Il Monastero del Sagittario Vita severa del Beato Giovanni nel Monastero. Dopo che
il Beato Giovanni ebbe lasciato l'Eremo di San Saba, andò nella
solitudine del Sagittario. Quest'eremo è posto in un luogo in pendio che
guarda a settentrione; dista sei miglia
da Chiaromonte nel cui territorio è situato. S. C. E. C. M. (77) Lo venerabile Monasterio, Abbati e Frati de Santa Maria del
Sagictario delo Ordine Cistercense oraturi perpetui de V. Maestà
humilmente le fanno intendere, che circa anne seicento, che stando in
veneranda exstimazione una antiqua immagine de la intemerata
Vergine Matre del Redemptore nostro Iesu Cristo, in una terra chiamata Clarimonte: tale immagine non travàndose al loco dove stava, per
le Citadine de dicta terra(78) in trovarla fu facta deligentissima
investigatione et como piacque al Summo Creatore, andando cacciando un
cacciatore in uno appennino(79) de longo circa setti miglia da dicta terra,
sagictando una Cerva, quella fugendo se nascose in uno loco dove era
dicta divinissima immagine, quale così miracolosamente trovata,
andao subito ad rivelarla alle citadine, che cercandola andavano, quale
stupide(80) tutte de tal miracolo, insieme con le Signure che in tando
dominavano(81) con devotissime processioni andarono in tal loco (e il
resto)(82) che, per evitare prolissità, non si riporta.
Note 1. E' una specie di trifoglio, ed è una delle erbe più note e di cui più si parla non solo dagli antichi scrittori greci e latini, ma anche dai poeti italiani fino al Pascoli e al D'Annunzio. Ecco ciò che del citiso dice il medico greco Dioscoride, nella traduzione del Mattioli (I discorsi... di P. A. Mattioli, Venezia 1557). II citiso è una pianta tutta bianca...(Le foglie) trite con le dita, spirano odore di ruchetta, e gustate sono simili a ceci..., peste e impastate con pane, risolvono i tumori, che cominciano; la decottione bevuta provoca l'orina. (pag. 530). 2. Forse è la dragontea (Dracunculus vulgaris) pianta tipica delle regioni mediterranee, alta circa un metro, con inflorescenze dall'odore nauseante. Dalla radice si preparava un decotto per curare l'asma e il catarro. 3. Non si può dire a quale pianta specifica l'Autore si riferisca; con il nome generico di cardo, infatti, sono indicate moltissime piante; ma siccome qui si dice che questo cardo secerne il mastice, cioè una resina balsamica, potrebbe anche trattarsi di piante indicate con altri nomi, ad es. il lentisco. Di questa pianta, infatti, Dioscoride dice (nella trad. citata di Mattioli, pag. 78). Produce il lentisco una ragia, la quale alcuni chiamano Lentiscina, e altri, la dinandano mastice. Questa bevuta vale al rigettare del sangue, e alla tosse vecchia; è utile allo stomaco ma commuove rutti. 4. II termine tragion è usato da Plinio ed è inteso, in genere, come riferito all'iperico, ma siccome questa pianta verrà subito nominata in questo elenco, il tragion non può essere, ovviamente, la stessa cosa, a meno che per ragion non si voglia indicare una varietà particolare dell'iperico, che comprende circa 300 specie, di cui 20 solo in Italia. 5. E' l'origanum dictamus (non il più comune dittamo bianco) originario dell'isola di Creta. E' simile al puleggio e gli si attribuivano, anticamente, virtù vulnerarie, cioè di cicatrizzante delle ferite. Con queste caratteristiche lo presenta Virgilio (Eneide,XII, 411 sg.), Ariosto (Orlando furioso, 19,22) e altri poeti. 6. Con ogni probabilità non si tratta del comune camaleone, cioè della così detta carlina, ma della camelea, una specie di ulivo selvatico molto basso (il suo nome deriva dal greco camai, che significa a terra, ed elaia, cioè ulivo) ed infatti Mattioli (o.c., pag. 573) dice: La camelea è pianta sarmentosa e fa i suoi rami una spanna, le quali gustate mordono la lingua e scorticano il gorgozzule. 7. E' il peucedanium ostruthium, detta erba imperatoria, quasi a dire potentissima, perché ritenuta molto efficace contro vari mali. Era usata come stimolante, eupeptico, antispasmodico, diuretico e per il mal di denti. (Mattioli, o.c. pg. 384). 8. Nota pianta erbacea di origine asiatica, ma conosciuta già nei tempi antichi. Dal rizoma si ricava un succo amaro dalle qualità digestive e lassative. Ci sono molte specie di rabarbaro. 9. E' una pianta delle cariofillacee diffusa in tutto il mondo in un centinaio di specie. La stellaria è una pianta che nasce per lo pù nei prati delle montagne: le cui fronde si rassembrano assai a quelle della malva. ...e sono i suoi cantoni... per tutto dentati, di modo che quando le fronde sono bene aperte, si rassembrano veramente ad una stella...E' mirabile per saldare le ferite tanto interiori, quanto esteriori. (Mattioli, o.c. pg. 536). 10. Qui, certamente, non si tratta della pianta da cui si estrae il noto insetticida, ma, probabilmente, dell'anacyclus pyrethrum, detto, comunemente, piretro di levante o piretro romano: Dai Latini si chiamava salivare... La radice è grossa un pollice, lunga, di ferventissimo sapore... lavando la bocca con la sua decottione fatta nell'aceto giova ai dolori dei denti. (Mattioli,o.c., pg. 389). 11. E' la valeriana celtica, comune nei pascoli delle zone collinari e montane. Le sue radici venivano usate come antispasmodiche e febbrifughe Col nome di nardo si intendeva anche, in Italia, la comune lavanda detta spesso dai letterati spigo o spiganardo. 12. Si tratta del convolvolo, in particolare il convolvalus turphetum, di cui, proprio con il nome di turbit, si usava la corteccia come drastico purgante. 13. O Ononide, nome che indica una settantina di specie. Comune, in queste zone dell'Italia maridionale, è la Ononis spinosa, un arbusto alto una settantina di cm. infestante nei luoghi aridi e nei prati. E' detta anche bulimaca. Le sue radici hanno proprietà diuretiche. 14. Con questo nome si indicano un centinaio fra erbe ed arbusti delle ombrellifere. In Italia sono presenti una decina di specie, fra cui le più note sono il peucedanum orseolinum, detto anche prezzemolone (l'infuso delle sue radici era usato per l'azione diuretica e depurativa) e il peucedanum officinale, detto anche finocchio porcino (la cui radice era usata per le sue qualità astringenti, broncosedative ed eupeptiche). Si noti che nel genere del peucedano entra anche la così detta erba imperatoria, di cui si è già trattato. 15. Nome con cui si indicano piante ranuncolacee che comprendono un centinaio di specie. La più comune è l'anemone coronaria, con fiori simili a quelli del papavero. Gli si attribuivano varie proprietà nella medicina popolare. Mattioli (o.c. pag. 312) notava: La radice... cotta in vino passo e applicato in forma di linimento, medica le infiammagioni, le debolezze e le cicatrici degli occhi, e modifica l'ulcere sordide. Il Mattioli è vissuto in un'epoca vicina a quella del De Lauro, perciò le sue note mediche sono particolarmente interessanti. 