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Artisti Lucani

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Collaborazione

Torre Molfese

le OPERE

S. Arcangelo


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ESPRESSIONI DIALETTALI
MODI DI DIRE
DETTI SANTARCANGIOLESI

 

GIUSEPPE NICOLA MOLFESE
 


 

“Ricordi”. Ho un paese a me caro, tanto caro, dal quale non sono fuggito. Era troppo stretto, ma largo di affetti, molti dei quali purtroppo scomparsi. Ci ritorno con la fantasia, con il ricordo. Adoro il mio paese, la mia casa, la mia masseria.

G. Molfese

A Carmen Timone Ancora Vela                 




Il perché del libro

Dove vuoi che cresca gioia devi seminare amore (G. N. Molfese). Il dialetto è la lingua che non si apprende, ma nasce con la persona; è un dono innato che ogni bambino impara con l’impiego di tutti i sensi. Con la parola, il bambino che vive in una determinata società dove si parla il dialetto, assorbe con tutto il corpo l’idioma, che poi porterà con sé per tutta la vita, e lo trasmette. Non solo con l’udito e con la vista si apprende il linguaggio, qualunque esso sia, ma anche con il tatto, il gusto e l’olfatto. Per il tatto, è significativa la parola in dialetto fridde, dove tutto il corpo, ma specialmente il volto della persona che pronuncia la parola è attraversato da brividi, reazione naturale ed immediata per contrastare questa sensazione-condizione. Lo stesso vale per il gusto, quando il bambino, dopo aver assaggiato un cibo che trova molto appetitoso, pronuncia le parole “Agge, quant’è sapurite!” e, nello stesso tempo, distende il suo apparato digerente ad accogliere le magnifiche sensazioni gustative che traspaiono inequivocabilmente dal volto. Altro senso interessato al dialetto è l’olfatto. Anche in questo, in presenza di un cattivo odore, la parola “Agge, che puzze!” chiude la via dei cattivi odori a penetrare nel corpo con l’esclusione dei sensi. Il dialetto nasce con la persona e l’accompagna per tutta la vita. Anche se la scuola, ci spinge, durante il corso di apprendimento, ad imparare a leggere e scrivere l’italiano, la nostra lingua ufficiale, in ogni manifestazione della vita, specie nel quotidiano, continua ad essere il dialetto. Le imprecazioni, le sensazioni di stupore e di gioia e tutte le altre manifestazioni naturali della vita, belle o brutte, vengono accompagnate da parole dialettali, che abbiamo assimilato nella nostra crescita e che all’occasione, poi, esterniamo. Nell’immediatezza è la parola dialettale che anticipa ed accompagna o segue un atto improvviso, qualunque esso sia, compiuto dall’uomo. L’utilizzo della lingua con espressioni corrette, apprese giustamente nella scuola, necessitano dell’impegno della mente ad elaborare il concetto e pronunciare l’espressione. Vi è qualche tempo di ritardo, anche se infinitesimale, tra l’evento e l’espressione gestuale o verbale che lo accompagna. Era naturale quindi che la scuola dell’obbligo insegnasse l’italiano, fin dall’unità, una lingua comune per tutti, in quanto l’uso dei differenti dialetti avrebbe reso difficile convivere nello stesso paese. Immaginate voi come una stessa parola d‘uso comune venga pronunciata nelle varie regioni. L’Italia sarebbe diventata una Babele dove sarebbe stato impossibile vivere. La lingua italiana, quindi, appresa da tutti i cittadini, ha permesso di avere una lingua ed un scrittura identica dalla val d’Aosta alla Sicilia. Nello stesso tempo il dialetto deve connotare ogni regione e deve essere mantenuto vivo in quanto patrimonio essenziale del territorio, degli usi e costumi. Ben vengano le canzoni dialettali che spingono, specie i giovani, a non trascurare l’uso del dialetto nei momenti gioiosi della vita. Il problema però della conservazione del dialetto è legato a numerose difficoltà che elenchiamo. La pronuncia in dialetto è difficile e solo se si sente numerose volte l’espressione si può sperare di imitare al meglio coloro che te la insegnano. Anche il disinteresse o la non voglia delle persone anziane a usare le parole dialettali fa sì che l’idioma si vada sempre più perdendo in ogni parte d’Italia. La scrittura del dialetto, opera di valenti glottologi, spesso aiuta gli studiosi a penetrare nel contesto delle parole ed imitare la pronuncia originale con l’uso di vocali messe al contrario, accenti e riferimenti a lingue ufficiali di come porre l’apparato vocale per emettere quel dato suono. Lo osserviamo spesso in televisione quando gli attori pronunciano una parola nel loro dialetto, con quanta facilità questa esce dalla bocca! Il problema del dialetto è anche legato al fatto che molte parole, non usate, diventano desuete, cioè scompaiono dal vocabolario. Questo è il motivo per cui, prima che l’oblio scenda sui nostri dialetti, persone capaci hanno il dovere di raccogliere singole parole, espressioni, frasi del dialetto del proprio paese, affinché venga conservata anche su carta la loro memoria, dal momento che le giovani generazioni preferiscono giustamente imparare il cinese piuttosto che avvicinarsi al dialetto della propria terra. Questo è il motivo che ha spinto l’autore, profondo conoscitore degli usi costumi e tradizioni popolari, a tentare di conservare in un vocabolario parole, espressioni e frasi che altrimenti andrebbero irrimediabilmente perdute. Malauguratamente una morte inaspettata non ha permesso allo scrittore di portare a compimento l’opera, faticosamente completata dal fratello Antonio, con la speranza di aver interpretato a pieno l’intento dell’autore, chiamato dai compaesani Don Geppino.

