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NOTE SUGLI AFFRESCHI DELLE CHIESE RUPESTRI DI MATERA

Il fascino esercitato dall'abitato rupestre di Matera ha colpito i viaggiatori, soprattutto stranieri, per la tipologia del paesaggio, da presepe settecentesco, per la splendida visione notturna delle luci disseminate nei Sassi in analogia col cielo stellato, per il paradosso dei morti posti sui vivi, dei sepolcreti, cioè, delle chiese rupestri sovrastanti le grotte abitate. Ma si trattava, ovviamente, di annotazioni emotive estetizzanti, non diversa da quella d'un turista d'oggi.
Le prime valutazioni critiche storiografiche, della fine del secolo scorso, sul fenomeno rupestre di Matera e delle similari aree di terra ionica e della Calabria, individuavano una facies orientale, un trapianto di cultura bizantina dalle regioni anatoliche legittimato storicamente dalla dipendenza della provincia dall'Impero di Bisanzio. Ed a conforto della tesi si accreditava la mediazione dell'ordine monastico dei Basiliani che a Casole, nel Salento, ed al Mercurion, alle pendici dell'Appennino calabro, disponevano di ben due imponenti monasteri, pari alla Montecassino benedettina.
Movente della migrazione basiliana in Occidente sarebbe stata la persecuzione iconoclasta di Leone l'Isaurico. L'insediamento monastico avrebbe introdotto il costume di ricavare in grotte monasteri, laure e asceteri, come in Cappadocia, in provincia anatolica; e di qui l'analogia cappadocena, istituita prima dal Bertaux e confermata poi dallo Jerphanion. E sarebbero stati gli stessi monaci a realizzare, per ovvie ragioni di culto, gli affreschi nelle chiese rupestri.
Il fascino del bizantinismo monopolizzava in senso così totalizzante il fenomeno da diventare un luogo comune tuttora radicato nella coscienza popolare.
Su questo primo assestamento critico è intervenuta durante gli ultimi anni una lettura del fenomeno più articolata, ancorata soprattutto al corredo figurativo delle cripte, e la constatazione di elaborazioni formali non di rado in contrasto con l'ortodossia bizantina.
Si è notato come le Crociate abbiano portato nuovi stimoli di cultura occidentale, ma anche di ribattito orientale in Puglia, che disponeva di scali con l'Oriente, e quindi a Matera, allora integrata alla terra di Bari.
Si sono evidenziate altresì ulteriori sollecitazioni intervenute con la penetrazione benedettina, intesa al recupero alla Chiesa di Roma delle popolazioni greco-ortodosse del Mezzogiorno, in sintonia con i Normanni, portatori anch'essi di cultura occitanica ma mediatori ad un tempo di nuove frontiere culturali dopo la conquista della Sicilia.
Nella fascia costiera della Puglia, da Barletta ad Otranto, l'impatto delle Crociate fu notevole: si costruirono le case-madri dei più potenti ordini monastico-cavallereschi, dai Templari ai Giovanniti, ai Teutonici, con relative sedi ospitaliere e, a Brindisi ed a Barletta come a Canosa, con la tomba di Boemondo, nuovi edifici conformati nel titolo o nella tipologia al Santo Sepolcro di Gerusalemme. Né mancò una partecipazione emotiva agli eventi di Terrasanta, se il ricco Moscufo, nel 1153, offrì al duomo di Barletta, allora in costruzione, un capitello a ricordo della recente conquista di Ascalona. E le chiese si popolarono allora di tombe terragne di cavalieri con la croce incisa sull'omero sinistro.
L'eco degli eventi crociati dovette riflettersi dalla costa all'entroterra, sino a Mottola, a Palagianello, a Laterza, tutti paesi contigui al materano.
Se ne ha testimonianza negli affreschi rupestri, dove compaiono Santi cavalieri con orifiamma e scudo crocesignati, che trafiggono draghi o aspidi con spire attorte fra le zampe del cavallo.
Il drago, simbolo del male, diventa, per estensione, simbolo degli infedeli, dei perfidi "agareni".
I Santi cavalieri Giorgio, Teodoro, Demetrio, Mercurio, Eustachio e Sergio, patrimonio della liturgia greca, per un fenomeno di sincretismo diventano, nella memoria collettiva, in queste terre grecizzate, paladini di una guerra latina.