16. Forse è la marruca (paliurus spinachristi), ma con il nome specifico di manuschristi usato dall'Autore, non si conosce nessuna pianta; c'è, invece, una pianta chiamata mani della Madonna, che è la potentilla reptans, conosciuta anche con il nome di Lonicera al cui genere appartiene anche il caprifoglio o madreselva. 17. E' una pianta delle liliacee di varie specie, la più nota delle quali è la Paris quadrifolia, detta anche uva di volpe, che è una pianta velenosa abbastanza comune in Italia, specialmente nei luoghi ombrosi. Dalle foglie e dai frutti anticamente si estraeva un unguento usato per guarire le infiammazioni degli occhi. II nome della pianta deriva dal mitico eroe troiano invitato a scegliere tra Giunone, Minerva e Venere chi fosse la più bella cui dare la mela d'oro che la dea della discordia aveva lanciato sulla tavola del banchetto nelle nozze di Peleo e Tetide, con la scritta: alla più bella; il frutto della pianta di cui si tratta è, infatti, una bacca simile a una mela circondata da quattro foglie, in cui si son voluti vedere i quattro personaggi dell'antico mito troiano. 18. E', probabilmente, l'hipericon perforatum, detto anche erba di S. Giovanni. E' una pianta erbacea a rizoma ramificato propria delle zone temperate e calde. E' ricca di tannino. I rami fioriti hanno proprietà analgesiche e vasodilatatorie. 19. Nome comune di circa 300 specie di piante erbacee. II nome deriva dal fatto che le sue radici si diramano nella roccia spezzandola: per questa caratteristica si credeva che avesse la proprietà di rompere e far espellere i calcoli renali. 20. E' la cariofillata (geum urbanum), erba rosacea dalle radici che odorano di garofano; le quali, ricche di tannino, si usavano come astringente e medicamento tonico. 21. E' una pianta delle crocifere detta dentaria perché ha il rizoma squamoso (a denti). Si pensava che avesse proprietà astringenti e cicatrizzanti delle ferite. 22. E', forse, la più conosciuta delle piante officinali e certamente la più usata, ancora oggi, anche nella farmacopea ufficiale. Di valeriane si conoscono più di 300 specie, ma le più note sono la valeriana officinalis, detta anche valeriana minore o silvestre, e la valeriana montana o maggiore o ortense. Dalle radici e dal rizoma della valeriana si estrae un olio essenziale comunemente usato per la sua blanda azione sedativa sul sistema nervoso. 23. Così dice il testo, ma è certamente da intendere (erba) peonica, cioè la peonia (peonia officinalis) che non solo è spontanea nei boschi, ma viene anche coltivata nei giardini per i suoi bei fiori simili alle rose. Nell'antica farmacopea si pensava che fosse utile come sedativo e che curasse persino l'epilessia; del resto il nome deriva da Peone, ritenuto, nella mitologia greca, il medico degli dei che aveva guarito Ares, ferito da Diomede, ed Ade, trafitto da Eracle. 24. E' un'erba propria dei luoghi umidi, dal rizoma contorto su se stesso, donde il nome, e ricco di tannino, da cui si ricavava una sostanza astringente. 25. E' un arbusto delle composite (artemisia abrotanum) usata come astringente. Molto noto nell'antichità classica, ne parlarono, tra gli altri, Orazio, Celso e Plinio il Vecchio. 26. Così era chiamato dal popolo il meliloto (melilothus officinalis) per le sue radici filiformi. Ha fiori profumati gialli o bianchi e frutti a legume. Le florescenze venivano usate per le qualità antispasmodiche e diuretiche di cui sono dotate. E' una pianta ricca di cumarina. In certe zone viene coltivata come foraggio per gli animali. 27. Forse l' Autore intende l'agrifoglio (ilex aquifolium) le cui radici sono dotate di qualità diuretiche. 28. L'issopo è una pianta delle labiate (hissopus officinalis) le cui proprietà espettoranti ed eupeptiche erano note fin dall'antichità classica. Ma l'issopo di cui si parla tante volte nella Bibbia non può essere identificato con la pianta officinale di cui qui si tratta, perché questa non è presente in Palestina. La Bibbia parla dell'issopo come di una pianta usata nei riti di purificazione, e pare che sia da identificare con l'origano siriaco. 29. E' la notissima pianta aromatica delle labiate. Ci sono circa 700 specie di salvia; in Italia circa una decina allo stato spontaneo come la salvia pratensis, la salvia verbenacea, la più comune salvia officinalis o maggiore o degli uccelli. Oggi usata solo in cucina, era, una volta, usata come rimedio astringente, digestivo, stimolante e antidiaforetico. 30. E' il polipodium vulgare o felce quercina o felce dolce. E' comune nei boschi e sulle rocce. Il rizoma ha un sapore simile a quello della liquirizia (perciò la pianta è detta anche felce dolce o felce liquirizia) ed ha un'azione emolliente, colagoga e vermifuga. 31. E' appunto il capelvenere (adiantum capillus Veneris) un tipo di felce profumata delle polipodiacee, diffusa, nelle nostre zone meridionali, sui muri e sulle rupi e molto coltivato per la sua bellezza. Veniva usato, una volta, per fare decotti e infusi efficaci a combattere il raffreddore. 32. A varie erbe si dà questo nome. Il nostro Autore vuole alludere, con ogni probabilità, al geranium sanguineum con fiori color porpora o viola, usato nella medicina popolare per le qualità astringenti, vulnerarie e iposecretive. Ma potrebbe anche intendere la digitaria sanguinalis, dal colore rosso-violaceo, comune nei prati e coltivato come foraggio. Ma certamente non poteva riferirsi, perché non ancora conosciuto in queste zone quando lui scriveva, alla sanguinaria canadensis, un'erba, come dice il nome, spontanea nelle pianure del Canada, dalle cui radici gli Indiani d'America estraevano un succo per tingersi la faccia onde difendersi dalle punture degli insetti. I colonizzatori europei li chiamarono pellirosse. 33. E' la scabiosa succisa, un'erba con rizoma che sembra troncato , donde il nome popolare usato dall'Autore. Serviva a preparare infusi e decotti contro eczemi (perciò scabiosa) tigna, broncopolmonite, metralgia e dolori di ventre in genere. Non so perché qui venga chiamata anche palma di Cristo (a meno che non voglia significare che la vittoria, palma, di Cristo è addentata dal diavolo) perché il nome, forse anch'esso di origine popolare, non si trova usato esplicitamente per nessuna pianta. C'è, invece, una palma di S. Pietro, ma è un'altra cosa: indica la palma nana, cioè la camerope, unica palma spontanea nell'Europa meridionale, ma non è pianta medicinale. 