 

 

Introduzione

I dialetti delle varie regioni, dall’unità ad oggi, hanno compiuto passi da gigante nonostante all’inizio fossero visti come un ostacolo alla realizzazione di un’Italia unita. La preoccupazione dei governanti era anche quella che la frammentazione dialettale fosse di ostacolo all’unità linguistica del Paese. La lingua comune si affermava più naturalmente anche in altri modi imprevisti: non pensiamo tanto al servizio di leva obbligatorio, che metteva a diretto contatto giovani con diverse esperienze dialettali, che dovevano trovare un punto comune di inter comprensione linguistica, quanto alla funzione assunta dal loro incontro durante il periodo non breve della prima guerra mondiale, che avvicinò milioni di Italiani, provenienti da ogni regione in un territorio per la maggioranza estraneo. A rafforzare l’assoluto predominio della lingua italiana concorse con la scuola la capillare diffusione delle trasmissioni radiofoniche, che davano continui e ripetuti esempi di lingua italiana a tutte le categorie sparse nell’intero territorio nazionale. Durante il periodo fascista, nonostante una grande massa di lavoratori fosse stata spostata nelle zone da bonificare (veneti e friulani nelle paludi pontine), i dialetti furono ridimensionati, dal momento che la lingua ufficiale era quella italiana, anche se nei vari dialetti locali parole venete e friulane hanno avuto diritto di essere assimilate. Un settore particolare di scritti sul dialetto fu quello dei testi scolastici che, nei decenni postunitari fino agli anni Venti, furono compilati come sostegno all’insegnamento della lingua, secondo le prospettive di volta in volta indicate nei programmi ministeriali. I dizionari dialettali di uso didattico, che si diffusero tra la fine dell’ottocento ed inizio del Novecento, avevano naturalmente lo scopo di favorire negli alunni il passaggio dal lessico dialettale a quello italiano: ci si proponeva di imporre ai discenti le nuove parole italiane cercando di sradicare dalla mente dell’alunno ogni ricordo del parlare materno. Dopo la seconda guerra mondiale, che ripete il rimescolamento dei dialetti della prima guerra, altri imponenti movimenti di massa contribuirono a mettere in contatto larghe fasce di popolazioni di parlate diverse: durante il boom economico milioni di lavoratori delle zone depresse (meridionali, soprattutto, ma anche dalle Tre Venezie) si trasferirono nel cosiddetto triangolo industriale tra Torino, Milano e Genova, spesso insediandosi definitivamente in aree d’altra lingua. I nuovi venuti e la gente del luogo furono costretti a trovare una comune intesa linguistica, che non poteva essere che nell’italiano, approssimativo e incerto fin che si vuole, ma destinato a correggersi nelle successive generazioni, superando definitivamente l’esperienza delle barriere dialettali sperimentate dai padri. Anche gli stessi emigranti, quando si recavano all’estero, parlavano un linguaggio ,“la parlesia” ,una specie di esperanto usato dai magliari e dagli orchestrali della” bassa Italia”. La parlesia era un gergo basato in gran parte su vocaboli napoletani variamente costruiti e pronunciati, su cui sarebbe interessante fare uno studio approfondito. Inoltre, il successo generale di un altro straordinario strumento di comunicazione, quale la televisione, favoriva l’accesso alla lingua comune, tanto che, a distanza di poco più di un secolo, quel famoso 10% di italofoni arrivava alla soglia almeno del 25% (Doxa’79). Altre analoghe statistiche dislocate nei due decenni successivi confermano la tendenza di un graduale regresso dei dialetti di fronte all’italiano, sia pure con un ritmo più rallentato di quello che ci si aspettava. Alle soglie del terzo millennio constatiamo ancora una forte vitalità del dialetto, specialmente in certe aree della Penisola, ma è indubbio che l’espandersi inarrestabile dell’italiano parlato stà insidiando la resistenza dialettale, preparando l’affermazione di un tipo di italiano locale, contraddistinto da caratteristiche regionali, maggiormente evidenti nell’intonazione e nell’uso di lemmi particolari. Questo lento tramonto del dialetto sembra contrastare però col successo che riscuote la poesia dialettale, ma soprattutto la canzone dialettale, nonché i “dizionari” come quello che presentiamo. Come non si possono spegnere le tradizioni e i costumi che hanno radici millenarie, così non è possibile estirpare l’uso del dialetto, - quello santarcangiolese chiamato sciascione -,(sciascione/a erano chiamati il fratello o la sorella) perché il popolo non può, d’un tratto, cessare di esprimere se stesso. Inoltre, il dialetto deve essere considerato come la radice della lingua alla cui vita è necessario, perché solo attingendo direttamente dal popolo, la lingua si può rinnovare con parole vive e può anche arricchirsi senza imbarbarirsi, avendo, in fondo, la stessa natura della fonte a cui attinge. La