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UNA PETRARCHISTA LUCANA DEL PRIMO CINQUECENTO

II quadro generale

Due aspetti emergono con immediatezza dallo studio di Isabella Morra: lo svolgimento della letteratura e la storia della condizione femminile in Basilicata. Entrambi i temi racchiudono, ovviamente, una poliedricità di elementi minori, ma certo non di scarsa importanza, utili per la conoscenza di una fase storica della vita regionale, quale la prima metà del Cinquecento, ancora per tanti versi inesplorata.
La presenza femminile nel panorama letterario italiano del Cinquecento testimonia la rivalutazione effettuata dal Rinascimento dell'uomo in quanto individuo, al di là delle barriere imposte dallo status sociale, dal patrimonio e dal sesso.
Il "petrarchismo" costituisce un connotato essenziale della nostra letteratura del XVI secolo. Ne è promotore Pietro Bembo, che indica il Petrarca a quanti coltivano l'arte poetica, come modello lirico esemplare, in ossequio ai dettami della moda letteraria del suo tempo che presuppone il principio dell'imitazione. "II Canzoniere petrarchesco forniva la tematica poetica, gli schemi metrici, il linguaggio, le situazioni sentimentali, la trama delle immagini, le suggestioni del paesaggio, cioè il repertorio completo per intessere una lirica d'amore o una confessione sentimentale... (1)
In questo ambito si colloca la produzione poetica femminile del Cinquecento (Veronica Gambara, Vittoria Colonna, Tullia D'Aragona, Chiara Matraina, Laura Battiferri, Gaspara Stampa, Isabella Morra), a testimonianza del fatto che "da una situazione feudale piuttosto chiusa e rigida, la presenza femminile si era resa più intraprendente, fino ad esprimere la propria responsabilità etica nelle forme più ardite della poesia" nonché del costume, in quanto indici "di una società emancipata, tra libertina e illuminata". (2)
Nel Cinquecento la Basilicata appare lontana dai grandi centri intellettuali nazionali (come lo sono per esempio Ferrara, Firenze, Roma, o Napoli).
Sostanzialmente isolata dal resto del mondo in cui si consumano i grandi eventi del secolo, essa appare priva di quelle condizioni favorevoli alla nascita di una vita culturale complessa e dinamica. La sua popolazione, dedita per lo più ad attività rurali, svolge soprattutto mansioni di tipo pastorale concentrandosi in piccoli borghi lontani dai luoghi delle attività lavorative ed in centri sparsi privi di strade e di efficienti e rapidi mezzi di comunicazione.
II paesaggio è accidentato, aspro, montuoso, attraversato da fitti boschi, paludoso in alcune zone e malarico.
Alle difficoltà di carattere geografico si aggiungono quelle di ordine politico. Alla fine del 1503, con la battaglia del Garigliano, che segna la vittoria della Spagna sulla Francia, il Regno di Napoli passa sotto il dominio spagnolo. Il Viceregno spagnolo costituisce un esempio di governo fortemente accentrato che opera attraverso una fitta rete burocratica e amministrativa, determinando una autentica "spagnolizzazione" di tutte le province meridionali. La popolazione lucana è pertanto quotidianamente sottoposta all'oppressivo regime fiscale del governo centrale e delle baronie locali. (3)
In una società ridotta all'essenziale il prezzo più elevato lo pagano gli elementi più deboli e le anime più sensibili, come Isabella Morra, che nessuna vela giunse "a liberare dalla mano predatrice e violenta dei feroci fratelli". (4)
Attraverso le strofe in cui canta la giovinezza che si consuma e sfiorisce in una solitudine disperata, la poetessa lucana diviene in realtà portavoce di un messaggio di carattere più universale, che investe l'intera produzione poetica del XVI secolo, al cui contatto "... non si può tuttavia fare a meno di sentirsi avvolti da un'atmosfera di grande civiltà letteraria, che in cima alla sua ambizione tecnica ed espressiva porta un indefinito senso di delusione, di pena, quasi di inadempienza rispetto alla vita". (5)