34. E' l'erba lunaria o lumaria minore, cioè, il botrychium lunaria. La virtù della pianta è veramente mirabile in sanare le ferite e parimenti tutte le rotture intrinseche ed estrinseche e però molto si loda nelle crepature intestinali. ..Chiamanla sferra cavallo perciochè (secondo che si dice) tutti i cavalli, che la state si mettono all'herba, dove ella nasce, agevolmente si sferrano. (Mattioli, o.c. pg. 436). 35. E' l'erba luparia (aconitum lycoctonum) che si credeva velenosa per i lupi, che numerosissimi una volta su tutte le zone appenniniche costituivano un grave pericolo per le greggi. La luparia era usata per preparare bocconcini mortiferi. Dice il Mattioli (o.c. pg. 504) ...trite le sue radici ammazzano le volpi, i lupi, i cani, i gatti, e tutti gli animali che nascono come ciechi, che se la mangiano con la carne. 36. E' una delle piante più conosciute nella medicina popolare, tanto da diventare proverbiale: conosciuto più della betonica, avere le virtù della betonica. Il nome deriva da Bettones o Vettones, antico popolo della Lusitania, l'attuale Portogallo. E' una pianta delle labiate (betonica o stachys officinalis) comune nei luoghi boscosi ed erbosi dell'Europa e dell'Asia. Fino al secolo XVI e oltre, le si attribuivano le qualità più straordinarie e incredibili. Scriveva il Mattioli: La pianta tutta è dotata d'infinite virtudi... Dicesi che è di tanta possanza che cava fuori ancora le ossa rotte. (o.c. pg. 453) E non solo le si attribuivano le qualità più straordinarie nella cura delle malattie, ma ancora: Custodisce ella l'anime e i corpi degli uomini, e i viaggi notturni dai pericoli e malefici. Assicura e difende i luoghi sacri e i cimiteri dalle visioni che inducono visioni e paure.(Mattioli, o.c. pg. 453). 37. E' una felce delle polipodiacee (phillitis scolopendrium) che era usata come diuretico e sudorifero. 38. E' la dragontea (dracunculus vulgaris) che nell'aspetto del gambo liscio e macchiato fa pensare a un serpente. Secondo il Mattioli (o.c. pg. 302) Il succo del seme distilIato nelle orecchie mitiga i dolori di quelle; messo nel naso con la lana, ne stirpafuori i polipi, e ferma i cancheri applicatovi suso. 39. E' l'angelica officinalis, pianta delle ombrellifere. Dai frutti e dalle radici si estrae un olio essenziale, detto olio di angelica, usato anche nella preparazione di liquori come la chartreuse. Le si attribuivano molte qualità; fra l'altro: Vale nei difetti del cuore; fa ritornare l'appetito perduto; libera da morsi dei cani rabbiosi e parimenti delle serpi. (Mattioli, o.c. pg. 533). 40. E' un'orchidea. II termine, ovviamente, di origine popolare, è dovuto alla forma del bulbo della pianta; è usato ancora in Toscana per indicare vari tipi di orchidea, come il coeloglossum viride, l'himantoglossum hircinum, la platanthera bifolia, e altri. La famiglia delle orchidacee è suddivisa in 20000 specie e 700 generi diversi. Dalle orchidee si estraevano varie sostanze medicinali. 41. L' Autore ha esplicitamente elencato ben quaranta piante officinali, che, dice, con molte altre che crescono colà sono utilissime nella cura delle malattie; e questo ci fa pensare non solo che il posto fosse ricchissimo di specie botaniche di gran pregio, ma anche che queste piante ed erbe fossero trattate e lavorate sul posto, e che, quindi, nel Sagittario, come in tanti altri monasteri, fosse attivo un laboratorio farmaceutico, utile, ovviamente, non solo ai monaci ma anche alle popolazioni dei dintorni. L'elenco è, inoltre, quanto mai utile per avere un'idea della ricchezza della flora naturale in una zona che, ormai, non solo il naturale scorrere del tempo ma, soprattutto, la cieca devastazione degli uomini ha depauperato, in qualche punto, in modo irreparabile. 41bis. In certe zone di collina c'erano interi boschi di castagni, ambiente ideale per l'allevamento di animali allo stato brado. 42. il frutto del faggio é detto faggina o fagginola ed é cibo gradito non solo ai maiali ma anche ad altri animali. 43. Sono tutti alberi che producono ghiande, come notava a proposito dell'allevamento dei maiali, anche il Mattioli: Sono altri alberi assai, oltre alla quercia, all'elice e al faggio, che abbondantemete producono le ghiande, come i cerri, i soveri, le ischie, le farnie... Nelle selve alle lor ghiande s'ingrassano infinitissimi branchi di porci. (o.c., pg. 127). Anche G. Antonini (La Lucania, Napoli 1795) parlando di queste contrade, nota: Le montagne poi sono tutte coverte di faggi, di querce, cerri, elci, e noci; e di varia sorte di cacciaggione abbondano. In alcune di queste montagne, specialmente in quella chiamata dell'Alpi... e nell'altra di Cervati e del Sagittario diversi utili semplici, e rare erbe si trovano (o.c. pg. 26). E in una nota della stessa pagina, specifica meglio: De' semplici della montagna del Sagittario lungo catalogo fa l'Abate De Lauro nella vita del B. Giovanni da Caramola al cap 5. 44. Le quali come si sa, erano di legno, tanto che questa parola in alcuni dialetti della zona (come, del resto, nella stessa lingua letteraria) era sinonimo di nave, così a Senise si diceva u lignu per dire la nave. 45. Termina qui la descrizione della fertilità, della bellezza, della ricchezza del luogo ove sorgeva il Monastero del Sagittario. Anche se, forse, almeno in parte è una visione arcaica e sognata di una specie di paradiso terrestre, non può, tuttavia, essere tutta inventata; almeno nelle linee generali rispecchia certamente la realtà di una contrada oramai, purtroppo, totalmente mutata. 46. E' il racconto, più o meno comune a tanti santuari mariani, dell'origine leggendaria (qui di tipo eponimo) del Monastero del Sagittario che era anche un santuario mariano. 47. Molto efficace e artisticamente ben riuscita questa specie di danza della cerva che, quasi scherzando, guida il cacciatore sbalordito alla scoperta dell'immagine miracolosa che darà origine al Monastero del Sagittario. L'Autore dimentica per un po' l'argomento principale del suo racconto, la vita del Beato, per parlare del Monastero di cui era Abate. 48. Siamo ancora a fatti puramente leggendari circa l'origine del Santuario mariano, ma è senz'altro interessante come nel racconto risulti un fatto ovvio la presenza del Vescovo a Chiaromonte, centro che, pur non avendo mai avuto il titolo di sede episcopale, ha, tuttavia, avuto da secoli un palazzo come sede estiva del Vescovo di Tursi. Quando è stato costruito il palazzo? L'Ughelli (o.c. 103-104) dice che Bernardo Giustiniani (che era stato eletto vescovo di Anglona il 15 marzo 1609 e che morirà a 43 anni a Chiaromonte, ove venne sepolto nella cappella del S.S. Sacramento nella Chiesa di S. Giovanni Battista) restaurò il palazzo presso Chiaromonte, che era quasi distrutto. Se, dunque, nel 1609 il palazzo era, ormai, totalmente rovinato, significa che era già molto antico. Si può pensare, non avendosi in proposito notizie specifiche, che quando, per l'avanzare delle zone malariche, ci si accorse dell'insalubrità dell'aria a Tursi, i Vescovi preferirono, nel periodo estivo, fermarsi a Chiaromonte. 