scienza dialettologica ha accumulato negli ultimi decenni un numero così elevato di studi e ricerche da rendere necessaria una elaborazione dei risultati raggiunti, che esperti del settore vorranno compiere. Se il numero dei vocabolari dialettali, opera sia di appassionati dilettanti sia di esperti del settore, e degli atlanti linguistici, elaborati con nuove tecniche sofisticate, è notevolmente aumentato, ottime monografie di scuole differenti hanno completato il quadro illustrando debitamente situazioni dialettali particolari. Dialetti di piccoli territori sono ampiamente descritti e divulgati, mentre ad altri molto più importanti è stato riservato uno spazio in proporzione modesto; il criterio comunque prescelto è stato quello di allargare le conoscenze di situazioni finora trascurate, privilegiando le regioni dialettologicamente poco note e meritevoli di approfondimenti nei confronti di altre più conosciute. I profili dialettali regionali della Basilicata hanno affrontato problemi metodologici e pratici della ricerca dialettale, e si sono soffermati proprio sui complessi rapporti che i dialetti hanno intessuto con la vita culturale, in senso esteso con l’intero Paese. Il lavoro che presentiamo vuole essere un contributo determinante a che il dialetto di Sant’ Arcangelo possa, come hanno fatto già altri autori, continuare ad esistere almeno sulla carta, dato che la giovane generazione, per mancanza di stimoli da parte anche degli anziani, è propensa ad usare terminologie straniere piuttosto che il termine dialettale che in una sola parola alcune volte racchiude concetti ponderosi. Spesso capita a noi anziani di usare qualche espressione dialettale che, dal momento che non viene capita, suscita uno sguardo nel giovane che ascolta che vorrebbe dire: “che lingua parla questo straniero?”.
Un problema che ha notevolmente messo in crisi l’autore e coloro che hanno provveduto a completare l’opera per l’inaspettata sua scomparsa, è stato quello se utilizzare la scienza della glottologia nella trascrizione delle parole o servirsi di simboli ed altre poche regole per trascrivere le parole in modo da consentire di farle leggere a chiunque. Infatti, se ci si affida alla scienza glottologica nella scrittura delle parole viene fuori un risultato che è utilizzabile solo per gli addetti ai lavori. Personalmente mi è capitato di sfogliare un vocabolario dialettale di un paese vicino al mio che dopo qualche minuto di inutile lettura ho dovuto accantonare poiché non riuscivo non solo a leggere ma neanche a capire una sola parola. Forse questo è un errore in quanto tra qualche tempo sicuramente avremo il rimprovero dei puristi e dei glottologi di non aver usato i metodi e le regole utilizzati dalla glottologia per conservare questo tesoro inestimabile che è il dialetto ed in particolare il dialetto del mio paese, il santarcangiolese. Ai posteri l’ardua sentenza! Riteniamo riportare, anche facendo riferimento ai testi classici ed agli autori che hanno scritto sui dialetti, inquadrare a quale zona dialettale noi, come territorio, apparteniamo. Sin dall’antichità l’area geografica oggi denominata Basilicata, secondo il nome bizantino, è stata abitata da popolazioni diverse (cfr. De Rosa-Cestaro 1999). Nell’età antica accoglieva i Lucani (da cui deriva il nome tradizionale di Lucania) che occupavano la regione dall’area del Vulture al mar Tirreno, fino all’altezza dell’attuale Eboli. Nel periodo medievale la regione, oggi considerata come area da sempre isolata e periferica, fu più volte punto di incontro e di scontri tra popoli e civiltà, che allora si contendevano il predominio del Mediterraneo» (Giura Longo 1992), a lungo divisa tra i Bizantini e il Ducato Longobardo di Benevento. Dal dualismo tra elemento bizantino ed elemento longobardo, che proprio in questa zona furono a lungo in contatto, può forse risalire una delle cause di differenziazione tra i diversi dialetti meridionali. Le poche migliaia di Longobardi che giunsero nell’Appenino meridionale furono ben presto latinizzate, ma conservarono elementi della propria lingua d’origine che sono tuttora visibili sia in qualche residuo lessicale, sia nella toponomastica (G. Guarini). A fare della Basilicata un crocevia di genti diverse contribuì, probabilmente tra XII e XIII secolo, l’immigrazione di coloni settentrionali, di provenienza ligure-piemontese, che lasciarono tracce notevoli del loro stanziamento nei dialetti di Potenza, Pignola, Vaglio, Tito, Picerno (in misura minore quelli di Avigliano, San Fele, Ruoti), oltre che nel dialetto di Trecchina e di altri centri vicini (Rohlfs 1931 e 1988).La conquista dei Normanni favorì l’arrivo di genti settentrionali Lombardi, Francesi così come la conquista di Carlo d’Angiò. Sant’Arcangelo, così come altri paesi vicini, oltre che da grecismi, come riporta Branco 1985, ha assorbito lessico longobardo, francese e di altre etnie.