La famiglia Morra

Le scarse notizie in nostro possesso sulla famiglia Morra ci sono state tramandate da Marcantonio Morra, nipote di Isabella, poiché figlio di Camillo, il più giovane dei suoi fratelli. (6)
II casato dei Morra è tra i più antichi e nobili del napoletano, potendo vantare origini normanne. Il lustro della famiglia viene infatti notevolmente incrementato durante il regno di Ruggero I, dal momento che un suo capitano, Roberto, signore di Morra, dà i natali a Sartorio, il cui figlio Alberto diventa dapprima cardinale ed in seguito, nel 1187, papa, con il nome di Gregorio VIII. (7)
I Morra acquisiscono il feudo di Favale dai Sanseverino, principi di Salerno, cui è stato trasmesso da Ferrante d'Aragona. In seguito ad ulteriori passaggi esso giunge nelle mani di un tale Pantaleone Vivacqua, una cui nipote, sposando Bartolomeo Morra, ne consente il assaggio alla suddetta famiglia. (8)
Agli inizi del Cinquecento (1509) feudatario di Favale diviene Antonio Morra. II figlio, Giovan Michele, sposa Luisa Brancaccio, che gli dà ben otto figli, fra cui Isabella. In base alla legge sul maggiorascato, al primogenito spetta l'amministrazione del patrimonio paterno, nonché la custodia del prestigio del nome e delle tradizioni avite. Seguendo le consuetudini cavalleresche, Marcantonio riceve un'accurata educazione militare. Non vigono particolari consuetudini per gli altri figli, che seguono in genere le proprie inclinazioni, e, eventualmente ne ebbiano l'attitudine, ricevono un'educazione letteraria, come avviene per il secondogenito Scipione, cui si associa Isabella. I rimanenti, ai quali nulla spetta, sono costretti a vivere di caccia, o addirittura di rapina. L'invasione francese del Regno di Napoli nel 1527 trova in Giovan Michele uno dei principali sostenitori. Fallita l'impresa sotto il trionfo delle armi. spagnole, il barone di Favale, per le feroci accuse di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno ed anche signore della vicina Rotondella (le due famiglie sono da tempo in violento contrasto per contrapposti interessi), è costretto a fuggire a Roma, e di qui a Parigi alla corte di Francesco I. In seguito al pagamento di un'ammenda il feudo viene restituito al primogenito Marcantonio, suo unico destinatario. Per Giovan Michele si prospetta la possibilità di un condono, qualora ritorni e si giustifichi; ciò tuttavia non accade, probabilmente per il timore della vendetta del principe di Salerno. Preferisce dunque un volontario esilio, abbandonando la famiglia a Favole. II giovane Scipione, erudito nelle lettere greche e latine e compagno di studi di Isabella, segue ben presto il padre a corte dove giunge a ricoprire il ruolo di segretario di Caterina de' Medici. (9)
L'eco delle sciagure provocate dalle lotte tra francesi e spagnoli è presente nei versi di Isabella Morra. Gli eventi contemporanei hanno infatti una profonda risonanza nella solitudine rassegnata della giovane donna che idealizza la figura paterna assente e ne fa un martire della persecuzione politica. Prova dunque un certo rancore nei confronti di Carlo V, colpevole di "privare il padre di giovar la figlia". (10)

Devozione verso il padre e avversione per il luogo natio

Per il padre la poetessa nutre una sorta di devozione; ritiene che le sia stato sottratto dalla sorte proprio quando aveva maggiormente bisogno di lui:

"Tu, crudel, de l'infanzia in quei pochi anni
del caro genitor mi festi priva,...
Cesar gli vieta il poter darmi aìta,..." (11)

Innocente, lamenta la propria infelice condizione, perché costretta a pagare per colpe altrui:

"I cari pegni del mio padre amato
piangon d'intorno. Ai! Ai! misero fato,
mangiare il frutto ch'altri colse, amaro... (12)