49. Dunque, l'immagine vista dal cacciatore era la stessa che si venerava nella Chiesa Madre di Chiaromonte, dalla quale misteriosamente era passata all'Eremo (ma questo termine non era stato usato nel racconto della cerva) cioè nella zona pro- fonda del bosco ove era avvenuto il miracolo. 50. Anche questi miracolosi spostamenti di immagini sacre sono abbastanza frequenti nelle storie e nelle leggende sulle origini degli antichi santuari. Per quanto riguarda questa stessa zona, si può ricordare l'immagine della Madonna di Orsoleo presso Sant'Arcangelo, che si dice fosse, in origine, nella Chiesa di Carbone, anche se in questo caso si trovano riferimenti storici più sicuri; cfr. L. Branco, Memorie di S. Maria di Orsoleo, Matera 1993, pag. 23. 51. Probabilmente un Boemondo della famiglia normanna dei Chiaromonte. 52. Grancia (o Grangia) dall'antico francese granche (granaio) indicava o un deposito di grano oppure una comunità agraria (una specie di masseria) negli antichi monasteri benedettini. Per Chiaromonte, cfr, in proposito, G. Percoco, o.c. pag. 48. 53. Cencio Savelli, papa dal 1216 al 1227. Approvò gli Ordini Mendicanti di S. Francesco e S. Domenico. 54. Il 18 di settembre. 55. Nota marginale dell'Autore: Hergesiarum Alethia Apologetica, cap. 15, pag 3, Lett: D. 56. E' il cistercense Ubaldo Allucingoli, di Lucca, papa dal 1181 al 1185. Dopo una breve permanenza a Roma fu costretto dall'ostilità dei cittadini a vivere in vari centri del Lazio; e fu proprio in una di queste città, a Veroli, che si recò Gioacchino da Fiore per chiedere al Papa l'autorizzazione a mettere in scritto la sua interpretazione della Sacra Scrittura. L'abate calabrese si trovava, allora, in un monastero molto vicino a Veroli, nell' Abbazia di Casamari, ove fu ospite negli anni 1182-1183. 57. I Conti di Chiaromonte erano di origine normanna e costituirono, per secoli, una delle più illustri e potenti famiglie del Meridione d'Italia. Il primo documento sicuro riguardante la famiglia è del 1099. Cfr., in proposito, L. R. Ménager, Inventaire des familles normandes et franques emigrées en Italie méridionale et Sicile, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo, Bari, 1991, in particolare actes relatifs aux Chiaromonte, pg. 295, sg. Il nome stesso Chiaromonte dato al paese deriverebbe, secondo il Ménanger (pag 303) dalla famiglia che portava già dalla Francia questa denominazione e che fece della fortezza costruita sul colle alla sinistra del Sinni la sua sede in Italia. 58. E' Giacomo Sanseverino conte di Tricarico, che sposando Margherita, figlia di Giacomo di Chiaromonte, divenne Conte di Chiaromonte iniziando, nelle contea, il dominio dei Sanseverino. Il privilegio di cui si parla è del 1320. 59. E' il grande dottore della Chiesa S. Beranardo di Chiaravalle, nato nel 1090, morto nel 1153. Monaco cistercense, riformò l'Ordine, tanto da esserne considerato il vero fondatore. Fondò molti monasteri, primo fra tutti Chiaravalle. Fu scrittore elegantissimo detto, perciò, Mellifluo, e mistico profondo. Ebbe enorme influsso sulla vita della Chiesa (papa Eugenio III era suo discepolo) e sulla politica dell'Europa del suo tempo. 60. L'Ordine cistercense era stato fondato nel 1098 a Citeaux (lat. Cistercium, donde cistercensi) nella Francia Orientale da S. Roberto da Molesme, ma fu animato e reso celebre da S. Bernardo. Casamari è una celebre abbazia nella Diocesi di Veroli nel Lazio, la cui origine risale al 1005, ad opera di quattro preti di Veroli che poi divennero benedettini. Nel 1162, ad opera di Eugenio III Casamari entrò nell'Ordine Cistercense e nella Congregazione di Chiaravalle. 61. Era una moneta d'oro bizantina (donde il nome) in uso in tutto il bacino del Mediterraneo. 62. E' il normanno Guglielmo II, detto il Buono, figlio e successore di Guglielmo I detto il Malo. Regnò dal 1166 al 1189. 63. E' un piccolo centro in provincia di Cosenza a 859 m. sul livello del mare. Fino alla ristrutturazione delle circoscrizioni ecclesiastiche, avvenuta nel 1976, ha fatto parte della vecchia Diocesi di Anglona-Tursi. 64. Nota marginale dell'Autore: Dall'Archivio della stessa Chiesa Episcopale. II documento di cui si parla è riportato da F. Ughelli in o.c., 79. 65. Resse la Diocesi fino al 1253. II documento di cui parla il De Lauro è riportato dall'Ughelli (o.c. 83-84) il quale dice Roberto uomo di costumi egregi e chiaro di ingegno. 66. Ugolino dei Conti de Segni, nato ad Anagni nel 1170; fu papa dal 1227 al 1241. Fu avversario di Federico II che scomunicò due volte: nel 1227 e nel 1239. 67. Il nome potrebbe derivare dal greco siche, che vuol dire fico e ile, che significa, generalmente, selva. Di una terra ton sichelòn si parla in due documenti greci del monastero di Carbone; uno del 1092, l'altro del 1154. Pare che Sicileo sia stato un centro abitato fino agli inizi del sec. XIV (Cfr. B. Cappelli, o.c. pg. 308-309). 68. La famiglia feudale dei Del Guasto era, forse, originaria della zona del Vulture. Reginaldo Del Guasto, signore di S. Marco, aveva sposato Agnese di Chiaromonte, mentre Riccardo, fratello di Agnese, aveva sposato la sorella di Reginaldo. 69. Così, in italiano, nel testo originale. 70. Cioè un miglio e mezzo. Il passo come unità di misura, ha avuto un valore diverso secondo i tempi e i luoghi: il passo romano antico valeva m. 1,479; quello napoletano, prima dell'unità nazionale, m. 1,845; secondo la misura antica, dunque, la distanza in questione sarebbe stata di km. 2,185; secondo la misura del vecchio Regno di Napoli, di km. 2,7675. 71. Ovviamente l'iscrizione originale riportata dall'Autore è in latino; e siccome si tratta di un'iscrizione, naturalmente perduta con la rovina del Monastero, è conveniente riportarla così com'era: HOC MONASTERIUM FUIT FUNDATUM ANNO MCXXXXXII. 72. F. Ughelli, che riporta il documento (o.c. VII, 80) vi premette queste parole: Nell'anno 1200, poco prima dell'elezione di questo presule (si tratta del Cantore della Chiesa di Tricarico, di cui non si conosce il nome) in questa Diocesi, presso la città di Chiaromonte, ebbe inizio la celebre Abbazia dell'Ordine dei Cistercensi, di S. Maria del Sagittario, la cui origine è così descritta in un vecchio documento dello stesso Cenobio... 73. E' un santo martire che, insieme con la moglie e due figli, sarebbe morto al tempo dell'Imperatore Adriano. Di lui non si ha alcuna notizia certa. Secondo un'antica tradizione, era un pagano che, durante una partita di caccia, avrebbe visto un cervo con l'immagine del Crocifisso tra le corna (di qui il riferimento del testo) cosa che lo avrebbe spinto alla conversione. 