Antonio Molfese * * *
 

Nel dare alle stampe il presente volume è doveroso citare la persona che più di ogni altra è stata partecipe della sua realizzazione: la dottoressa Carmen Coco moglie dell’avvocato Molfese che ha aiutato a raccogliere i primi vocaboli, le prime parole, i detti e a trascriverli, così da rendere corposa questa raccolta di parole dialettali e di detti santarcangiolesi. La figlia dell’Autore, l’Avv. Alessandra Molfese, ha rivisto i testi e le numerose note. Tante persone del popolo hanno aiutato l’Autore a ricordare, ricostruire e a riportare la parola dialettale al suo giusto significato: Carmene a monache, Maragarite a celestre, Resarie a vitarelle, Maria a sciumentare, ’Ndreie curletane, Luigi u sitonne, e tanti altri sconosciuti dei quali è difficile indicare il nome, a causa della perdita prematura ed inaspettata dell’ Autore. Comunque, questo insieme di parole dialettali, di motti ed anche qualche proverbio farà sì che passeranno molti anni fino a quando l’espressione dialettale sarà interamente sostituita dal “parlare civile”, come era chiamato l’italiano. Quante volte da bambini al nostro discorso in dialetto eravamo sollecitati dai nostri genitori e dalle persone più grandi a parlare “allu civile”. Sono ricordi che sbiadiscono!
Presentazione Conosciamo l’autore del presente volume dal 1983, poco dopo che era uscita la 1a edizione del nostro Dizionario Dialettale della Basilicata (= DDB), (Winter, Heidelberg 1980). Da allora fino alla sua morte nel 2012 ci ha connesso un legame di quasi fraterna amicizia che si è tradotto anche nella sua collaborazione alle nostre varie ricerche dialettologiche in Basilicata fino al 2009 quando era uscita la 2a edizione del Nuovo Dizionario Dialettale della Basilicata (= NDDB), (Dr. Kovač, Hamburg 2009) e per la quale Giuseppe Molfese ci ha fatto il piacere di scrivere la sua presentazione personale (op. cit. 42 - 47). Ma già nel 1985 Giuseppe Molfese si impegnava instancabilmente a contribuire volentieri i suoi competenti commenti alla nostra raccolta di Mille Sentenze e detti lucani (Winter, Heidelberg 1986) offrendoci ben 55 analisi contenutistiche per 55 sentenze e proverbi lucani integrate e pubblicate nell’opera or ora citata. Glielo avevamo chiesto questo piacere perché sapevamo dalla lettura delle sue Ceneri di Civiltà Contadina in Basilicata (Galatina/Lecce, Congedo 1978) che l’avvocato Molfese era un profondo conoscitore e grandissimo amatore della sua cultura popolare lucana in generale e di quella santarcangiolese in particolare. Questo fatto addirittura viene anche messo in rilievo nei suoi Ricordi dove scrive: “Ho un paese a me caro tanto caro dal quale non sono fuggito. Era troppo stretto, ma largo di affetti molti dei quali purtroppo scomparsi. Ci ritorno con la fantasia, con il ricordo. Adoro il mio paese, la mia casa, la mia masseria.“ Infatti, la presente pubblicazione postuma è nutrita da ricordi personali. La ‘sua’ casa, la ‘sua’ masseria Molfese al Monte Cellese a Sant’Arcangelo in Lucania rivivono e risorgono nella descrizione di molti vocaboli raccolti ad esempio addórә, arrásә, antracә, azzupántә, caritá, citrularә, cónchә e curnálә. Attraverso altre voci con riferimento alla medicina, ad esempio ammammá, antrace, archә, bagúgghhiә, carcәratә, caritá, cíeuzә, confidenziale l’autore fa rivivere suo fratello Antonio, sua madre, la sua nonna paterna e poi suo padre e suo nonno che erano medici condotti a Sant’Arcangelo e Missanello. Vengono menzionati altri concreti personaggi santarcangiolesi. Oltre alle persone soprannominate (v. più giù) incontriamo nel testo seguente p.e. Maestro Infantino, Maestro Lupia, la famiglia De Ruggieri, zio Marzio, Francesco La Quercia, la famiglia Acierno, i fratelli Mastrosimone, Nicola Sansanelli, la famiglia Scardaccione, Pasqualino, rettore dell’universià do Curriturә, Pietrino il calderaio, Antonio Lamberta, Lucia a Barone e perfino tutti gli altri personaggi anonimi: i cafoni, i pecorai, i politici, le donne santarcangiolesi, gli artigiani, i pastori, i bambini. Siamo tristi di non avere più il compianto amico tra di noi. Era quindi per noi un ovvio e indiscutibile obbligo assoluto di scrivere questa presentazione della sua presente