E si favoleggiava che avessero più volte guidato alla vittoria i Crociati contro i Saraceni. La fantasia popolare aveva, infatti, convertito l'appellativo Il miles Christi", cioè martire e difensore della fede, nel significato corrente di veri soldati guerrieri per Santi che mai avevano avuto in vita una storia militare. E poiché nella gerarchia il rango più nobile è riservato ai cavalieri, questi Santi erano stati promossi a "Cavalieri di Dio".
Matera offre testimonianze dirette di una partecipazione agli eventi di Terrasanta: nel 1097 arruola i suoi militi nell'esercito di Boemondo, nel 1222 accoglie un nucleo di suore profughe da S. Giovanni d'Acri e nel 1268 dispone di un ospizio dei Giovanniti a Picciano.
Il titolo della nuova chiesa dedicata a S. Giovanni sembra evocare il ricordo della provenienza di quelle suore, mentre gli affreschi del Precursore, alle Malve ed a S. Giovanni in Monterrone, suggeriscono una non improbabile correlazione con Giovanniti presenti in città.
E sulle pareti di S. Lucia alle Malve, come nella cripta dell'Ofra, una maestosa presenza dell'Arcangelo Michele calpesta e trafigge il drago.
L'episodio della sauromachia è del tutto ignoto all'iconografia bizantina, e complementare, invece, alla simbologia dei Santi cavalieri. Una conferma della variante intervenuta è a Mottola, nella chiesa in rupe di S. Nicola, dove ad un Arcangelo Michele, solenne, curiale ed ostentato frontalmente, come alle Malve, si contrappone un'altra immagine, più recente, dello stesso Santo, in movimento, di tre quarti ed a passo falcato, visto mentre trafigge le fauci sanguinanti del serpente e regge nella sinistra il globo ove, accanto alla croce consueta, un monogramma recita Christus vincit.. Né è un caso che gli sia adiacente altra sauromachia con S. Giorgio cavaliere crociato.
Ulteriori puntualizzazioni si sono aggiunte partendo dalla constatazione che la gran parte delle pitture rupestri sono da datarsi al sec. XIII e che si rilevano affinità stilistiche ed iconografiche con icone cipriote e sinaitiche coeve.
Si è considerato che con la caduta di Gerusalemme nel 1244 e di S. Giovanni d'Acri, ultimo baluardo crociato, nel 1271, gli ospedalieri di S. Giovanni si rifugiarono a Cipro in attesa della riconquista. Con essi dovettero trasferirsi sull'isola taluni, almeno, di quegli artisti ed atelier che, arrivati in Terra Santa al seguito dei Crociati, avevano lavorato ad approntare fabbriche, opere pittoriche, codici, icone ed argenteria per i nuovi feudi di Palestina, altri tornarono invece in patria e sbarcarono in quei porti della Puglia dai quali erano partiti, e qui offrirono la loro opera, diffondendo nuovi modelli ed immettendo i prodotti della loro cultura, temperatasi alla confluenza di modi occidentali ed orientali.
A questo flusso migratorio si assommarono le importazioni dirette di icone e codici prodotti dai centri ciprioti. Tutte le icone esistenti in Puglia, come è stato giustamente notato, si trovano infatti lungo gli scali dell'Adriatico, soprattutto in prossimità di ospizi crociati o di antichi casali, e spesso la tradizione o le leggende le dicono venute dal mare.
Ma la presenza di icone nell'entroterra - fino a Banzi, Potenza e Venosa - la valenza puramente devozionale e non qualitativa di molte di esse e la loro antica pertinenza a sedi benedettine legittimano l'ipotesi di una duplicazione dei modelli importati, realizzata in officine monastiche pugliesi e lucane, le stesse che disponevano di scri-ptoria per edizioni di testi miniati, codici o rotuli di exultet.
Una produzione monastica, per la verità, è documentata in Puglia e Basilicata assai prima che si verificasse l'esplosione pittorica del sec. XIII attribuita agli eventi ciprioti o greco-palestinesi.
Risulta infatti che nel 1063 e nel 1067 Gerardo, arcivescovo di Siponto, acquistò dal monastero benedettino delle Tremiti due icone in cambio per ciascuna di esse del diritto su un terzo delle saline possedute.