74. Fu così detto, da Alfonso V il Magnanimo, il regno sorto dall'unificazione del Regno di Napoli con il Regno di Sicilia, dopo la vittoria di Alfonso stesso contro gli Angioini. Alla morte di Alfonso (1458) i due regni tornarono a dividersi: la Sicilia passò a Giovanni II d'Aragona, Napoli ad un figlio naturale di Alfonso, Ferdinando (Re Ferrante). AI tempo di Carlo V, perciò, il Regno delle due Sicilie era già morto (risorgerà con lo stesso nome con la legge del 22 dicembre 1816, al ritorno a Napoli di Ferdinando IV di Borbone); qui, tuttavia, è detto ancora delle due Sicilie, perchè Carlo V, di fatto, aveva in suo potere ambedue i regni. 75. Carlo V ritornava dalla vittoria contro i Musulmani dell'Africa settentrionale, e attraversò tutto il Regno. Circa le accoglienze, che divennero famose, tributategli da P. A. Sanseverino principe di Bisignano, che era signore del feudo di Chiaromonte, cfr. L. Branco, La storia del Monastero di Carbone, o.c. pag. 131. 76. Si riproduce qui fedelmente, così come viene dato dal De Lauro, il
testo originale 77. La sigla è da intendere: Sacra Cesarea e Cattolica Maestà. Il titolo di Re Cattolici fu dato (e rimase, poi, come titolo qualificante ai successivi sovrani di Spagna) dalla S. Sede a Frdinando d'Aragona e alla moglie Isabella di Castiglia quando, con la presa di Granada, il 2 di febbraio del 1492, completarono la Reconquista liberando definitivamente tutta la penisola iberica dalla multisecolare dominazione musulmana. 78. Dai cittadini di detto paese. 79. Si intende su un monte. 80. I quali stupiti. 81. I signori che in quel periodo dominavano. 82. etc. dice il testo, che chiude qui l'unico pezzo, quello introduttivo, riportato della lettera a Carlo V. Il brano, tolto qualche lieve segno di punteggiatura, è stato ricopiato con scrupolosa fedeltà; e rivela, se si paragona ad altri testi italiani dello stesso periodo, una non elevata abilità letteraria nel monaco che lo ha scritto: cosa, del resto, comprensibile se si tien conto dell'estrema perifericità in cui sorgeva il Cenobio, nel quale, certamente, era tenuto in maggior conto lo scrivere in latino che il comporre in italiano. 83. Nota marginale dell'Autore: N. Gregorio Ruffo nella sua storia, pg. 113. 84. Nota marginale dell'Autore: D. Camillo Tutino Napoletano, nell'Opera intitolata Dell'Origine e fondazione dei Seggi di Napoli, cap. 9, pg. 93. Il titolo dell'opera è in italiano nel testo. 85. In italiano nel testo, come anche il titolo seguente e tutto il brano che descrive il miracolo della cerva e il ritrovamento della statua nel tronco del castagno: è la trascrizione che il De Lauro fa del capitolo dell'opera del Viola pubblicata in italiano. Qui si è conservato fedelmente il testo (con qualche lieve ritoccamento in qualche segno di punteggiatura) comprese le maiuscole che noi non useremmo tanto spesso e per i nomi comuni. 86. II palmo era una unità di misura molto comune e variava da zona a zona; equivaleva, più o meno, a 25 cm. 87. Sono cani di forme snelle, velocissimi nella corsa, adoperati nella caccia per inseguire la selvaggina. 88. Nicchia. 89. E' la Grancia di Ventrile già ricordata. 90.
I mulini, sempre mossi ad acqua in queste zone, erano una delle più
sicure fonti di ricchezza. 92. Si chiamavano difese i luoghi ove erano interdetti gli usi civili, cioè ove era proibito andare a prendere legna, raccogliere frutti selvatici, pascolare e cose simili, perché i luoghi erano riserva dei padroni feudali e, come tali, difesi. 93 .Erano così chiamati i monaci che vestivano di nero, perché alcuni avevano il saio bianco altri nero. 94. Che la lunga e, in verità, non proprio necessaria citazione del Viola sia stata qui messa solo perché desse all'Autore motivo di questa sperticata adulazione ad un uomo che, del resto, non ha niente a che fare con l'argomento trattato? 95. Anselmo da Baggio, papa dal 1061 al 1073. 96. Nota marginale dell' Autore: Sopra nella vita del Beato Gioacchino Abate, cap. 15, pag. 38, lett. D. 97.
E' il grande Ildebrando di Soana, papa dal 1073 al 1085. 99. Raniero di Pieda, papa dal 1099 al 1118. Continuò la lotta per le investiture. 100. Guido di Borgogna, papa dal 1119 al 1124. Stipulò con Enrico V il Concordato di Worms. 101. E' stato già incontrato. 102. Di lui l'UgheIIi (o.c.) dice che fioriva nell'anno 1269, in cui confermò secondo le regole alcune convenzioni e patti già stipulati tra l'Abate e i Monaci del Sagittario e Roberto allora vescovo di Anglona, e riporta (col. 86) il documento in questione, stipulato nel Castello di Nocara nel mese di nov. del 1269. 103. Nota marginale dell'Autore: Nel luogo appena citato, pg. 41 lett. B e 42 lett. E. 104. In provincia di Cosenza. Fu antica sede vescovile (sec. X) trasferita, poi, a San Marco Argentano. 105. Centro che fu fortezza di Robertro il Guiscardo. Sede episcopale fin dal sec. XI, fu unita, nel 1818, alla sede di Bisignano. 106. Il 12 ottobre. 107. Lotario dei Conti di Segni, papa dal 1198 al 1216. Assertore della supremazia della Chiesa sul potere politico. 108. Nota marginale dell'Autore: Ibidem, pag. 44, A. 109. Questo Ugo (o Ugone) di Chiaromonte è il nipote di Ugo detto Monocolo (10741102) e di Gimarca; figlio di Riccardo, fu padre, appunto, di Agnese che sposò Rinaldo (qualcuno dice Riccardo) Lo Guasto signore di S. Marco, e di Riccardo che sposò la sorella del conte Lo Guasto. 110. Si diceva Commendatario l'Abate titolare ma non residenziale; abitualmente un cardinale o, comunque, quasi sempre, un nobile, che, senza aver obblighi specifici, percepiva le rendite legate al Monastero. 111. Sono formule che si ripetono, più o meno, in tutti i documenti notarili del medioevo; ma rivelano, proprio nell'uniformità dei modelli, la mentalità cristiana che permeava tutta la società del tempo. Ed è per questo che fanno impressione e danno un certo fastidio nei tempi moderni, ormai totalmente laicizzati e, a livello di vita pubblica, purtroppo, scristianizzati. 112. Così nel testo; questo nome, infatti, come tanti altri, si trova diversamente trascitto nei vari documenti. 113. Il Conte benefattore insiste sull'assoluta indipendenza anche giuridica del Sicileo e sulla piena sua libertà, ma in genere, per tradizione, il fondatore conservava sempre una specie di diritto di protezione sulla Chiesa e sul Monastero che aveva costruiti e dotati: quello che si chiamò il Giuspatronato. 114. Era il necessario perchè potesse andare avanti un'azienda agricola vera e propria come di fatto diventava ogni monastero, e perché si avesse il necessario per vivere in un sistema economico ancora di tipo chiuso e autonomo. 