opera postuma che raccoglie il tesoro dialettale e la tradizione orale del suo tanto amato paese Sant’Arcangelo dove noi stessi abbiamo potuto fare delle ricerche dialettologiche nel febbraio del 1975 raccogliendoci la tradizione orale su nastri magnetofonici. Studiando con curiosità il materiale del suo manoscritto ci siamo dapprima accorti che in esso sono contenuti parecchie forme dialettali santarcangiolesi e lucane che non abbiamo neanche potuto raccogliere durante la stesura del nostro recente NDDB, p.e. acitәsciútә, affinatúrә, assammará, attimpaná, baialardә, bavegnә, cacadubbiә, cacchímә, caiázzә, carnéttә, casígnә, ciappә pә, talvolta con una descrizione molto ampia e dettagliata del significato come ad esempio per le forme azzupantә, baculә oppure cánzә. Poi leggiamo nel libro di Molfese delle forme che si trovano anche nel NDDB però da lui con un nuovo o altro significato di quello descritto da noi, p.e. i significati per appattá, armaggә, arrapársә, arrazzá, chemúnә o curízzә, e spesso con particolare riferimento a Sant’Arcangelo come ad esempio nei casi di capәtúrnә oppure adacquá. I significati di alcune forme, come ciucciә o chiangә vengono esaminate ampiamente dal punto di vista storico o biblico. Nel suo volume Giuseppe Molfese non tralascia poi di considerare la terminologia toponomastica santarcangiolese e quella di alcuni paesi vicini, p.e. andriace, arrәvótә, battifarano, cannavárә, casálә, cifariéllә, cotә, craparichә, cugnә dә sciacquaruguagnә, capítolә, ferrarulә, oppure rukkulónә. Ovviamente egli ha capito l’importanza dei toponomi per la storia locale santarcangiolese, perchè i nomi locali costituiscono nel giro della storia e della geografia, una suppellettile scientifica che si può confrontare con quella che nell’ordine delle vicende fisiche è data dai diversi giacimenti che il geologo studia.“ (Graziadio Isaia Ascoli, Perseveranza, Roma, 8 settembre 1891). Infine l’autore tiene conto dei soprannomi santarcangiolesi come ad esempio cardalána, cardónә, cәrәnéo, ciciriellә, crapínә, cuculécchia, cucúzzә, cudilónghә, cufinә, giuviniellә, siggilárә, minghittә u carcirierә ed altri. Oggi “sono molte poche le persone che usano i soprannomi. I giovani moderni, nella grande maggioranza, li ignorano completamente. Come sono scomparsi tanti canti tradizionali contadini, tante feste popolari, così pure … tanti soprannomi, espressioni vivaci, pungenti e salaci della fantasia bizzarra e stravagante del popolo minuto, semplice ed arguto, sono andati morendo giorno per giorno.“ (per la storia dei soprannomi nel meridione v. in dettaglio: Cosimo Occhibianco, I soprannomi dialettali nell’ Italia meridionale, in: Bigalke, NDDB, p. 113 – 120). Dal punto di vista paremiologica (paremiologia: studio dei proverbi) Molfese combina la lessicologia con la paremiologia, contestualizzando molte forme dialettali raccolte con la relativa citazione di una sentenza o di un proverbio lucano: così per la forma cannarútә leggiamo il contesto Sfaticatә e cannarutә Diә l’aiutә, per la forma crápә leggiamo la sentenza lucana Femmәnә ciuccә e crapә tenәnә tuttә a stessa capә, il vocabolo criscisántә viene contestualizzato nel detto criscә santә ca diavilә già ‘nci si, oppure leggiamo la frase proverbiale Chi sә cuchә p’o guagnunә, ‘a matina sә trova cacatә quando l’autore elenca la forma cuccá. E così via per molte altre forme raccolte. Il termine ‘proverbio’ traduce la parola ebraica ‘Mešhalim’; tale termine, oltre al significato ad esso attribuito, indica un genere letterario, detto ‘gnomico’, che comprende poemi religiosi, morali, satire, massime, sentenze popolari, discorsi, aforismi, in cui l’elemento comparativo tiene il primo posto. Il proverbio è una sentenza scultorea, lapidaria, contenente un’immagine, un paragone, un qualcosa di arguto, di curioso. Esso, studiato attentamente, è come un flash sull’ambiente storico, culturale, artistico, geografico, politico, religioso. I proverbi quindi costituiscono, come già per gli egiziani, gli ebrei, i greci ed i latini, la forma più viva, più semplice, più pratica di saggezza popolare. Nelle descrizioni di molte forme elencate escono fuori usi e consuetudini relativi alla vita quotidiana a Sant’Arcangelo quando