi
Anno 1595 550.090 fuochi
Numerazione dei fuochi in Basilicata
(da G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata,
Roma, Loescher, 1889):
Anno 1565 22.295 fuochi
Anno 1566 38.753 fuochi
Anno 1648 39.291 fuochi
Anno 1669 27.795 fuochi
(dopo una terribile pestilenza)
Numerazione dei fuochi a Sant'Arcangelo (da Giustiniano):
Anno 1532 125 fuochi
Anno 1545 154 fuochi
Anno 1561 168 fuochi Anno 1595 350 fuochi
(Per ogni fuoco si consideravano in media 5 persone).
La politica economica spagnola
I viceré,
per soddisfare i crescenti bisogni della corte spagnola e del governo,
contribuirono ad aumentare la miseria del popolo accollando ai sudditi
esausti sempre nuove imposte e impedendo di svolgere liberamente le
attività economiche con una serie di assurde imposizioni. Quali che
siano i fattori della povertà economica del regno, non e' esatto
considerare, come hanno fatto alcuni storici, i due secoli o poco meno
della dominazione ,spagnola, come l'unica causa della rapida e totale
decadenza del regno stesso.
Fondata invece è l'accusa fatta alla Spagna di aver seguito una cattiva
politica economica, con ordinamenti errati ed espedienti dannosi, quali
dazi gravissimi, divieti di esportazione e calmieri (prezzo stabilito
dall'autorità competente per alcuni generi di prima necessità come il
pane, la carne), vendita di gabelle (dazio, imposta, cioè somma che il
cittadino paga allo stato).
Ma anche questa accusa ha una sua giustificazione e cioè che la Spagna
governava il regno di Napoli con gli stessi metodi, buoni o cattivi che
fossero, con cui governava se stessa. -
L'agricoltura
La
maggiore ricchezza del regno di Napoli si fondava sulla produzione
agricola; essa variava da zona a zona: vi era una profonda differenza
tra le zone costiere e le zone interne.
Vi erano però anche le terre desolate dove regnava la malaria, zone
addirittura incolte perché troppo esposte alle incursioni dei pirati e
dei turchi, ampie distese coltivate in modo rudimentale o abbandonate,
da cui una popolazione rada e misera traeva a stento il minimo
indispensabile per non morire. Talora il ricavato era modesto perché le
colture non erano alternate razionalmente e i metodi di lavorazione
primitivi. Ma spesso capitava che i contadini non sapevano neppure a
quale causa attribuire i cattivi raccolti, e allora si rivolgevano ai
santi perché intervenissero a renderli più abbondanti.
La pastorizia, altra fonte di ricchezza, era costituita dall'allevamento
del bestiame. Per l'allevamento delle pecore, che rappresentava,
soprattutto per alcune zone, una fonte notevole di ricchezza per
l'esportazione del pecorino e delle carni, era stata istituita da
Alfonso I d'Aragona la cosiddetta "dogana delle pecore".
Questi richiese un tributo ai pastori che conducevano i loro greggi a
svernare e si obbligò a garantire la sicurezza delle strade, a vendere
loro una certa quantità di sale a metà prezzo ed esonerò pastori e
greggi da qualsiasi diritto di pedaggio. L'uso di chiudere determinate
estensioni di terra destinandole a pascolo era in questo periodo comune
a molti paesi, perché lo stato vi poteva percepire due diritti, uno sul
pascolo e l'altro per gli eventuali danni recati dal bestiame.
Vi erano pregiati allevamenti di equini, le "regie razze",curati
direttamente dallo Stato, nonché l'allevamento dei muli che servivano
per trainare i carri. Il commercio, se si esclude quello esercitato dai
venditori ambulanti di cui pullulavano le strade di Napoli e che fu
sempre molto attivo, andò progressivamente decadendo un po' per
l'incuria del governo un pò per gli intralci che derivavano da numerose
restrizioni un po' per mancanza di mezzi
Dai vari dati risulta inoltre che il commercio era limitato sia
all'interno per la scarsità di strade, la loro insicurezza e per la
generale povertà, sia verso l'estero.
Alla fine del secolo XVI e per tutta la metà del secolo XVII le condizioni
economiche generali del regno, come abbiamo visto non floride, furono
aggravate dall'accrescimento della popolazione e dalla cosiddetta
"rivoluzione dei prezzi", cioè da un notevole aumento del costo della
vita. Il grano cominciò a scarseggiare e andò restringendosi la
possibilità di esportare così che diminuì lentamente anche il commercio
con l'estero. Cresceva perciò il malcontento delle popolazioni la cui
miseria abituale era aggravata dalle carestie e dalle pestilenza che
spesso travagliavano il regno.
Mentre il parlamento, per provvedere alle spese, chiedeva sempre nuovi
sussidi, i viceré aumentavano smoderatamente i dazi, anche quelli sul
thimento, che era il principale alimento dei poveri.
Tra il 1670 ed il 1690 fu effettuato ad opera di compassatori l'apprezzo
del feudo di S. Arcangelo, per valutare il valore dei frutti percepiti
dal feudo (rendite) in natura e in denaro e le spese che si sostenevano
per il mantenimento del "bene".
Oltre che l'esatta descrizione dei luoghi, vengono riportate notizie
importanti e particolareggiate riguardo il territorio. I compassatori
erano soliti, alla descrizione dettagliata dei luoghi, allegare disegni
illustrativi che a noi non sono pervenuti.