Un altro dato, sempre relativo al sec. XI, è nell'agiografia di S. Nicola Pellegrino, che muore a Trani nel 1094: un cronista contemporaneo riferisce che il Santo sbarcando ad Otranto incontrò una processione di popolo che trasferiva un'icona da una chiesa ad un'altra.
E se ne deduce, almeno per la Puglia, la circolazione di icone sin dal sec. XI ed il loro precoce utilizzo processionale.
I dipinti su tavola offrivano infatti sull'affresco il vantaggio della mobilità e della possibilità dell'uso processionale. Ma tale vantaggio era certamente limitato dall'alto costo dell'oro e del lapislazzulo e dai lunghi tempi di esecuzione del prodotto mentre la pittura murale richiede a volte un'unica giornata di lavoro e minima spesa per i materiali, sicché la constatazione che in Basilicata sopravvivono solo tre icone - a Banzi, Venosa e Potenza - a fronte di ben quaranta in area pugliese, può essere giustificata con il divario economico esistito fra le due regioni.
Al nuovo risveglio di attività pittorica del sec. XIII corrispose, tra l'altro, una cospicua circolazione di modelli iconografici a beneficio di operatori che li utilizzarono sia per icone che per affreschi. Ed è sintomatico che una Hodigitria dipinta a fresco nella chiesa della Palomba, a Matera, ricalchi fedelmente l'icona della Madonna del Bosco venerata a Bologna.
Si avverte, nel complesso, un quadro d'insieme piuttosto variegato fra attività produttiva di monasteri, di artisti greci immigrati - come quel frescante inviato dal metropolita di Corfù (1220-35) alla Badia di S. Nicola di Casole e raccomandato all'igumeno Nectario - o, più generalmente, di artisti latini, rientrati dalle terre d'oriente al seguito di ordini cavallereschi, ed in più di artisti locali, come i pugliesi Paolo da Otranto, Rinaldo e Giovanni da Taranto che avevano atelier in terra ionica.
Una nuova koiné, dunque, fatta di contaminazione fra linguaggi occidentali e greco-bizantini, si verifica, con l'avvenuta crociata, nelle terre d'occidente, oltre che nell'ecumene greco. Un esempio, emblematico l'aveva offerto la corte sveva di Federico II che aveva accolto, senza pregiudizio, greci, musulmani e provenzali, determinando ulteriori componenti della nuova cultura apulo-lucana, alle quali si aggiungerà, con l'avvento degli Angioini, un'inflessione catalana.
Ma quali sono gli elementi bizantini o latamente occidentali che possono aiutarci a decrittare prodotti ibridati, quali gli affreschi o le icone del '200?
L'arte bizantina è essenzialmente liturgica e come tale condizionata a perpetuare una tradizione di segni, di immagini e di significati che subiscono nel tempo modificazioni appena sensibili: così che è difficile, se non occorrono dati esterni, formulare l'esatta datazione delle opere o ricostruire identità di mano sulla base degli stilemi bizantineggianti.
D'altra parte le immagini erano destinate al culto e non era consentito all'artista di firmarle: si riteneva, infatti, che fosse la volontà divina a guidare la mano del pittore. Per molte icone della Vergine si favoleggiava addirittura che fossero state dipinte da S. Luca ed altre, con l'effigie di Cristo, erano considerate acheropite, cioè non eseguite dalla mano dell'uomo. Ed è sintomatico l'uso del fondo oro, colore che, non esistendo in natura, si associava ad un significato sovrannaturale.
Negli affreschi, lo spazio entro cui si cala (immagine era evocato in senso virtuale da tre zone di colore, di cui la prima in basso ha significato di pavimento, la mediana finge un piano verticale, e l'ultima, sempre azzurra, allude al cielo, un processo di astrazione che tende a ribaltare sul piano la terza dimensione. Analogamente, alla figura umana era negata ogni evidenza corporea o di movimento: la divinità, infatti, non ha spessore fisico ed è immobile per l'eternità. Entro questa disciplina rigorosa si era cristallizzata per secoli l'arte bizantina, non concedendo agli artisti alcuna libertà iconografica e strutturale.