Molfese commenta dettagliatamente vocaboli come: carcәratә, chianchiére, cacárә, cannәsciá, cantínә o gruttә, capillarә, carusá, caudarara, cesso, crisciuola oppure cuonsílә. Talvolta con tali descrizioni e commenti minuziosi Molfese sembra mettersi sulla scia di Carlo Levi (1902 - 1975), il quale, durante il suo esilio in Lucania negli anni 40, aveva descritto nel suo romanzo gli usi e costumi di Aliano, paese vicino a Sant’Arcangelo (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Milano, Mondadori 1981). L’autore rinuncia più o meno a toccare una questione scottante nell’occuparsi della lessicologia dialettale: l’etimologia, ben sapendo che questa spesso prende origine da errori. Allora preferisce scrivere “Difficile è stato trovare l’etimo“, quando menziona p.e. la voce cuttúnә ‘insieme’. Sappiamo però in questo caso che essa ha da fare coll’italiano tutt’uno (v. NDDB 4566). Tutto sommato Giuseppe Molfese nella presente pubblicazione tiene conto di tanti aspetti: in primo luogo considera la lessicologia e la paremiologia. Integra nella parte lessicale la toponomastica e l’onomastica soprannominale e spesso ricorre ad argomenti storici e teologici per consolidare e giustificare le sue osservazioni. Leggendole il lettore si accorge che l’avvocato Molfese è un grande conoscitore di usanze medicinali e agrarie come risulta dalle voci archә, cafonә, calavronә, cúgghiә e da molte altre. Un evento molto importante nella storia della linguistica romanza i cui autori iniziali furono, fra altri, Hugo Schuchardt (1842 – 1929) e il rappresentante della linguistica indoeuropea Rudolf Meringer (1859 – 1931) è la corrente Wörter und Sachen (cioè: parole e cose) che ricevette con la rivista Wörter und Sachen (Heidelberg 1909 – 1937) il suo organo di pubblicazione, fondato da Rudolf Meringer e W. Meyer-Lübke. La nuova serie fu edita da W. Wüst (1938 – 1944). La corrente Wörter und Sachen difende lo studio simultaneo della storia culturale e della storia della parola e ritiene pericoloso e insensato qualsiasi ricerca etimologica che si orienti esclusivamente verso il materiale della lingua. Schuchardt stesso ci ha fornito die begli esempi per quel modo della ricerca linguistica relativa alla corrente Wörter und Sachen. Lavori del genere possono riguardare sia una sola cosa sia un gruppo di cose e essi appartengono poi alla categoria di ricerche onomasiologiche. Lavori del genere possono avere come oggetto anche il lessico totale relativo alla vita e agli usi e costumi di una comunità linguistica. Il primo esempio di questo ramo di ricerche nella storia della romanistica ci ha fornito Max Leopold Wagner (1880 – 1962) con la sua opera intitolata Das ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache, Heidelberg 1921 (cioè: la vita rurale della Sardegna nello specchio della lingua) (v. Tagliavini, Carlo, Einführung in die romanische Philologie, München 1973, p. 15). Una volta le ricerche relative alla corrente linguistica Wörter und Sachen erano illustrate con l’aiuto di disegni e fotografie, il che era un lavoro piuttosto impegnativo e costoso. Oggi, grazie alla tecnica del computer e grazie alla tecnica fotografica digitale, è facile illustrare ogni cosa descritta linguisticamente con un’illustrazione adeguata. Bernardi (Uomo, Cultura, Società, Introduzione agli studi etno-antropologici. Milano, Angeli 1974, 48-49) individua i fattori che operano costantemente per dar vita e continuità alla cultura in tutte le sue forme“, ad esempio quando il contadino trebbiava, v. la voce árejә, quando produceva il formaggio, v. cácchәvә, casәrәcóttә; nell’ANTHROPOS ossia l’uomo nella sua realtà individuale e personale, ad esempio le persone concrete menzionate più sopra che operavano in un certo contesto oppure gli individui che soddisfacevano semplicemente i loro bisogni corporali quotidiani, v.p.es. sotto la voce critárә, cesso; l’ETHNOS, comunità o popolo, intesi come associazione strutturata di individui, che sarebbe nel contesto seguente la comunità santarcangiolese in particolare e quella lucana in generale; l’OIKOS, l’ambiente naturale e cosmico dentro cui l’uomo si trova ad operare, per esempio l’ambiente sismico santarcangiolese in cui l’uomo viveva, v. la voce casalínә; e perfino il CHRONOS, tempo, condizione lungo la quale, in continuità di successione, si svolge l’attività umana; p.es. il fascismo, trattato sotto la voce comunistә. Questi quattro fattori operano sia con azione diretta sia con effetti condizionanti.