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FABRIZIO LAVIANO
 

da: La Basilicata nel Mondo - 1924-1927
 

 

Son trascorsi tre anni da che nella sua Pescopagano cedeva a un male inesorabile la forte fibra di Fabrizio Laviano. E se noi oggi ci accingiamo a ricordarne la memoria ai nostri lettori, è perché pensiamo sia un dovere far balenare di tratto in tratto a coloro, che son troppo proclivi all’oblio, e frastornati dall’odierno mondan rumore,, la pallida immagine di quelli che non sono più e che pure ben meritarono della nostra nobile Regione. Nobile e così poco fortunata: bisognosa perciò tanto di aiuto, di devota abnegazione da parte dei suoi figli migliori e più operosi.

Molti tra i quali — bisogna pur riconoscerlo — non si sottrassero a questo d­vere, che fu anzi cosi intensamente sentito, e quasi diremmo vissuto, da alcuni.

Fabrizio Laviano rifulse tra questi ultimi.

E invero, la sua esistenza, tutta intessuta di opere e di intensa attività, sembrerebbe vuota e povera se non la si considerasse come avvolta dalla vita e dal nucleo degli interessi del suo paese e della sua provincia. Egli fu di quegli uomini, la cui esistenza si svolse, anzi si prodigò generosamente tutta nell’ambito della loro regione, cui dettero quanto poterono di sé stessi; la cui operosità fu intimamente radicata, con nessi inscindibili, alla terra che li vide nascere e li nutri fanciulli e cui essi consacrarono un amore inestinguibile.

Vicini a lei con la mente e col cuore, pieni della visione perenne delle solitarie colline, delle montagne impervie, delle conche brulle, essi operarono quanto mai avrebbero avuto la forza di fare, se non li avesse spinti la molla cosi potente dell’ amore al “natio loco ,,. Il non cedere ai facili miraggi, a più vaste ambizioni e alla brama di uscire da un ambito angusto per svolger la propria opera in una cerchia più larga, costituì la loro forza maggiore, rese davvero utile la loro esistenza, non disperdendo delle energie preziose, non deviandole da fini e da mete che, spesso, troppo spesso, oggi, non trovano chi ne incarni con amore e con spirito di sacrificio e di personale disinteresse l'ideale necessità.

Colui che oggi ricordiamo fu il più tipico esponente di quella borghesia meridionale, tenera delle memorie e delle tradizioni locali, attaccatissima alla propria terra, di cui non amò varcare i confini: una borghesia, della quale oggi si va perdendo sempre più lo stampo, per lo spirito di novità e di avventura che pervade un po’ tutti, per 1’insofferenza che sembra un segno dei tempi e per la brama di uscire dal proprio nido, oltre gli orizzonti che ricordano la puerizia, e correre incontro alle lusinghe di un falso urbanesimo che ha pure le sue vittime.

Lucano egli fu e lucano egli rimase sino all’ultimo respiro della sua vita semplice e operosa: un amore, il suo, non disgiunto da un quasi inconsapevole orgoglio di appartenere a una forte e rude Regione, ove i figli sopperiscono alla impervia miseria delle sue glebe col lavoro instancabile; ove tutto è frutto di stento e di sacrificio, in una terra non di gioia, non di facili ricchezze, ma di rinuncia silenziosa, dì aspra conquista, di duro, di tenace lavoro. E anche lui fu come gli altri, come tutti, come l’ultimo dei contadini della nuda Basilicata: fu il lavoratore quotidiano e instancabile anche lui, nella sua bella e doviziosa casa, invitante all’ozio e alle mollezze: il lavoratore di tutte le ore, che non conosce tregue, né riposi. E appartenne alla sparuta schiera di quegli uomini che concepiscon la vita come esercizio di doveri ed esplicazione energica dì volontà: uomini che, guidati, quindi, di una austera concezione dell’esistenza, ne sopportano tutti i pesi, soggiacciono a tutte le asperità, si sobbarcano alle rudi consuetudini dell’ azione, non importa se ostacolata e resa difficile dal malvolere e dall’incomprensione degli altri; uomini dimentichi del proprio io, così assorti dalle cure e dalle responsabilità delle quali caricarono i propri omeri, che finiscono col dimenticare sé stessi e si prodigano interamente alla cosa pubblica.