Quando, poi, si parla di novità occidentali è da pensare, per molte opere, a modeste innovazioni, quali un'incipiente naturalismo espresso dal rilievo, dal chiaro-scuro, dal movimento limitato, talvolta, a semplici cadenze nelle vesti; al modo di benedire alla latina: ad un suggerimento d'ambiente introdotto con archeggiature su esili colonnette per l'alloggiamento dei Santi, visti, perciò, quasi entro un portico; alla novità di decorare i nimbi con sviluppo di racemi vegetali o con rilievi a pastiglia dorata; o, infine, a cornici che inquadrano l'immagine del Santo e ne accolgono storiette agiografiche. Ed è da tener conto che il pantheon bizantino si allarga con l'immissione di Santi occidentali - Eligio, Martino, Leonardo e gli archimandriti latini, Benedetto, Francesco e Domenico - e con la creazione di nuove e più libere iconografie.
Interviene persino qualche aggiornamento al mondo contemporaneo, come può vedersi nei Santi cavalieri che vestono cotta d'arme e lunghe tuniche e recano scudi a mandorla crocesignati, ricalcando colori e divise degli ordini cavallereschi, o nella S. Barbara in S. Nicolò dei Greci a Matera: donna di corte, come la Sigilgaida Rufolo di Ravello, che ostenta orecchini a catenella, capelli intrecciati con nastri perlinati ed un velo frontale desinente in due fimbrie sfrangiate.
Ma queste attenzioni alla realtà del tempo sono (spesso sporadiche digressioni; non sovvertono il sostrato iconico dominante. Per cui, come si è detto, ogni precisazione cronologica resta opinabile e per una stessa opera si hanno non soltanto dispareri di datazione ma anche differenti opinioni sulle componenti culturali, troppo spesso ravvisate in aree lontanissime, quali la Cappadocia, la Macedonia o la Palestina, anziché nel più vicino contesto ambientale e regionale.
La tesi del ribattito crociato chiarifica, infatti, solo in parte il fenomeno della pittura apulo-lucana del sec. XIII. Ed è perciò da ribadire che le innovazioni apportate da quel ribattito si assommarono ad importazioni di cultura occidentale e ad un tempo si innestarono sulla vivacità, naturalezza e libertà di linguaggio proprie delle illustrazioni di rotuli e codici miniati degli scri-ptoria pugliesi o espresse, già nel secolo precedente, nei tappeti musivi.
In questo ambito di sollecitazioni occidentali, siano esse franco-sveve o catalane, sono gli affreschi di Casaranello, della metà del sec. XIII di un pittore svevo-meridionale, come quelli del 1280 del cosiddetto "Maestro dei martiri", un catalano che interviene nella grotta di S. Margherita a Melfi, gli altri della stessa età in S. Antuono ad Oppido Lucano, con rimandi sia alla Catalogna che alla Provenza angioma, o, infine, i lacerti, ugualmente aragonesi, recuperati dalla chiesetta di S. Giovanni a Vietri di Potenza.
Un'ulteriore testimonianza eversiva dal dogmatismo bizantino è rinvenibile anche, nella cripta dei SS. Pietro e Paolo a Matera nel noto affresco della "Visita di Urbano II".
Escludendo ogni riferimento storico a quell'evento -perché il personaggio in cattedra non è un papa ma è un vescovo, santo e per giunta greco, a giudicare del pastorale a "tau", così come il prelato che gli rende omaggio, con mitra ortodossa- la singolarità è tutta nella struttura narrativa, nella profondità di campo e nell'insolita presenza di un paesaggio urbano. Ma a temperare l'abiura dai canoni bizantini, ecco che il pittore introduce, con sicuro raccordo alla scena precedente, una Vergine orante, tutta iconica e tutta chiusa nel suo manto di porpora.
La stessa festosa tavolozza, ma con più accentuata esuberanza decorativa, si estende sull'affresco dell'arcone adiacente con due imberbi arcangeli turiferari che affiancano una più tarda Hodigitria, e sono quasi sommersi dalla sontuosità dilagante delle vesti preziosissime.
Il nostro frescante è sicuramente di estrazione locale: corsivo ed estemporaneo, è disattento al dettato iconografico fino ad omettere per gli arcangeli il tradizionale attributo del globo crocesignato e per la Vergine i monogrammi consueti, o per l'episodio della "Visita" i nomi dei personaggi rappresentati, rendendo impossibile la loro identificazione.