II padre ed il fratello Scipione sono gli ideali interlocutori della poetessa, in quanto ritenuti, per sensibilità, i soli in grado di comprenderla. I fratelli rimasti a Favale, tutti in giovanissima età, risentono infatti dell'assenza di una guida; sono prevalentemente dediti all'esercizio della caccia e si mostrano animati da un tamperamento violento. A tale proposito è interessante notare come la madre compaia una sola volta nei versi di Isabella. II ritratto che ci viene fornito è quello di una donna che vive nel dolore, circondata dai figli ancora troppo piccoli ed incapaci, pertanto, di darle il conforto di cui ha bisogno:

"Bastone i figli de la fral vecchiezza
esser dovean di mia misera madre;
ma, per le tue procelle inique ed ardre,
son in estrema ed orrida fiacchezza;..." (13)

Isabella si mostra preoccupata per l'indisciplina e l'ineducazione dei fratelli, presagendo quale spiacevole conseguenza la perdita dei costumi di cortesia e di decoro trasmessi loro per tradizione familiare:

"E spenta in lor sarà la gentilezza
da gli antichi lasciata a questi giorni,..." (14)

Quale esponente dell'aristocrazia feudale riceve, grazie alla sensibilità paterna, un'educazione letteraria adeguata al suo status sociale, senza prendere parte alcuna al fermento della vita delle accademie. Pur sognando la gloria e facendo propria la concezione della poesia eternatrice, si accosta al petrarchismo per via indiretta, attraverso gli insegnamenti del suo precettore, di cui si ignora il nome. Utilizza pertanto la tecnica poetica esclusivamente come mezzo di espressione del suo animo sensibile e delicato, oppresso da una solitudine disperata, in un ambiente che così descrive:

"...fra questi dumi,
fra questi aspri costumi
di gente irrazional, priva d'ingegno,
ove senza sostegno,
son costretta a menare il viver mio,
qui posta da ciascuno in cieco oblìo". (15)

L'avversione per il borgo natìo, vissuto come luogo di oppressione e limite invalicabile, è una costante del suo breve canzoniere. Infatti:

"I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo piangendo e la mia verde etate,
me che 'n si vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna". (16)

Nutre perciò sogni di evasione verso luoghi più evoluti, dove le sia concesso di conseguire i dovuti riconoscimenti poetici. E mentre spera, al tempo stesso dispera di poter spezzare le catene della sua prigione:

"Se la propinqua speme nuovo impaccio
o Fortuna crudele o l'empia Morte
com'han soluto, ai lassa, non m'apporte,
rotta avrò la prigione e sciolto il laccio..." (17)

Le poetessa sente venir meno la propria giovinezza e, soprattutto, essendo la maggiore dei figli rimasti a Favale, sente drammaticamente gravare su di sè il peso di preoccupazioni e responsabilità superiori alla sua età:

"Quella ch'è detta la fiorita etade,
secca ed oscura, solitaria ed erma,
tutta ho passato qui cieca ed inferma,
senza saper mai pregio di beltade". (18)

Perfino la bellezza e la sensibilità che la natura le ha concesso si rivelano inutili doni che nessuno è in grado di cogliere o apprezzare.

II "leopardismo" di Isabella Morra

Questa riflessione sull'eterno tema del trascorrere del tempo e dello sfiorire della giovinezza accosta, anche a nostro avviso, la poetessa di Favole al dramma vissuto da Giacomo leopardi ben tre secoli dopo a Recanati: (19)

"Quasi romito, e strano
al mio loco natio,
passo del viver mio la primavera". (20)

Oppure:

'... e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e I'allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perde
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o della vita unico fiore". (21)

Pur nella comprensibile difficoltà della comparazione, è possibilie tuttavia parlare di affinità delle tematiche. Entrambi vantano nobili origini, vivono relegati nel proprio castello, in un ambiente familiare freddo e austero l'uno, tetro e desolato l'altra, sottratti ad ogni rapporto con il mondo circostante.
Isabella si ritrae spesso, per esempio, sul monte Coppola avvolto nella solitudine e nel silenzio, così come il Leopardi si ritira sul monte Tabor. Entrambi, sentendosi esclusi dal consorzio umano, si rifugiano nel colloquio con la natura; contemplano il paesaggio circostante e vi proiettano le proprie inquietudini e speranze.
Comune con il Leopardi è, per certi aspetti, anche la concezione della fortuna avversa. (22)
E' unicamente la speranza a sorreggere la poetessa che l'amato genitore possa un giorno tornare a prenderla per condurla con sé a Parigi. Spia, infatti, il mare, in ansiosa attesa di notizie provenienti dalla corte di Francesco I:

"D'un alto monte, onde si scorge il mare,
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s'alcun legno spalmato in quello mi appare,
che di te,_padre, a me doni novella". (23)

E purtroppo ben presto la speranza si trasformerà in disperazione. Isabella lancia allora un'invettiva contro la fortuna, sentita come entità malvagia personificata, artefice delle sue sventure:

"Contro Fortuna allor spargo querela,
ed ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento ". (24)

In Leopardi il senso dell'isolamento si fa più preciso, non è solo malinconia, ma diviene progressivamente impotenza, morte delle possibilità:

"... Che cosa c'è in Recanati di bello?.. Niente... la terra è piena di meraviglie, ed io di diciott'anni potrò dire, in questa caverna vivrò e morrò dove sono nato? ...". (25)
Isabella prova a staccarsi dai beni terreni, e cerca rifugio nella preghiera e nella vita contemplativa, tra le selve ombrose e i profondi silenzi di Favole, dove sembra che il suo tormento possa assopirsi.
Dalla contemplazione della natura e dal ritrovato contatto con Dio (o piuttosto da un'estrema illusione) nasce da una parte una nuova poesia, dall'altra la giustificazione del suo dolore.
Questo stato contemplativo la induce così a sentire lo spettacolo della natura come reiterato messaggio divino. (26)
Diversamente dalla Morra, nel leopardi il sentimento religioso risulta del tutto assente. Sua sola religione è il nulla eterno, (27) e la natura è "...essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui d'ogni genere e specie, ..." (28)

Amore e morte

E' probabile che l'amicizia con Antonia Caracciolo, e, per suo tramite, con il marito Diego Sandoval De Castro, lasci intravedere a Isabella la possibilità di una fuga. (29)
Diego Sandoval De Castro è un nobile spagnolo, nato probabilmente nel primo decennio del XVI secolo, che riceve in eredità il feudo di Bollita (l'attuale Nova Siri), ed è al tempo stesso castellano di Cosenza: (30) "... di nobile stirpe, ricco, di bella presenza, valente nelle armi e nelle lettere,..." si diletta di poesia insieme con altri "elevati spiriti..." camminando "per le belle antiche strade che già da Greci e Latini poeti furori calpestate". (31)
La giovane, assai sensibile, rimane soggiogata dal fascino di quest'uomo che pare incarnare il mito della bellezza, del successo e, soprattutto, della libertà. Eppure, dati i tempi, appare improbabile una fuga in compagnia del Sandoval.
Nel susseguirsi di illusioni e disinganni che caratterizzano la sua breve esistenza, la poetessa spera forse per un istante di sottrarsi alla sua prigionia mediante il matrimonio e compone un sonetto nuziale, invocando Giunone Pronuba. (32)
Ma il sogno della fuga è destinato a rimanere tale.
Anche questa vicenda richiama quella del giovane leopardi, che tenta nel 1819 la fuga, poi fallita, dal "paterno ostello". (33)
Non potendo fuggire fisicamente dalla realtà, il poeta si crea un mondo immaginario da cui nasce la grande poesia dell'Infinito.
Per Isabella invece l'epilogo diviene tragico.
Venuti a conoscenza della corrispondenza epistolare intrapresa con il Sandoval, i fratelli, custodi della giovane in assenza del capofamiglia, non esitano a darle la morte (non prima di averla data al pedagogo, ritenuto complice della relazione illecita con il Sandoval).
Nei versi traboccanti di angoscia che precedono la morte vi è il presagio dell'imminente fine:

"Ecco ch'un'altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o rovinati sassi,
o ignudi spirti di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna...
Upupe e voi, del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d'altro miserando fine". (34)