Non vanno dimenticati dalle nuove generazioni, costoro: anzi, il ricordo e il rimpianto tanto più devono ravvivarne la memoria, quanto meno la loro attività fu volta all’utile e al benessere personale.

Nato in Pescopagano nel 1859, Fabrizio Laviano, dopo aver compiuto gli studi in Napoli, presso i Bernabiti prima, e poi all’Università, dove ventiduenne si laureava avvocato, e aver trascorso alcuni anni nella pratica forense, ritornava alla sua Pescopagano che mai più doveva lasciare. E ben presto lì si affermò il suo bisogno di azione, la giovanile ed entusiastica brama di rendersi utile alla cosa pubblica. Sicché quando vi sorse, per iniziativa sopratutto di un uomo, indimenticabile per la sua generosa liberalità, Antonio Quaglietta, la Banca Popolare Cooperativa, Fabrizio Laviano ne fu, dopo qualche anno, il direttore zelante e scrupoloso: direzione che doveva portar quell’istituto ad altezze allora non previste né pur nei sogni rosei di chi lo creò, e di coloro e furon parecchi — che si mostrarono volenterosi e amorevoli coadiuvatori di un tal disegno.

Nel 1895, con la sua quasi unanime elezione a consigliere provinciale, Fabrizio Laviano entrò nella vita amministrativa, e rieletto poi costantemente in ogni elezione ( successiva mai si vide contrastato il seggio da alcun competitore. Fu, la sua, una specie di designazione a vita, che supponeva un unanime consenso, un unanime riconoscimento di qualità non comuni, né discutibili. Consenso più che giustificato dalla operosità e dalla competenza, che Fabrizio Laviano seppe esplicare in quell’ufficio. Egli infatti fu il buon genio del paese, colui che aveva studiato e approfondita ogni questione locale, che alla vana chiacchiera, allo spirito di partito, al pettegolezzo sterile aveva sostituito la virtù dell’opera, un opera sempre diretta, rapida, efficace. Lo si poteva criticare, lo si poteva combattere, e fu combattuto con armi non sempre leali: non si riusciva però ad arrestarlo nella traduzione in atto dei disegni a lungo studiati e maturati. Né si poteva da alcuno negare il suo grande, disinteressato amore del proprio paese, al quale tanto sacrificio donava di sé, in tempo, in danaro, in operosità. Lo si poteva criticare, ma nessuno dei critici poté mai disconoscere la bontà e il suo disinteresse e la purezza delle intenzioni; ed è poi inutile dire che nessuno dei piccoli Aristarchi da piazza senti mai la forza di assumersi i pesi e le responsabilità che egli si assunse e che non gli parevan mai troppo superiori alle proprie energie.

Nel suo instancabile fervore di azione, nella incrollabile sua volontà, egli, durante la sua carica quasi trentennale, nulla trascurò perché Pescopagano divenisse quella che è oggi e quella che sarà in un prossimo avvenire. Quante questioni sollevate, quanti problemi affrontati, quante pratiche, giacenti neghittose e dimenticate negli archivi, egli riprese e furono portati a termine, mercé sua! A lui si deve se Pescopagano fu compresa nella legge governativa del 1904 perché fosse dotata di un acquedotto; a lui se il rimboschimento dei bacini montani, antico desiderio di tutti, dopo la sistematica opera di annientamento dell’albero, divenisse una viva realtà; a lui la sistemazione stradale della nazionale che condurrà a Castelgrande con conseguente risanamento interno dell’abitato; a lui, infine, l’impulso, e non solo platonico, alla istituzione della locale scuola di Arti e Mestieri.