È d'altra parte prematuro ipotizzare che al ribattito delle Crociate, sia pure con l'implicazione di diversificate componenti culturali, si debba effettivamente un incremento notevole nella produzione pittorica del sec. XIII in Puglia e Basilicata. Non è improbabile che il fenomeno vada, infatti, ridimensionato, nella sua apparente esplosività, alla luce della considerazione che quasi tutti gli affreschi sono palinsesti, e coprono pertanto dipinti, non sappiamo quanto numerosi, di epoca precedente, che solo occasionalmente riaffiorano per caduta dell'intonaco sovrammesso.
Per Matera si possono indicare almeno tre esempi di casuali recuperi e per tutti la qualità è particolarmente alta e la datazione va certo al sec. XII.
Dal sottostrato di una Madonna col Bambino, in S. Giovanni in Monterrone, si affaccia la testa infuocata e spettrale di un presunto S. Andrea. L'immediatezza dell'esecuzione, ma soprattutto l'intensa penetrazione psicologica, denunciano per l'ignoto iconografo vocazioni naturalistiche di stampo latino.
Altro reperto di ugual natura si trova su un pilastro di S. Maria alle Malve, al di sopra dell'affresco col S. Gregorio. È un santo a metà busto, forse un S. Nicola, realizzato con una sommaria stesura cromatica, ma con un'intensità espressiva, quasi ritrattistica, da ricordare un antico filosofo ellenistico. Lo caratterizza un'estrema economia cromatica: l'azzurro d'Alemagna per il fondo dilatato, con un pentimento nel tracciato dell'aureola eccentrica, e l'ocra che dilaga dal viso alle vesti.
L'ultimo documento è su un pilastro esterno della chiesa, ora sub-divo, di S. Nicola dei Greci: vi è una terna di Santi in cui la figura centrale di un apostolo si sovrappone a due pudiche e spaurite Sante Vergini.
E rimasto accantonato nelle più recenti indagini sulle chiese pugliesi l'interesse all'individuazione di nuclei omogenei di opere da assegnare ad uno stesso artista o alla sua cerchia. Eppure non possono concepirsi autori di un sol affresco, poi scomparsi nel nulla o al limite fermati; ad operare in un unica cripta.
Alla fine del sec. XIII in terra d'Otranto operavan due pittori di prestigio Giovanni e Rinaldo, entrambi tarantini.
L'unica opera che, per firma, era sinora assegnata a Rinaldo è il grande affresco del "Giudizio Uni versale" in S. Maria de Casale a Brindisi, eseguito entro la prima decade del '300.
Ma un altro analogo affresco è stato scoperto di recente sulla parete della navata sinistra del duomo di Matera.
Può supporsi che Rinaldo abbia sviluppato lo stesso tema prima a Matera alla fine del secolo e poi a Brindisi. L'ipotesi, acclarata da identità stilistica, è confortata dalla vicinanza di Matera a Taranto e dalla dipendenza feudale della città lucana dal principato jonico. L'ubicazione dell'affresco materano, su una parete della navata anziché su quella di retrospetto, come in tutte le chiese dove il "Giudizio" è rappresentato, è però insolita. Deve supporsi che la controfacciata risultasse interamente impegnata da precedenti affreschi: certo è che da quella parete proviene l'immagine della "Madonna della Bruna" che, in origine una Hodigitria a figura intera, era stata poi staccata, in parte, a massello dal muro, nel 1576, ridotta a dimensione di un'icona e destinata ad essere collocata su un altare.
Il fascino ed il valore liturgico di un'icona era certamente più alto di un'immagine murale. Sicché sempre a Matera, nella chiesa della Palomba, a un muro residuo di una precedente chiesa rupestre demolita, con affreschi della "Vergine col bambino e Santi", venne addossato il nuovo altare maggiore che lascia intravedere, inquadrata da un'edicola, solo la "Madonna" col figlio, ridotta appunto a dimensione d'icona. La "Madonna della Bruna" fa parte, con la Galattotrophousa (Madonna del latte) e con un lacerto di "S. Gregorio", affrescati entrambi nella chiesa rupestre di S. Lucia alle Malve, di un gruppo omogeneo di opere da ritenere anch'esse produzione di Rinaldo da Taranto nell'ultima decade del '200. Lo caratterizza una correttezza formale, una finezza disegnativa ed una naturalità espressiva, che, almeno nelle scene infernali del "Giudizio", consente al pittore, in deroga alla sua tenuta accademia, brani narrativi ed aneddotici di gusto vernacolo.