“ (op. cit.) Il materiale come quello raccolto in questa pubblicazione rappresenta quindi un vero tesoro perché rispecchia, contiene e conserva l’HUMUS (per riassumere i quattro termini greci menzionati or ora), l’identità, la lingua viva e spontanea, la tradizione orale di una determinata comunità e con questa il pensiero umano e la storia dell’individuo. E qui troviamo la soluzione del problema se il cosiddetto dialetto ossia la lingua parlata ha una giustificazione nella vita quotidiana dell’epoca digitale. Si tratta nei confronti dei dialetti di attendere a certi pregiudizi residui che ne falsano la nozione. Molte volte si pensa al cosiddetto dialetto come ad un sottoprodotto della lingua o una lingua subalterna, magari a una deformazione della lingua stessa come è avvenuto nella storia della Questione della Lingua in Italia. Ma nel contesto della Questione della Lingua ci sono stati anche quelli, come Pietro Bembo (1470 - 1547) e Benedetto Varchi (1503 – 1565) che si erano espressi a favore del ‘Volgare’ cioè di quello che si chiama dialetto. Nella linguistica attuale moderna si sa che la nozione di ‘sottoprodotto’, di ‘lingua subalterna’ oppure di ‘deformazione della lingua’ è una nozione falsa ed ingiusta: il cosiddetto dialetto è una lingua a pieno titolo. Se i dialetti nei tempi recenti non hanno avuto una sorte benigna, non è stato sempre così. Basta ricordare l’800: ebbe molta sensibilità, a causa della cultura romantica, verso ciò che è popolare. In tale epoca i dialetti suscitarono una fiammata di interesse e trovarono uomini che sostennero rigorosamente il diritto dell’esistenza dei dialetti e della lingua parlata, anche nella scuola. Basta ricordare i nomi di Alessandro Manzoni (1785 - 1873), Francesco De Sanctis (1817 - 1883) e di Graziadio Isaia Ascoli (1829 - 1907). Oggi, in un mondo che cerca di creare un’Europa Unita e dove si rischia di perdere la sua identità linguistica regionale (perciò già esistono in Germania o in Francia termini come “denglisch“ oppure “franglais“ per indicare un miscuglio linguistico tra il tedesco e l’inglese oppure tra il francese e l’inglese), quindi, opere come la presente sono diventate una necessità per non dimenticare e per rispettare la storia e la tradizione. A questo proposito il filosofo danese Sören Kierkegaard (1813 – 1855) mette bene in rilievo il suo pensiero che la vita viene vissuta avanti ma che viene compresa indietro. Il compito del dialettologo – antropologo è dunque questo, e Giuseppe Molfese lo assolve perfettamente: la ricerca e lo studio del patrimonio linguistico popolare, che pur è un’operazione necessaria, che pure è un fatto degnissimo, perché queste culture tradizionali, in fin dei conti qualunque cosa se ne pensi, rappresentano una testimonianza unica e non bisogna lasciarla cadere senza una possibilità di recupero, tanto più che le generazioni cadono l’una dopo l’altra e ciascuna si porta via un pezzo di vita. Non è una risuscitazione romantica di pezzi del passato che il Molfese ed i suoi lettori vogliono prendersi il piacere di riascoltare; non si tratta di questo, si tratta di sapere, di capire di chi siamo figli, donde veniamo, quali sono le nostre tradizioni, qual è la nostra storia, perché, proprio nel senso del filosofo danese Kierkegaard più sopra citata, le tradizioni e la storia sono le ragioni stesse del nostro attuale essere e la storia non inventa alcunché di veramente valido che non sia nelle ragioni remote e meno remote del nostro esistere. Con il recupero del tesoro dialettale santarcangiolese, le cui forme, già da tanti anni anche nel Meridione italiano, vanno perdendosi come dappertutto in Europa, il che è dovuto senza dubbio in primo luogo alla nuova epoca digitale, Giuseppe Nicola Molfese ha conservato una parte importante del patrimonio linguistico-antropologico del suo paese Sant' 'Arcangelo per le future generazioni le quali un giorno gliene saranno infinitamente grati leggendo questo volume.