Accenniamo alle opere principali: ma nel suo lavorio diuturno e paziente, egli intese instancabilmente a dipanare tante matasse, a districar tanti nodi, in un febbrile ritmo di vita, quasi egli si volesse affrettare prevedendo l’immatura fine! Né le cariche più cospicue, sopraggiunte dopo, con l’allargamento del suo raggio di azione, che ne fu la conseguenza, valsero a distoglierlo dalla cura dell’ interesse del suo paese; che egli anzi conciliò mirabilmente, con sacrificio di sé stesso, i nuovi doveri con gli antichi.

L’attività e rettitudine spiegata in Consiglio Provinciale 1’avevan già designato presto alla carica di componente della Deputazione Provinciale; sino dall’agosto del 1911, egli fu eletto Presidente del Consiglio Provinciale di Basilicata, ufficio nel quale fu riconfermato con rielezioni unanimi e che tenne sino all’Ottobre del 1920.

Nello stesso tempo egli aveva l’alto onore di far parte del Consiglio Superiore delle Ferrovie dello Stato, carica che accettò il 12 gennaio 1912 e nella quale durò sei anni. Né si poté parlare di una sua riconferma, perché lo vietava il regolamento.

In queste cariche Fabrizio Laviano portò tutto il suo scrupoloso e fervido amore del dovere, non risparmiando sé stesso per disimpegnarle con zelo, mai perdendo il suo tempo, né sperperando altrove le proprie energie; proteso tutto, invece, verso i finì che gli venivano additati dagli uffici che accettava, non alla leggiera, per vuota ambizione, o, peggio, per tornaconto personale, ma pienamente consapevole delle responsabilità che erano implicite agli onori.

Vita non lunga la sua, ma assai feconda di opere; e a tenerla per tale occorre non solo considerare quanto egli compì nel lungo esercizio della vita pubblica; ma anche la sua fatica quotidiana, la somma dei molti interessi a lui affidati, le tante minute, piccole brighe offertegli dai compaesani. La sua casa era meta di un continuo pellegrinaggio di gente, che a lui faceva capo per consigli, per protezione, per incarichi di fiducia. Ed egli, sopraffatto di lavoro, sembrava lieto di averne sempre del nuovo, senza ricuse sdegnose e pigre, tenendo l’occhio e la mente a ogni cosa, nell’ intento di far tutto bene, incurante degli ostacoli, non girando loro intorno, ma affrontandoli risolutamente. Ché non era uomo dalle mezze misure, dai ripieghi accorti; e una volta fissata la meta cui voleva giungere, vi andava diritto, senza dubbiezze e tergiversazioni, con una risolutezza e un coraggio che niente domava.

Non si avrebbe la misura del gran lavoro da lui compiuto durante tutta un’esistenza, se non si pensasse che egli fu, tra l’altro, amministratore zelantissimo della sua proprietà; che diè un impulso rigoroso al suo miglioramento, si che non a torto egli venne tenuto tra i veri benemeriti dell’agricoltura.

“ Pochi ebbero come Fabrizio Laviano — ci si consenta di citar ciò che di lui si scrisse in una pubblicazione nell’anniversario della sua morte — un così tenace attaccamento alla terra, a questa nostra povera e travagliata terra, così spesso ingrata verso chi ne cura con amore e disinteresse lo sviluppo e i processi culturali. Con magnifica liberalità egli profuse opere e danaro per un razionale miglioramento delle sue proprietà: e per conoscer quale sia stata l’opera da lui spesa occorrerebbe far un confronto tra lo stato in cui le ha lasciate alla sua morte e quello in cui gli pervennero dai suoi o furon da lui acquistate. Dove non era che nuda terra, brulla e squallida, egli creò piantagioni, vigneti; dove non erano che fabbricati imperfetti o insufficienti creò case coloniche modello; dove vigevano ancora antiquati sistemi di cultura, più moderni ne promosse con l’introduzione di macchine, di concimi chimici, di usi e di esperienze consone ai tempi ,,

Le sue alte benemerenze agrarie gli valsero numerosi riconoscimenti ufficiali : ben due medaglie di oro, una dell’ Esposizione di Milano del 1906, l’altra del Ministero di Agricoltura nel 1912; e parecchie medaglie di argento per lavori di bonifica, di rimboschimento, per razionale sistemazione di fondi e creazione di case coloniche.