Si è già citato, per le connotazioni dell'acconciatura e dei gioielli, l'affresco della "S. Barbara", in S. Nicolò dei Greci. Ma va notato che all'icasticità, quasi ritrattistica del volto non corrisponde altrettanta novità nello sviluppo d'insieme dell'immagine omologata alla consueta ostentazione della crocetta astile impugnata dalla destra ed al gesto di devozione della sinistra, con il palmo della mano aperto e le dita distese.
L'impetuosa vivacità fisionomica della Santa si spegne alquanto nell'affresco adiacente con la figura di un "S. Pantaleone", nello stesso gesto di devozione, che ha un'aureola vermicolata con girari, all'uso cipriota, e regge con la mano sinistra una tasca di cuoio da cui sporgono due ampolline, come attributo della sua professione di medico: dettaglio connotativo non comune per l'anonimato bizantino, che di solito affida la possibilità d'identificazione alle scritte esplicative. A completare il trittico si è poi aggiunto un più tardo "S. Nicola", però di altra mano e di qualità più bassa.
L'autore, che eseguì i due primi pannelli votivi ai primi anni del '300, non ha altra testimonianza nell'ambito dei Sassi; lo si ritrova però ad Altamura in S. Angelo alle Formelle in un lacerto di affresco che ricalcala "S. Barbara".
Sempre in S. Nicola dei Greci, sulla parete di un abside parabolica, si distende un vasto tabellone con la "Crocifissione" che nel "Cristo patiens" e nella falcata del suo corpo denuncia risentimenti, sia pur tardivi, di fatti assissiati, in verità apparsi dieci anni prima in una "Crocifissione" già in S. Francesco di Tricarico. E per il resto rimanda a persistenze di stilemi bizantino-orientali, assimilati in pieno '300 da un pittore di estrazione popolare, che affida ai simboli del sole e della luna, nei due dischetti laterali alla croce, profili barbuti e caricaturali ed un terzo, ispido e sarcastico, lo pone nel soppedaneo a sostituire il tradizionale teschio di Adamo. Infine, per ingenua spinta devozionale, fa sbocciare fra il Cristo e i dolenti, Giovanni e Maria, tre gigli per parte.
Un artista colto, di forte personalità e di convinta cultura bizantino-paleologa è, invece, il "Maestro detto della Madonna della Croce", dall'omonima chiesa rupestre, dove affresca sul catino absidale, negli ultimi anni del sec. XIII, una "Madonna Regina" (Kyriotissa) venerata dagli arcangeli Michele e Gabriele.
La Vergine, regalmente assisa in un trono a lira, ostenta sulle ginocchia il Redentore benedicente. Ma una fissità severa, iconica, distingue entrambi, espressi in una assialità e frontalità rigorosa, quasi liturgica. Il gesto benedicente del figlio sa di imperlo ed il rotulo è impugnato come un bastone di comando. Alla potenza statica e matronale della Vergine fa contrasto la sollecitudine degli arcangeli, che avanzano a passo svelto, agitando turiboli e presentando, quali insegne del loro rango, i globi crocesignati.
L'affresco discende da un modello aulico e lo confermano le repliche coeve della chiesa rupestre di S. Lucia a Brindisi e delle icone della Madonna dell'ldria a Venosa. Ma se il modello fa testo per il gruppo centrale, l'integrazione degli arcangeli riflette una personale elaborazione. Ed è qui che meglio si percepisce l'orientamento paleologo dell'artista: nel vitalismo dinamico, nella secchezza dei corpi longilinei, nelle vesti aderenti ed a panno bagnato con annodature di pieghe, nelle ali scheletrite ed allungate come roncigli. E va detto che in quegli anni la ventata paleologa toccava anche gli affreschi di Anglona.
Allo stesso artista, apparteneva un'altra Kyriotissa, già nella chiesa rupestre della Madonna delle Tre Porte.