115. Anche queste erano formule consuete negli atti di donazione o di fondazione di opere pie nel medioevo cristiano; come pure le formule di autocondanna in caso di inadempimento dei propositi fatti. 116. E' strano che in questo atto, che è del 1203, si parli di reali. Queste monete d'oro, infatti, saranno coniate da Carlo d'Angiò nella seconda metà del sec. XIII, prima a Barletta, poi a Messina, in sostituzione dell'augustale, così chiamato dall'Imperatore (Augusto) Federico II, che l'aveva fatto coniare nel 1231. Come si può, dunque, parlare di reali, nel 1203? Che sia questo un segno della non autenticità dell'atto? A meno che, per reale, non si voglia genericamente intendere una moneta del Re. 117. E' il piccolo Federico, figlio di Enrico VI di Hohenstaufen e Costanza di Altavilla; il quale, nato a lesi nel 1194, aveva, nel 1203, quando viene steso il documento qui riportato solo nove anni. Ma era, tuttavia, veramente nel sesto anno del suo regno, avendo avuto il titolo di re di Sicilia nel 1196, quando aveva solo due anni. Sarà il grande imperatore Federico II. 118. Rigo vuoto nel testo. 119. Indicava, in genere, una nota, un'osservazione che per attrarre l'attenzione del lettore, era scritta con inchiostro rosso, donde il termine. 120. La fida indicava il luogo e il diritto di far pascolare le proprie greggi. La diffida, la proibizione del diritto di pascolo ad estranei in un dato territorio. 121. Così nel testo, Pellicorio, per Policoro. Di questo territorio si parla in molti documenti non solo del periodo di cui qui si tratta, ma anche di epoche posteriori. 122. La solita introduzione, che, come già notato, si ripeteva più o meno uguale in tutti gli atti notarili del tempo, è, questa volta, più lunga del solito e, in verità, nemmeno completa, perché subito si riprenderà con espressioni più o meno simili. 123. S'intende alla Chiesa del Sicileo che appartiene a Santa Maria del Sagittario. 124. Cioè, Policoro. Il toponimo è certamente di origine bizantina (in epoca greca classica la città che fiorì nella zona si chiamava Siris o Eraclea) Polichoros. Vuol dire spazioso, vasto. La zona, già ricca e fiorente, abbandonata dagli antichi abitanti, perchè invasa dalla palude e dalla malaria, fu di molti proprietari di non facile identificazione, soprattutto per i primi tempi del medioevo, sia per l'incertezza dei confini, sia, soprattutto, perchè quella terra sul mare ma senza alcuna possibilità di approdo per qualsiasi tipo di nave, malarica e tutta coperta di boschi, aveva solo per qualche tratto possibilità di sfruttamento e, quindi, di interesse per qualcuno. Nel 1125 i signori di Chiaromonte, Alessandro e suo fratello Riccardo, confermarono a Nilo, Abate del monastero di Carbone, i privilegi con cui Riccardo Siniscalco e Albereda sua moglie gli avevano donato il monastero di Policoro con i campi e la Chiesa di S. Maria di Scanzano (Cfr. Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, Napoli 1865, pag. 125, XCVII). Nel 1131 gli stessi privilegi vengono confermati da Ruggiero, Re di Sicilia. Si trattava, certamente, non di tutto Policoro, ma di una parte presso Scanzano. L'atto di cui si parla in relazione al Sagittario è del 1214; e siccome Policoro risulta di Rinaldo del Guasto, dobbiamo pensare che lo avesse avuto tramite la moglie Agnese di Chiaromonte. 125. E' il famoso bosco pantano di Policoro, tipica foresta alluvionale, di cui resta solo un piccolo, insignificante ricordo. Fino agli anni '50 del sec. XX , era lungo 7 km. e largo 2. 126. II nome, come il successivo S. Gregorio, fa pensare a qualche stanziamento bizantino. 127. II testo dice per Gigonem Gigonem, che non ho trovato in nessun altro documento e che penso si debba interpretare per passaggio sulle colline, il che ci fa pensare che le terre di cui si tratta non fossero proprio quelle vicine al mare, tutte malariche, ma un po' più verso l'interno. 128. Era l'amministratore dei beni del Feudatario. 129. Doveva trattarsi di qualche canale derivato dall'Agri o dal Sinni per azionare la macina dei mulini, che, in queste zone, erano tutti mossi dall'acqua dei fiumi. 130. Cioè non in monete coniate, ma a peso. Una libbra equivaleva, più o meno, a circa 330 grammi. 131. Questi così detti giudici sono da intendere come membri di quella che oggi potrebbe chiamarsi giuria popolare. Sembra, del resto, che siano tutti analfabeti, perché si sottoscrivono con il segno della croce (segno della mano di...), solo il Vescovo dirà: Io ecc. 132. Così nel testo; è da intendersi signore. 133. Così Policorio, mentre prima s'era sempre scritto Pellicorio. 134. Lettura incerta del testo. 135. Nota marginale dell'Autore: Lo stesso Pietro Vescovo di Anglona,
che intervenne in
questo privilegio come testimone, nell'anno 1219 fu deposto da Onorio II
come profanatore della dignità e dilapidatore dei beni della sua Chiesa. Come
inquisitori dei suoi misfatti, il terzo giorno prima delle idi di novembre, lo stesso Pontefice,
nel primo anno del suo
pontificato, aveva delegato l'Arcivescovo di Cosenza, il Vescovo di
Bisignano e l'Abate
della Sambucina, del nostro Ordine, come si rileva dal regesto dello
stesso Romano
Pontefice. Ma non avendo il Vescovo deposto di che vivere, fu
reintegrato solo in quei benifici che aveva prima che ottenesse la dignità della Chiesa di Anglona; e
questo ottenne per
grazia speciale dello stesso Onorio, come si può vedere dalla lettera
dell'Arcivescovo di
Acerenza, data il quinto giorno prima delle Calende di Aprile, nell'anno
sesto del suo
Pontificato, 319° nell'elenco delle lettere di Onorio. 136. E' Carlo II d'Angiò, figlio e successore di Carlo I; re dal 1285 al 1309. 137. E' Roberto, detto il Saggio, figlio e successore di Carlo II; regnò dal 1309 al 1343. Fu amico del Petrarca. 138. Sorgeva dove, nella prima metà del secolo XVI, da una colonia di Albanesi che fuggivano dalla loro terra occupata dai Turchi musulmani, sarà fondato il paese che porta Io stesso nome. 139. E' una nota di grande interesse per la storia sociale ed economica
di queste zone,
perché parla esplicitamente di una fiera (festa del mercato) che si
celebrava a Senise
nel secolo XIII. E', senza dubbio, la fiera più antica della Regione e
meriterebbe
uno studio e un interessamento particolare. In quei tempi c'erano,
certamente,
mercati un po' ovunque, ma questa fiera di Senise pare che durasse venti
giorni e
fosse molto ricca e affollata. Di fiere di questo tipo si ha notizia,
per quei tempi, in
alcuni paesi della Francia. Sulla fiera di Senise parla ampiamente F.
Bastanzio (o.c.
pg. 43-44) il quale pone il documento che tratta della Chiesa di S.