Fu tra i primi, Egli, a meritar l’onorificenza che vìen conferita a coloro la cui vita è palestra e incessante esercizio di opere: sì che la commenda della Corona d’Italia gli giunse alcuni anni dopo che egli era già stato nominato cavaliere del lavoro.

Gli ultimi anni della sua vita furono tristissimi. Corroso da un male implacabile, che insidiosamente ne minava la valida fibra, egli discese a lenti passi la china fatale verso l’alto silenzio, verso la quiete perenne. E allora si vide l'instancabile uomo di azione, il lottatore avvezzo a non piegare innanzi agli ostacoli e alle opposizioni, rassegnarsi quietamente al suo destino, accettarlo senza insofferenza e senza ribellioni. E cominciò una di quelle fasi, così terribili per l'esistenza di un uomo della natura di colui che oggi ricordiamo; fase di rinunzia alla vita e all’azione, di declino delle forze fisiche, mentre, quasi per irrisione, le energie morali hanno guizzi e intuizioni che più penosa rendono la consapevolezza, non sempre celata, del male; periodi di mortificazione, di umiltà, di angosciose vigilie, di lugubri presentimenti... Sentirsi morire a poco a poco, sapersi condannato, mentre si ha ancora tanta voglia di vivere e di operare e si ha la piena consapevolezza che la propria giornata non dovrebbe chiudersi così, a coronar degnamente una vita feconda e operosa; quale strazio, quale tragedia intima inesorabile.

Fabrizio Laviano la visse questa tragedia: ne trangugiò a goccia a goccia l'amaro calice. Unico conforto a tanta amarezza, la coscienza del dovere compiuto, di una vita spesa tutta pel bene e per l'utile generale. E un altro conforto, assai grande, ebbe, che dovè certo temperar di molto i dolori fisici e morali, dei quali egli era il misero bersaglio: quello di aver presso di sé, vigile e soccorrevole, la degna Compagna, alla quale il doloroso capezzale, cui era vicina in tutte le ore, tanto spirito di amore e di sacrificio doveva inspirare, quanto è possibile possa contener anima pietosa di donna.

Fabrizio Laviano si spense il 24 luglio del 1923. Si spense da forte, da cristiano. Nessuna voce turbò il dolore e il compianto dei suoi concittadini.

Ma intorno alla sua bara si fecero il raccoglimento profondo e il consentimento unanime. Tutti, senza distinzione alcuna, sentirono nella sua Terra che, con Lui, veniva a mancare una viva fiaccola di bene e di opera, e che non sarebbe stato facile sostituirlo nel suo posto di combattimento. Si senti da tutti il freddo ed il vuoto che la sua scomparsa lasciava non nella sola Pescopagano natia, ma in tutta la vita della Basilicata, col cui grande cuore materno e dolorante il cuore di Lui aveva tante volte palpitato all’unisono, nelle ore più alte e più gravi del destino, sempre quando si trattava di affermarne un diritto o una rivendicazione, ogni volta che bisognava prodigarsi in sacrificio e in lavoro perché l'ascensione della Basilicata si avvicinasse, almeno di una linea al giorno, alla realtà. Ed è da augurare che perenne resti il ricordo della sua opera e delle sue virtù. Ricordo che è un segno — il segno migliore — della civiltà e del progresso morale di un popolo, ov’esso non mai venga meno per gli uomini migliori, per coloro che meglio del loro popolo incarnarono gli spiriti e le tradizioni.



 

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