Sommersa ormai da una solitudine angosciante Isabella ritorna all'unico punto fermo della sua fugace esistenza, a quel padre che dubita ormai di rivedere e di cui non sa che in realtà è morto. Consegna pertanto quest'ultimo messaggio al fiume Sinni: "Torbido Siri, del mio mal superbo, or ch'io sento presso il fin amaro, fa tu noto il mio duolo al Padre caro, se mai qui 'I torna il suo destino acerbo... Inquieta fonde con crudel procella, e dì: me accrebber sì, mentre fu viva, non gli occhi no, ma i fiumi d'Isabella". (35)


NOTE

1 S. BATTAGLIA, Le epoche della letteratura italiana. Medioevo. Umanesimo. Rinascimento. Barocco, Liguori, Napoli, 1969, p. 758.
2 Ivi, pp. 772-773.
3 R. NIGRO,Per un'indagine sulla letteratura lucana. Centri Intellettuali e poeti nella Basilicata del secondo Cinquecento, Ed. Interventi culturali, Bari, 1979, pp. 15-17.
4 G. SOLIMENE, Figure, visioni e leggende in Basilicata, in `La Basilicata nel mondo", Settembre-Ottobre 1924.
5 S. BATTAGLIA, op. cit., p. 759.
6 Familiae nobilissimae de Morra historia a Marco Antonio de Morra Regio Consiliario consc-ripta (Neapoli, ex typogr. lo. Dominici Roncaglioli, 1629), in B. CROCE, Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro, Sellerio Ed., Palermo, p. 295.
7 A. DE GUBERNATIS, Isabella Morra. Le rime, Roma, Forzavi e C. Tipografi del Senato, 1907, p. 3.
8 G. CASERTA, Isabella Morra e la società meridionale del 500, Edizioni Meta, Matera, 1976, p. 53.
9 B. CROCE, op. cit., pp. 296-297.
10 Cfr. La Canzone I (d'ora in poi Canz.), in A. DE GUBERNATIS, op. cit., p. 21.
11 Canz.l, Ivi, pp. 20 -21.
12 Canz.l, Ivi, p. 21.
13 Canz.l, Ivi, p. 22.
14 Canz.l, Ivi, p. 22.
15 Canz.l, Ivi, p. 20.
16 Sonetto III (d'ora in poi Son.), Ivi, p. 28.
17 Son I, Ivi, p. 27.
18 Canz. I, Ivi, p. 21.
19 Su questo aspetto si è infatti soffermato G. CASERTA, op. cit., 86.
20 II passero solitario, 26, GIUSEPPE E DOMENICO DE ROBERTIS a cura di, Giacomo Leopardi. Canti, Mondadori ed. Milano, 1987, p. 157.
21 Le ricordanze, vv. 43-49, Ivi, pp. 292293.
22 Si veda su questo aspetto la lettera spedita dal Leopardi a Saverio Broglio d'Ajano il 13 agosto 1819, cfr. I Giganti. Leopardi, Mondadori Ed. Milano, 1969, p. 5.
23 Son. V, in A. DE GUBERNATIS, op. cit., p. 29.
24 Son. V, Ivi, p. 29.
25 Si veda su questo aspetto la lettera spedita da Leopardi a Pietro Giordani nel 1817, cfr. I Giganti, op. cit., p. 28.
26 Si vedano le canzoni li e III, in A. DE GUBERNATIS, op. cit., pp. 22-27.
27 Cfr. lo Zibaldone, I Giganti, op. cit., p. 102.
28 Cfr. lo Zibaldone, Ivi, p. 101.
29 II biografo Marcantonio Morra ci informa che il Sandoval si serviva del nome della moglie per inviare epistole e versi alla poetessa. Cfr. B. CROCE, op. cit., p. 318.
30 Ivi, pp. 303-304.
31 Ivi, p. 306.
32 Son. IV, in A. DE GUBERNATIS, op. cit., p. 28.
33 A Silvia, v. 19, in GIUSEPPE e DOMENICO DE ROBERTIS, op. cit., p. 15.
34 Son. IX, in A. DE GUBERNATIS, op. cit., p. 31.
35 Son. X, Ivi, pp. 31-32.

tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1994

Autore: Testo di Daniela Laragione

 

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