Le entrate in natura e in
danaro
Le entrate
del feudo, come detto, erano numerose e di varia natura; esse si
riferivano a tributi che venivano pagati sui servizi e provenivano dai
censi, dalle gabelle, dagli affitti su manufatti e terre che erano state
cedute alla comunità (chiamata allora università) e si riscuotevano per
conto del feudatario. Si pagava quindi: per il piatto (che altro non era
che un appannaggio o una rendita, che il feudatario si attribuiva per le
spese della corte e dell'amministrazione statale o conferiva a dignitari
o funzionari per il mantenimento e le spese relativi alla carica
ricoperta o alla funzione svolta); per l'erbaggio (che era una rendita
di affidatura ma che poteva essere terratico in caso di semina o
ghiandatico in caso che nel feudo vi fossero querce che producevano
ghiande). Il fitto per il feudo o parte di esso e per le difese era
stabilito da un apprezzatore, che valutava il corrispettivo in denaro e
in natura da pagare, che veniva reso pubblico per mezzo di un atto del
notaio previe garanzie reali in danaro o in titoli. In genere le difese,
oltre che terreni seminativi, avevano boschi con querce e castagni ed
animali, quale parte integrante del bene. L'apprezzatore con una
operazione di estimo-rurale stabiliva il minimo di contribuzione in
danaro ed in natura al di sotto del quale il fondo non si poteva
concedere in fitto. Qualora parte del pascolo esistente nel fondo fosse
lasciato per i numerosi animali del feudatario (pecore, capre, ovini,
giumente, cavalli), parte della somma era scomputata, ma l'affittuario
era obbligato a:
a) dare prestazioni in natura o in danaro per lo sfruttamento degli
animali;
b) accollarsi le eventuali perdite subite (morti);
e) restituire al termine del contratto il capitale così come era stato
consegnato.
Le entrate delle esazioni per espletamento della giustizia locale
(mastrodattia delle prime cause) erano cospicue; anche tale servizio era
dato in fitto così come la bagliva civile, la portolania e lo
scandaggio.
Entrate provenivano da fitti per taverne, botteghe, orti, da censi sopra
stabili, soprattutto da mobili, da forni che, anche se necessitavano di
notevole manutenzione, rendevano enormemente all'affittuario. Vi erano
poi le entrate dalle multe che si comminavano per furto di legna, di
animale o di altri beni, se non era, per la gravità, prevista, in
aggiunta, anche la galera.
I proventi per le cause civili e penali e per i servizi ai carcerati erano
gravosi.
Come si può osservare nell'apprezzo trascritto, le entrate in denaro erano
cospicue così come quelle in natura.
Dall'affitto dei molini e dei forni provenivano grano, orzo e legumi,
nonché pane. La tassa della molitura era in rapporto al quantitativo di
grano molito ed in genere variava dalla decima alla dodicesima parte del
prodotto molito o cotto; per i forni era inoltre prevista la
restituzione di 1/12 della legna consumata per la cottura.
Anche dai terraggi provenivano molte vettovaglie, che variavano a seconda
delle coltivazioni (noci, castagne, grano, orzo, legumi, vigne, da cui
proveniva mosto di vino). I terraggi venivano però pagati anche con
altri generi di prima necessità come la bambagia, il lino ed altro.
Per mandare avanti tutto l'apparato la corte andava incontro a spese che
riguardavano sia le istituzioni per il culto, quali monasteri, chiese,
cappelle, sia il mantenimento del personale religioso e sia il vitto e
il salario che venivano dati ai funzionari, di ogni ordine e grado, che
servivano la corte.
Inoltre ai funzionari, che per ragioni di servizio venivano mandati fuori,
venivano pagati sia il viaggio espresso in miglia, effettuato a piedi o
con la cavalcatura, sia le spese di alloggio nel paese dove erano
costretti a dimorare per la notte.
Tutte le entrate andavano ai mastri razionali, che avevano il compito di
sindacare e rivedere l'operato degli altri ufficiali, di revisionare
tutti i conti del danaro fiscale e di risolvere le controversie sugli
stessi.
Riportiamo
in breve la successione del casato della Marra Carafa.
SUCCESSIONE DEL CASATO DELLA MARRA
CARAFA |
|
|
|
|
|
Eligio II Della Marra |
sposa |
Ciancia Caracciolo |
|
|
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|
1519 |
Antonio Carafa |
sposa |
Ippolita Di Capua |
|
I
Principe di Stigliano |
|
|
|
|
|
|
1531 |
Luigi Carafa |
sposa |
Clarice Orfina |
|
Il Principe di Stigliano |
|
in seconde nozze sposò |
|
Conte di Aliano |
|
Lucrezia Del Tufo |
|
|
|
|
1563-1574 |
Antonio Carafa |
sposa |
Ippolita Consaga |
|
III Principe di Stigliano |
|
|
|
|
|
|
1590-1603 |
Luigi Carafa |
sposa |
Isabella Consaga di Aragona |
|
IV Principe di Stigliano |
|
Principessa di Stigliano |
|
|
|
|
1603 |
Antonio Carafa |
sposa |
Eleonora Aldobrandini |
|
|
|
|
|
Anna Carafa |
|
Filippo Ramirez De Guzman |
|
Principessa di Stigliano |
sposa |
Duca di Medina De La Torres |
|
Vice Regina di Napoli |
|
|
|
|
|
|
Nicola Guzman Carafa
Principe di Stigliano |
Alla sua morte (1689) il Feudo tornò alla Corona e quindi all'imperatore
"Trascrizione del Manoscritto Originale"
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