Dell'affresco, ora distrutto, sopravvive un lacerto con il volto della Vergine, staccato brutalmente da un vandalo e poi recuperato.
La qualità assai alta dà ragione agli entusiasti apprezzamenti del Diehl, che poté vedere il dipinto ancora integro, lo giudicò "di eccellente fattura", avvicinandolo, "in maniera notevolissima alle Vergini di Cimabue", e riferì, da un'iscrizione da lui letta, che offerente ne era un tal Simeone. Certo che, a giudicare dal frammento pervenutoci questa kyriotissa era assai più fine e più nobile, almeno nella stesura cromatica dell'altra nella Madonna delle Tre Porte, e, a differenza di quella, accoglieva nell'aureola perlinata il racemo decorativo, addebitato ai modelli ciprioti.
Altra opera attribuita al nostro iconografo è il monumentale "S. Michele Arcangelo" che è nella chiesa rupestre di S. Lucia alle Malve, in una nicchia adiacente all'affresco della "Madonna del latte" (Galattotrophousa).
È una figura ieratica, smilza ed allungatissima tutta frontale e fasciata di loros fittamente decorato. La ricchezza suntuaria dell'abito regale, la gestualità solenne, da basileus, la sacralità nell'affermare la sua potenza sul dragone ai suoi piedi le conferiscono una valenza visionaria.
Probabilmente ancora da Taranto proviene il Maestro che affresca in S. Giovanni in Monterrone il dittico con gli "Apostoli Pietro e Giacomo".
L'impetuosa presenza, l'impianto solenne e monumentale dei due Santi, la loro vitalità, da la misura delle novità del nuovo corso da lui introdotto: quello stesso indirizzo che in quegli anni dava forme nuove alla fabbrica romanica del Duomo. E sembrano questi gli esiti più genuini di una cultura federiciana che nella prima metà del secolo si era esercitata al recupero di naturalità classica persino nel ritratto considerato come specchio del vero.
Non può negarsi, infatti, per i due apostoli né una caratterizzazione fisiognomica né un'evidenza plastica, con un naturalismo esteso alle cadenze delle pieghe, che nelle vesti assecondano il rilievo dei corpi e si movimentano con rigore di verità.
Il nostro è in attività negli stessi anni del "Maestro della Madonna della Croce" e di Rinaldo da Taranto, ma si contrappone ad entrambi per un deciso distacco dalla matrice bizantina e per chiara adesione alle novità occidentali.
Pur tuttavia non mancano nell'affresco del Monterrone residui tradizionali di natura iconografica, quali lo spazio di fondo ancora definito con tre zone di colore, o le novità venute da Cipro, come l'inserimento delle figure entro archi su colonnette o l'impiego di lettere cufiche nell'ornato dell'archivolto e nelle orlature delle vesti.
Di lui non si conoscono altre opere. Il suo sconvolgente messaggio di modernità è recepito, ma solo in parte, dall'affresco, sempre al Monterrone, del "Precursore", un'effige monumentale e possente ma declinata in sermo volgare. E non è solo il dettato morelliano della cornice marmorizzata a confermare la dipendenza dal modello degli "Apostoli" ma l'intensa espressività del volto, lo slargo poderoso del collo taurino e villoso, la libertà inventiva di un pallio vescovile indebitamente assegnato al "Battista" e per giunta annodato e strizzato. La figura si distacca sopravanzando dai limiti della cornice con l'aureola dilatata e con i piedi enormi e villosi.
Al di là dei valori formali e la carica espressionistica e contadina ad avvicinare il "Precursore" al vivace naturalismo dei due "Apostoli".
Nella chiesa rupestre di S. Vito Vecchio a Gravina vi è una replica del modello materano che non solo riproduce le archeggiature a loggiato con una teoria di Santi, ma addirittura fa un puntuale ricalco delle stesse cifre cufiche e di altri minuti dettagli decorativi.
Ma alla plasticità vitalistica dell'affresco materano qui si sostituisce una festosa cromia ed una liricità disegnativa.
Non è possibile esemplificare tutte le altre testimonianze del patrimonio pittorico dei Sassi. Non vorremmo però trascurare quell'anonimo iconografo che sempre al Monterrone, a cavallo dei due secoli, lascia il brano dell'"Annunciazione'', di fronte all'affresco dei due apostoli. Ed è lo stesso autore dell'Hodigitria, cui s'è già accennato, della chiesa della Palomba.