PD Dr. habil. Rainer Bigalke, M.A.
Romanista e Dialettologo
Ascheberg/Germania, febbraio 2015 ,

Terminologia dialettale

Nella trascrizione dei termini dialettali si è cercato di far uso di simboli fonetici o segni diacritici soltanto nei casi in cui un suono non poteva essere reso con i normali mezzi ortografici della lingua italiana standard. Le convenzioni adoperate in tali casi sono le seguenti: - Con il simbolo ∂ rappresentiamo il suono di e indistinta, articolata molto debolmente (quel suono che i grammatici francesi chiamano “e muet”); il valore di questo suono può andare dalla vocale debole (come nel francese brebis, croire, ils demandent) fino alla perdita completa. Tale simbolo sarà usato con particolare frequenza in fine di parola poiché, nel dialetto di Sant’Arcangelo, come nella maggior parte dei dialetti meridionali, le vocali finali di parola non sono pronunciate con chiarezza, ma si riducono ad un suono molto fugace ed indistinto, che spesso si percepisce appena. - j rappresenta la i consonantica (come in ieri, aiuola); questo simbolo, quando si trova in finale assoluta di parola, come in mij, o anche seguito da un’altra vocale, come in mijә, sta ad indicare un suono simile a quello della cosidetta “l mouille” francese, in parole quali fille, feuiton. - Con la sequenza di lettere gghi si cerca di rendere quel suono (palatale) proprio del siciliano figgiu, e presente anche nel toscano volgare, es.: fogghia per foglia. - Quando un inizio di parola, e più raramente all’interno, si trovano scritte due consonanti uguali, si intende che la consonante in questione ha una pronuncia più intensa, più forte, come se si trattasse appunto di una consonante doppia. - In alcune parole in cui compare la sequenza scu, sca, la s rappresenta il suono che la grafia italiana rende con sc, come in scena. In tal casi si adotta la grafia sc ad indicare solo la s, di conseguenza l’intero gruppo italiano scu-sca sarà trascritto sc-ca, sc-cu es: scuppetta = sc-cuppetta. - Moltissimi vocaboli presentano l’elisione del suono iniziale, sia esso vocalico o consonantico; tale elisione è stata resa naturalmente con un apostrofo premesso al vocabolo stesso. Frequentemente soggetti a tale elisione sono gli articoli determinativi singolari lo, lu, la, che quindi rendiamo con ‘o,’u, ‘a, come pure i pronomi accusativi singolari, (lo vedo, la vedo) che talvolta suonano appunto lu, lo, la, a volte ‘o, ‘u, ‘a, esattamente come gli articoli. Tuttavia per facilitare la lettura e la comprensione del testo, abbiamo preferito trascrivere i pronomi ‘o, ‘u, ‘a senza apostrofo cioè o, u, a, così che si possa immediatamente distinguerli dagli articoli omofoni. L’articolo determinativo plurale suona quasi sempre o, sia per il maschile, sia per il femminile, sebbene non sia raro trovare a in questo ultimo caso. Quando invece si troverà una a e, meno frequentemente, una e senza apostrofo e seguite immediatamente da un verbo all’infinito, tali a, e stanno a rappresentare voci del verbo dovere, o avere da. Anche nel dialetto di Sant’Arcangelo, come in altri dialetti meridionali, è frequente l’occorrenza di una a, che non ha alcun valore funzionale, tra il verbo ed il suo complemento oggetto (aggә vistә a Maria = ho visto Maria). Sempre a proposito dell’apostrofo, le sequenze ‘nu, ‘na, ‘no stanno ovviamente per uno, una, mentre nu, na, no senza apostrofo sono delle varianti dei pronomi accusativi singolari; il pronome accusativo plurale femminile e maschile (li vedo, le vedo) e per lo più reso con o, come per l’articolo determinativo plurale; ma talvolta anche con li o con la. Quest’ultima forma funge anche da pronome dativo singolare e plurale maschile e femminile, (a lui, a lei, a loro), cosicché ad es.: lә venә ‘n ‘mmendә potrebbe significare: le viene in mente, o gli viene in mente, oppure viene in mente a loro. - Con la sequenza ngi rappresentiamo una forma rafforzata del pronome ci (ci vado, ci sono), quindi la sequenza ng’e non sarà altro che l’italiano standard: c’e. - La terza persona del verbo essere suona quasi costantemente jè,, raramente è, o ghiè. - L’imperfetto dei verbi ha spesso una terminazione in auә, o aguә: truvauә (la 2a, 3a persona singolare), truvauәnә, truvaguәnә (3a plurale = trovavano). - Le terminazioni dell’infinito: are - ere - ire dell’italiano standard vengono spesso elise: in tal caso l’accento cade sull’ultima sillaba del verbo: noi segnaleremo ovviamente anche queste elisioni con un apostrofo, tralasciando tuttavia di segnare l’accento: truva’ significherà dunque trovare e sarà accentato sulla a. - I gruppi ndo, ndu, nda esprimono, nel, nello, nella.
 


Centro Studi sulla Popolazione “Torre Molfese” - San Brancato di Sant’Arcangelo (PZ)

ISBN 978-88-99520-34-2 Zaccara Editore - Lagonegro © Copyright febbraio 2017

 

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