Costantino al 140. E' il celebre figlio di Federico II e di Bianca Lancia, che fu dal 1250 al 1252, reggente di Sicilia per il fratellastro Corrado IV e poi, dal 1254, per il nipote Corradino; contro i diritti di quest'ultimo fu proclamato re nel 1258. Perciò il nostro documento, redatto nel 1266, dice nell'ottavo anno del suo Regno. Sconfitto da Carlo d'Angiò nella battaglia di Benevento, vi morì nello stesso anno 1266. Dante lo ricorda con parole commosse nel Canto III, vv. 103 sg del Purgatorio. 141. Qui nel testo c'è un'interruzione: ad annos vig. .. che potrebbe essere viginti, cioè venti, ma potrebbe indicare anche un numero superiore. 142. Durando, come già si è detto, venti giorni, arrivava fino ad agosto ed era, per questo, indicata come fiera di agosto; era una delle due grandi fiere di Senise, l'altra era la fiera di maggio: i proventi di questa andavano al principe, quelli della fiera di agosto, all'Università, cioè alla comunità dei cittadini. La fiera di Santa Lucia, sempre a Senise, è nata più tardi. 143. Lo stesso che tari. Era, in origine, una moneta d'oro coniata dagli Arabi conquistatori della Sicilia; pesava circa un grammo. Fu poi imitato dai Normanni e dagli Svevi, ed era comunemente usato nell'Italia Meridionale. Il testo del documento dice che le monete d'oro dovevano essere ben ponderate, cioè di peso giusto; infatti le monete d'oro si falsificavano facendole più leggiere. 144. Ancora oggi, infatti, per enfiteusi si intende il diritto di godimento su un terreno o, comunque, un bene altrui, con l'obbligo di effettuarci miglioramento e di pagare un canone. 145. Nel testo latino c'è un meliore che penso debba intendersi meliorare, perchè abbia un significato; comunque il senso del pensiero è, senza dubbio, quello proposto. 146. Conventus, dice il testo latino, cioè l'insieme dei frati del Monastero. 147. Ogni notaio, a chiusura dell'atto, disegnava un suo monogramma distintivo, uguale in tutti i documenti da lui redatti. 148. Si tratta certamente di Viggianello (Bianellum). 149. Rocca Imperiale (così denominata per il castello fatto costruire dall'imperatore Federico II) fino al 1976 faceva parte della Diocesi di Tursi; ora è di Cassano Ionio. 150. Nota marginale dell'Autore: Dall'Archivio del Sagittario. 151. Si comprende l'importanza della descrizione dei confini per chi volesse interessarsi con particolare cura delle vicende della storia locale; oltre al fatto suggestivo di vedere, dopo secoli, come viva l'attività economica, civile e religiosa di questi luoghi che, pur avendo subito tanti cambiamenti, conservano ancora, molte volte, gli stessi nomi e le stesse indicazioni. 152. Gli Angioini di Napoli avevano la Provenza e Forcalquier per il matrimonio di Carlo d'Angiò con Beatrice di Provenza; tutti gli altri territori per le conquiste di Carlo o perché nominalmente legati alla corona di Napoli. 153. Per alcuni il nome sarebbe una corruzione popolare per Regina pura, per altri (Racioppi, o.c. pg. 63) starebbe per Acinapura e deriverebbe dal greco a-cheinopoieo nel significato di Acheropita, cioè non dipinta da mano d'uomo. 154. Nota marginale dell'Autore: Dall'Archivio della Regia Sicla. 155. E' Carlo d'Angiò (Carlo I come re di Napoli) figlio di Luigi VIII, fratello di Luigi IX, il Santo. Era nato nel 1226; conte d'Angiò e di Provenza dal 1246. Invitato dal Papa Clemente IV, scese in Italia nel 1265. Dopo la sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento, Carlo si impadronì del Regno di Sicilia. La rivolta dei Vespri lo costrinse alla guerra contro Pietro III d'Aragona e lo fermò nei suoi sogni di conquista. Morì nel 1285. 156. Il termine Terra indicava il centro abitato. 157. Si dicevano burgensatici o allodiali i beni liberi da vincoli feudali. 158. Cioè esenti da imposizioni o prestazioni. 159. In provincia di Cosenza; fino al 1976 faceva parte della Diocesi di Tursi. 160. E' Roseto Capospulico in provincia di Cosenza. Fino al 1976 appartenne alla Diocesi di Tursi. 161. Roberto cominciò a regnare nel 1309. 162. II Crati, che dà il nome al dipartimento, è il fiume che bagna Cosenza e la piana di Sibari. 163. E' l'attuale Montegiordano, che negli antichi documenti bizantini era detto Cora lordanu, cioè Terra di Giordano. E' in provincia di Cosenza, ma sul confine calabro-lucano, e anch'esso, fino al 1976, della Diocesi di Tursi. 164. Il castello di Roseto, posto in bellissima posizione sul mare, era stato, come tanti altri, voluto da Federico II; ma quello che attualmente ancora si ammira risale al sec. XVI. 165. Come già notato, desta una certa emozione vedere, dopo circa sette secoli, descritti con tanti particolari i confini delle case in un paesino sul confine calabro-lucano; e potrebbe essere interessante, per gli odierni abitanti del luogo, una indagine specifica sui nomi e sulla pianta stessa del paese antico. 166. Il quale, evidentemente, non sapeva scrivere; né
c'è da
meravigliarsi, perché in
quei tempi, tolti gli uomini di Chiesa, solo pochissimi conoscevano le
lettere. 168. Cioè in beneficio di Signori laici. 169. In italiano nel testo: sono le prime parole del memoriale, scritto in lingua volgare, che l'Abate del Sagittario aveva presentato, contro il Principe di Noia, al Vicerè di Napoli, che in quel periodo doveva essere il Conte di Lemos Ferdinando Ruiz de Castro, che governò dal 1599 al 1601 quando morì. Prima che, il 6 aprile 1603, prendesse la carica il nuovo Vicerè fin Alonso Pimentel de Herrera, Conte di Benavente, tenne l'interinato il figlio del primo Conte de Lemos, Francisco de Castro. Siccome il documento qui presentato porta la data del 14 luglio 1603 e si dice presentato all'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore già Vicerè, è da pensare che questo Eccellentissimo Signore fosse, appunto, il primo Conte di Lemos. 170. II testo dice sentiamus, ma è un evidente refuso per sententiamus. 171. Non si dice che cosa il Principe di Noia debba restituire all'Abate, perché ciò che l'Abate voleva era scritto chiaramente nella protesta presentata al Vicerè, di cui è stato riportato solo l'inizio. 172. Appare evidente che l'Abate Virgallita aveva accluso alla sua protesta un schizzo in cui si evidenziavano graficamente i luoghi usurpati dal Principe. 173. Così nel testo, che, com'è ovvio, cita i luoghi così come la gente li chiamava. 174. Si tratta, probabilmente, di una strada, un tratturo. 175. E', forse, il nome del funzionario o del magistrato addetto a questi atti ufficiali. 176. Il termine è interessante, perché, in genere, non usato, in questo periodo, nell'Italia Meridionale. Qui indica, certamente, una Chiesa per la cura di anime fuori del centro abitato. 177. Sarebbe interessante sapere a quale signorotto locale I' Autore alluda. 178. Di Melfi; fu Vescovo dal 1654. Molto devoto di San Filippo Neri (che era stato canonizzato solo 32 anni prima, il 12 maggio 1622) fece costruire in suo onore la bella chiesa che ancora si ammira in Tursi. Da allora il Santo è Patrono della Città e della Diocesi. Il Vescovo De Luca fu molto attivo; fra l'altro tenne un Sinodo diocesano, i cui atti furono stampati a Venezia nel 1656. Il 7 febbraio 1667 passò alla Diocesi di Nazaret, titolo unito alla sede di Trani e Barletta. Cfr. Ughelli, o.c. VII, 106 sg. 179. Cioè gli uomini periti nel diritto ecclesiastico e nel diritto civile; con termine tecnico si dicevano dottori in utroque iure. 180. Ma già dal 1546 Paolo III aveva unificato i titoli di Anglona e Tursi e fissato a Tursi la sede del Vescovo. 