I suoi epigoni interverranno poi in S. Maria della Vaglia ove intorno agli anni trenta affrescheranno una tarda "Deesis e gli angeli turiferari".
Per tutto il '400 ed il secolo seguente le chiese rupestri continuarono ad arricchirsi di affreschi e spesso, come già si era verificato in S. Lucia alle Malve, furono chiamati a decorarle gli stessi maestri che operavano in quelle sub-divo della Civita, ad ulteriore conferma della pari dignità attribuita sia alle une che alle altre.
Il Gotico fiorito ha nel corso del sec. XV almeno due personalità emergenti nell'ambito materano: il "Maestro di Miglionico" ed il "Maestro dei pastori".
Il primo è impegnato, in tempi successivi, in S. Maria de Idris, nella chiesa rupestre delle Tre Porte e infine nella cappella dell'Annunziata in S. Pietro Caveoso.
La sua cultura accoglie sollecitazioni sia dal Viterbese che dalla Campania. All'Idris egli copre un'intera parete con pannelli votivi, assemblati in un enorme ed irregolare tabellone, introducendo qualche novità prospettica e rinascimentale, ma spesso ripetendo, su richiesta, icone tradizionali. E denuncia uno stile asciutto e calcolato più che negli affreschi delle Tre Porte, dove è corsivo, fluido e sciolto nell'impostazione delle immagini. Il suo repertorio, intanto, va caricandosi di orpelli decorativi, con stampini e lustri, che impreziosiscono vesti e panni da parata nella cappella in S. Pietro Caveoso e che si accentueranno ulteriormente negli affreschi della chiesetta della Trinità a Miglionico, dalla quale gli deriva l'appellativo.
L'altro frescante, assai più colto, lascia sull'iconostasi di S. Barbara due splendidi pannelli: una preziosa "Madonna con Bambino" ed un'aristocratica "S. Barbara". È detto "Maestro dei pastori" per via di una scena bucolica nel riquadro accanto alla Santa, in cui un mandriano col gregge prega, pentito della sua delazione, causa del martirio della vergine Barbara.
Allo stesso pittore tocca un S. Antonio abate nella cripta dell'omonimo "Convicinio".
L'esuberanza decorativa delle larghe cornici e il frequente uso di stampini, estesi alle stoffe con eleganze formali e compiaciute cadenze di pieghe, evidenziano un artista educato sui modi veneto-marchigiani, refluiti, verso la metà del secolo, in Puglia, dove gli è stata riconosciuta una precedente attività pittorica.
Le addizioni cinquecentesche di nuovi affreschi nelle chiese rupestri sono documentate dalla chiesa "degli Evangelisti" e da quella di "Cristo alla Gravinella".
La prima, datata 1536, ha una serie di "Santi" contenuti entro specchiature architettoniche e nel soffitto oculi con gli Evangelisti. Li dipinge un anonimo Maestro, autore di un polittico in S. Pietro Caveoso.
Scompartita con uguale rigore sulle pareti come nel soffitto è l'altra, detta di "Cristo alla Gravinella", che accoglie repertori figurali attinti da Simone da Firenze e potrebbe datarsi, come la precedente, al terzo-quarto decennio del '500.
Per le età successive non si hanno personalità artistiche di rilievo né opere di spicco nell'ambito dei Sassi, anche se le pareti delle chiese rupestri continueranno ad offrirsi a pitture votive, assai mediocri e sempre più popolaresche.
Lo scadimento qualitativo va di pari passo con l'inevitabile declino e l'inizio del degrado per progressiva sconsacrazione e successiva destinazione a stalle, ovili e depositi di derrate.
L'augurio di tutti è che la ripresa di tutela e di studi sul patrimonio figurale ed architettonico dei Sassi valga a restituirli alla loro dignità di testimonianze nobili non solo di storia materana, ma di una civiltà rupestre estesa all'intero bacino orientale del Mediterraneo.

L'autore intende ringraziare la dott. Anna Grelle per aver collaborato alla redazione e alla revisione del testo.

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tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie"

Autore: Testo di Sabino Iusco

 

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