Pasquale Totaro-Ziella

 

 

Vi sono artisti per i quali raccogliere dodici svelti commenti sul loro lavoro — per quanto limitato ad un periodo definito, oppure ad una singola opera — così come conciliato in questo volume, potrebbe ottenere il risultato di confondere il lettore: tanto le poetiche, gli autori, deriverebbero trasfigurati in ogni contributo critico, quasi a dar l’involontaria impressione che non ci si riferisca alla stessa poetica, allo stesso autore. Tutto questo accade realmente: per certi sopravvalutati autori, per opera di altri svagati critici; ed è fenomeno ormai normalizzato da una distorta maniera di concepire l’estetica, la critica, snaturando perversamente l’approccio all’opera, all’autore, disincagliandolo dalla realtà intuitiva che sostiene ogni creazione artistica.

I dodici saggi che danno corpo a questo volume, navigando nella poesia di un ventennio di Totaro-Ziella, pur partendo da coordinate di spazio e tempo distanti l’una dalle altre, confluiscono istintivamente in convergenze critiche che testimoniano della decifrabilità del poeta cui sono riferite, non ché della serena, svincolata da tensioni narcisistiche, attitudine degli autori dei saggi: tutto in forza, soprattutto, delle poetiche intimate da Pasquale Totaro-Ziella, pregne di una chiarezza espressiva riposante sulla verità dei sentimenti primari dell’uomo, del poeta: infaticabile esploratore del trascorrere di un’epoca oltre la quale, e forse già fin dentro essa, s’addensano basse nubi a nascondere i paesaggi e i territori poetici, le arature del pensiero, le centuriazioni dei sentimenti: in altre parole la comunicabilità che si tramuta in poesia, per dirla con Frattini, uno dei dodici autori dei saggi di questo volume. E dall’esame retorico di Frattini, emerge il dato comune, il nucleo irriducibile della poesia di Totaro-Ziella che pur nel variegarsi delle sfumature, anche gli altri autori avvalorano: cioè la citazione di una liturgia primitiva, che sebbene annidata in culture attardate rispetto al progresso — ciò che comunemente si intende per progresso consente, forse proprio per questo ritardo, il rinsaldarsi alle radici e alla natura dei sentimenti primari che questa vicinanza può suscitare in chi vive fisicamente in simbiosi con essa, preservandola e metabolizzandola nei moti dell’animo, e ricevendone un patrimonio di sensibilità creativa dalla quale, a mio avviso, la poesia non può distaccarsi.

La poesia di Pasquale Totaro-Ziella, secondo Manescalchi, è anche civile e profetica nonostante il disgregarsi del tempo e della storia, uniformandosi in strappi improvvisi, quando necessario, nel tessuto retorico della poesia contemporanea, alternati a vaste tessiture monodiche che richiamano la tradizione della poesia antica. Poesia, dice ancora Manescalchi, esorcizzante la realtà in forme iterative da coro greco, da canto corale: e in questo convergendo con gli altri saggi qui raccolti, che rilevano, pur nella autonomia delle trattazioni, riferimenti al coro classico della tragedia greca, ai canti salmodiali della prima cristianità (Savini), o ad arcane suggestioni di canti al fuoco: come pare voler suggerire De Marco. Insomma Totaro-Ziella canta, a mio avviso, la circolarità ontologica del dramma esistenziale, della sua necessaria riconfluenza nel nulla, per una catarsi illusoria ma insopprimibile, e possibile soltanto attraverso la poesia; ma irraggiungibile compiutamente proprio per il tarlo inconscio che ne mina il fine, la purificazione: che raggiunta potrebbe rendere la poesia vacuamente inutile.

Parafrasando un celebre motto di Degas, Pasquale Totaro-Ziella, pare aver inventariato nel corso della sua vita, nel lento e progressivo srotolarsi della sua poetica, tutta una congerie di emozioni e sentimenti che ha idealmente nascosta nell’armadio delle sue nostalgie, del quale ha però smarrito le chiavi, e dunque nostalgia si somma a nostalgia in un uffizio irreversibile, ma nondimeno vitale e ruttilante universo creativo.