181. Spiegabile, forse, per la particolare situazione qui descritta, non fa bella impressione questo lungo elogio dovuto, certamente, ad adulazione e piaggeria, anche se per un uomo degno e per un buon Vescovo. 182. Si vede che l'otto settembre, festa della Madonna di Anglona, patrona principale della Diocesi, la cerimonia dell'obbedienza dei Parroci al Vescovo. 183. Questo lunghissimo e ingarbugliato periodo tendeva solo a questo: dimostrare che, sebbene quasi deserto di abitanti e con una chiesa in rovina, il centro di Sicileo era, giuridicamente, una parrocchia a tutti gli effetti. 184. Il Monastero del Sagittario era sul confine delle due diocesi, ma dopo la ristrutturazione del 1976, i centri della Diocesi di Cassano che si trovavano in provincia di Potenza, sono passati all'attuale Diocesi di Tursi-Lagonegro. 185. E' Ugo Boncompagni, di Bologna, papa dal 1572 al 1585. E' ricordato soprattutto per la riforma del calendario (1582) che da lui si disse gregoriano. Fu rigido sostenitore della controriforma cattolica. 186. Il 13 di dicembre. 187. Si tratta, certamente, della già summenzionata Valle della Nitria a sud-est di Alessandria d'Egitto, abitata intorno al IV secolo da molti eremiti. 188. E' Giovanni, quarto vescovo di Cassano Jonio con questo nome; resse la Diocesi dal 1316 al 1329. Da Mormanno, dove allora si trovava, il 3 luglio 1325, con una sua lettera annunciava al Papa Giovanni XXII di aver, secondo il desiderio del Papa stesso, pubblicato il processo di scomunica contro Ludovico il Bavaro. Su questo Vescovo Giovanni Cfr. L. Russo, Storia della Diocesi di Cassano al Ionio, Napoli 1967, vol. 111,pag. 59. 189. E' l'attuale Mormanno in prov. di Cosenza. 190. Il dubbio se XXI o XXII è dovuto al fatto che Giovanni XV (papa dal 985 al 996) è ricordato in alcuni elenchi come Giovanni XVI, avendo inserito prima di lui per errore un altro Giovanni XV, donde l'accrescimento di una unità per tutti i papi fino a Giovanni XIX, e la mancanza di un Giovanni XX; ma il papa di cui qui si parla è Giovanni XXII. 191. Il termine è in relazione alla verga fiorita di Aronne (Nm. 17, 16 sg) e al virgulto di Isaia 11,1: un germoglio spunterà dal tronco di Jesse. Maria è il ramo (la verga) bellissimo da cui spunterà il fiore che è Cristo. 192. Il testo è interrotto già nella parola hortamur (esortiamo) di cui è scritta solo la prima parte hort... cui seguono puntini sospensivi, segno che la pergamena originale che il De Lauro leggeva aveva qui un'interruzione o parole illegibili. Per questo la frase che segue non è del tutto chiara. Ma, in genere, tutto il documento è piuttosto confuso e involuto. 193. E' bello questo rispetto vicendevole e il legame stesso del Monastero con la Diocesi, al contrario di quanto avveniva con il Monastero di Carbone, che spesso era in lotta con il Vescovo. 194. Il 7 o il 6 di agosto. 195. E' Giacomo Panvinio (non Panvino come dice il testo) che si chiamò Onofrio quando entrò tra gli Eremitani di S. Agostino. Grande storico ed erudito, era nato a Verona nel 1530, morì a Palermo, a 38 anni, nel 1568. Scrisse, fra l'altro (ed è certamente l'opera cui allude l'Autore) un elenco critico di Papi e Cardinali. 196. In una nota marginale l'Autore, oltre al Panvinio e a Giovanni Villani, il celebre cronista fiorentino, cita vari altri storici che hanno trattato dell'elezione di Giovanni XXII. II quale (J. Duèse) fu in realtà eletto a Lione il 7 di agosto del 1316, dopo che la sede pontificia, alla morte di Clemente V (primo papa avignonese) era rimasta vacante per più di due anni. Fu incoronato a Lione il 5 di settembre del 1316. Come il suo predecessore rimase ad Avignone, ove morì il 4 dicembre 1334. 197. Ed era tempo, perché, in verità, molte delle cose dette, mentre sono certamente utili per conoscere la storia del Sagittario, e non solo, non interessano se non molto marginalmente la vita del Beato Giovanni, che verrà ripresa solo con il prossimo capitolo, per subire, poi, molte altre interruzioni. 198. Cioè del ritrovamento della statua della Madonna nel tronco del
castagno. 200. Allusione ai tanti fatti di guerre che svolsero a Tempe: nel 480 a.C. i Greci vi inviarono diecimila uomini per ostacolare l'invasione di Serse. Nel 336 a.C. i Tessali qui si opposero ad Alessandro Magno. Durante la guerra lamiaca (323 a.C.) vi passò Antipatro. Nel 171 se ne impadronì Perseo, che poi sarà sconfitto dai Romani. L'attraversò anche Cesare poco prima della battaglia di Farsalo (48 a.C.). 201. Certamente per devozione, ma forse anche perché il Sagittario doveva essere pure, come tutti i monasteri del tempo, un centro di lavorazione delle erbe officinali, altrimenti perchè elencarne ben quaranta all'inizio di questo capitolo? 202. Non si dimentichi che il De Lauro era Abate del Sagittario. 203. Il devoto sconosciuto (devotus quidam, dice il testo) è, senza dubbio alcuno, l'Autore stesso, Gregorio De Lauro, che aveva tanta padronanza della lingua latina da comporre qui due esametri che piace riportare nella lingua originale: Pellit, alit, lustrat Regnatrix, Innula Virgo-hostes, natos, castos, arcubus, ubere, flore. Sono veramente belli per robustezza di lingua, per pregnanza di significato, per sicurezza di tecnica metrica, per la simmetrica eleganza nella collocazione delle parole: prima i tre verbi, poi i tre sostantivi che fanno da soggetto, quindi i tre complementi diretti, infine i tre complementi indiretti. Per quanto riguarda, in particolare, la padronanza nell'uso della lingua latina, c'è da notare che l'Autore inventa anche una parola, innula che non si trova registrata in nessun dizionario latino, ma che non è stato difficile spiegare stando, appunto, alla già notata simmetria nella composizione: deriva, certamente, dal verbo alo, che vuol dire nutrire, rafforzato da in. Nella traduzione si è cercato di interpretare con chiarezza il pensiero e di rendere (usando la tecnica detta barbara del Carducci) il ritmo dell'esametro, sacrificando la traduzione letterale: non si è tradotta la parola Virgo=Vergine. 204. E' l'immersione della mente in Dio e nelle cose soprannaturali. 205. Si diceva, in senso specifico, disciplina un mazzo di funicelle intrecciate con cui ci si flagellava; in senso generico si intendeva una severa regola di vita. La severità con se stessi, lo spirito di sacrificio, l'amore della sofferenza sono sempre stati una nota tipica e caratteristica dei Santi di tutti i tempi, anche se in maniera particolarmente chiara soprattutto nei primi tempi della Chiesa (i monaci egiziani ne sono un esempio) e nel periodo medioevale. Anche se oggi non si comprende da parte di molti, non si può, tuttavia, accettare che se ne parli con sufficienza e, soprattutto, che si guardi con un sentimento di disprezzo e di commiserazione ad uomini eccezionali, non solo forti di carattere, ma spesso dotati di alto intelletto e di estrema sensibilità, e capaci di azioni generose a favore dei fratelli più miseri. 206. Nota marginale dell'Autore: Dalla tradizione degli antichi Cistercensi. |