Da tutto questo Pasquale Totaro-Ziella non sfugge ad un sereno esame socio-estetico della realtà che circonda la realtà dei poeti (cosi come rileva Bellusci), la disposizione a raccogliere e conferire riverbero a un’eco di voci confuse e concitate, per quanto serenamente decodificabili, intermediando duplici atteggiamenti estetici e psicologici, o arcane suggestioni: psicanalitiche e ancestrali per dirla con De Marco. Ma soprattutto è l’identificazione dell’autore, secondo Robaey, con la sua terra, con quella cultura subalterna al consumismo che lo rende pittore di rimpianti ingigantiti dal falso immobilismo di una terra che in realtà muove, anche grazie alla poesia, salvando le tracce di culture altrove fagocitate e travolte dai movimenti nevrotici dei nostri tempi (pare suggerire Piromalli). Di culture che come i massi erratici spostati dalle glaciazioni quaternarie per grandi spazi, ed ora abbandonati in piane lagunose e molli, estranee alla compattezza della roccia, certe culture sono state disperse ai venti dalla velocità del tempo e non sarà più possibile per esse la lettura, ripudiate in zone morfologicamente repellenti appunto come i massi erratici.

Filtrando le metafore delle diverse forme dell’acqua, assai care ad Eraclito, si innesta in questo volume il saluto di Yuezhen Su emergendo da una cultura e da una terra molto diverse da quelle di Pasquale Totaro-Ziella, ma nondimeno legate da uno spirito primordiale che riconduce al culto della Madre Terra, alla devozione per i vecchi, all’amore per la famiglia: ai connotati antropologici che il progresso, per quanto irreversibile, non può obliterare (a fin di bene non si può fare del male, spesso motteggiava Voltaire).

E sovente il canto per la propria terra, dice Reina, si affianca, vincolato da una simbologia obbligata, di origine e diffusione mediterranea, all’immagine femminile evocando il contatto ancestrale tra la fertilità della terra e il desiderio d’amore, estremo risarcimento alla coerenza pessimistica di natura antropologica: distendendosi, il canto, in un telaio di rapsodie poetiche (per dirla con DEpiscopo), che riconfluisce nel clima del coro, della monodia, convocando le linee poetiche di due grandi poeti della stessa regione, Sinisgalli e Scotellaro.

L’analisi strutturale della poesia di Pasquale Totaro-Ziella, vicina agli interventi di Spinelli e Caserta, mi porta alla consapevole considerazione che dalla poesia di questo autore non emergono vezzi dialettali o gergali, idiomi che spesso farciscono certe poetiche e che mai nessuno ha in realtà parlato, e che sono soltanto operazioni di laboratorio letterario oltre le crepe di un pervasivo individualismo ammantato di socialità.

La preoccupazione di Platone, circa il pericolo che la lingua da lui esaltata, potesse sostituirsi, cassandola, alla tradizione orale consolidata da un tramandarsi oltre i limiti del tempo, è la preoccupazione che noi, intendo tutti coloro che della lingua e delle poetiche abbiamo fatto l’estrema forma di religione, dovremmo avere per il massiccio attacco sferrato dall’immagine, con tutto il suo bagaglio di seduzione, attraverso gli strumenti a cui essa si prostituisce senza alcun rigore, nei confronti della scrittura, della poesia, della lingua stessa.

Un libro necessario dunque che macina i semi di una vena poetica ed espressiva consolidata in versi di suggestiva testimonianza e partecipazione alla vita, non solo del cantore del Sud, e nemmeno soltanto dell’aruspice del corpo della propria terra: in Totaro-Ziella la poesia si materializza in messaggi assoluti che meritano la conservazione attraverso questi dodici commenti, eleganti geroglifici scolpiti nella roccia del nostro inviolabile pensiero, creando di fatto la premessa che un messaggio poetico, come l’opera di Totaro-Ziella, che va ben oltre valori estetici e formali, possa un giorno risvegliare quell’uomo che sta perdendo il contatto con la sua lingua, con la sua terra, con la vita.

Paolo Codazzi    

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