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ISABELLA MORRA “POETESSA DELLA MORTE”

da: "La Basilicata nel Mondo" 1924 - 1927

Insieme con Vittoria Colonna la gentile poetessa, che Michelangelo amò e alla cui grazia ispiro il suo genio, nel dipingere il volto della Sibilla,— e con Gaspara Stampa, fervida e geniale cultrice di umanesimo, amica di pontefici e di artefici, di principi e di poeti Isabella Morra, tragica creatura lucana, conclude la triade delle grandi poetesse italiane del secol d’oro. E se la marchesa della Pescara rimane la classica poetessa del mito storico ed umano del Rinascimento italiano e del secolo di Leone X, che trova solo riscontro nello splendore artistico del secolo ellenico di Pericle e di quello romano di Cesare Augusto e Gaspara Stampa è considerata ancor oggi come una delle più complete nature liriche di quella età inimitabile; Isabella Morra, dolente creatura lucana, appare alla nostra anima torbida, inquieta, mutevole e profonda di uomini moderni, come una delle più personali artiste del suo tempo.
A due secoli dal Petrarca, prima del decadentismo e degli arcadi, ella riprende, infatti, la lirica italiana, che, dopo Dante, Francesco Petrarca e Francesco di Assisi, si era isterilita e dissanguata nello stolido istrionismo pappagallaio dei petrarchisti, le infonde la propria anima, la propria personalità, fatta di tormento e di desiderio, la avvia verso la sua forma e la sua sostanza definitive. Isabella Morra precorre direttamente la lirica moderna, in quanto poesia lirica, è, essenzialmente, espressione commossa, individuale, personale, di uno stato di animo o di una esaltazione del pensiero e dello spirito umano, un angoscia o un’ idea, e non più un canto corale di indistinti sentimenti collettivi, come fu la lirica delle origini. In questo senso, ella, che, nella grave armonia delle sue strofe, rivela quel meraviglioso dono dei poeti di razza, di una musicalità , che non è quella soltanto delle rime e dei ritmi, ma è una musica interiore, attraverso la quale fluttua e si alza il volo delle zmagirìi, create dalla fantasia originale, in questo senso ella, saltando i due secoli oscuri del marinismo e dell’Arcadia, si ricollega immediatamente ai lirici italici dell’ottocento, e, in maniera specifica, a Giacomo Leopardi, coi quale la poetessa Lucana del cinquecento lontano ben ha diritto di dividere il titolo e la gloria di poetessa della morte.
Tale ella fu, tale ella rimane; poiché, come Giacomo Leopardi, Isabella Morra colmò la misura di un opera di arte del suo solo disperato grido di amore e di dolore. Amore e dolore, che ella seppe far assurgere ad amore e dolore universale, attendendo la morte liberatrice.

Questa la consanguineità spirituale del poeta di Recanati e della poetessa di Favale.
E che l’opera poetica di Isabella Morra sia di quelle, che non muoiono, lo dimostra il fatto che, a cinque secoli della sua fine tragica e delittuosa, rifioriscono gli studi critici in Italia e all’Estero, intorno alla sua poesia, di cui si fanno raccolte ed edizioni. E che il suo nome travalichi — in consumabile — le età, è dimostrato anche dal fatto che le generazioni moderne maledicono, inesorabili, il fratricidio, che, cainamente, spense, a ventotto anni, la bellissima Sibilla di Favale.
Gloria a Isabella Morra, poetessa della morte.

Ma fu che un saggio critico intorno all’opera della poetessa lucana, noi vogliamo succintamente esporre i casi tristissimi della sua vita, sicuri di meglio appassionarvi l’animo dei nostri lettori.
Isabella Morra nacque in Favale, ora Valsinni, piccolo comune di 2000 abitanti, sito sui fiume Sinni, nel circondano di Lagonegro, il 1520, e vi finì tragicamente i1 1548, a soli 28 anni.
- La famiglia, ch’ebbe antica signoria in Morra, e una delle più illustri del Napolitano : senza ricorrere a Procopio, Pandolfo Collenuccio ecc., che parlano di un duce Morra tra i Coti, mancando di questo notizie precise, ci si può attenere alla notizia geneologica di due fratelli tedeschi, Giacomo e Giovanni, che, sotto la signoria dei Normanni, per le terre da loro occupate, Morra tra gli Irpini e Sanseverino, avrebbero dato origine alle due famiglie dei Morra e dei Sanseverino . (De Gubernatis).
La madre di Isabella fu Luisa Brancaccio, consorte di Giovanni Michele Morra, Signore della terra baronale di Favale, il quale fu padre di ben otto figliuoli; sei maschi : Marcantonio, Cesare, Decio, Fabio, Camillo, Scipione, e due femmine, Isabella e Porzia.

La nostra poetessa fu educata da un pedagogo, Insieme coi fratello Scipione, il quale fu molto versato nelle lettere e fu richiamato, ancora giovanissimo, in Francia dal padre, che, di parte francese, sì era dovuto rifugiare presso la corte di Francesco I dopo la cacciata dei Francesi dall’ Italia.
Per Isabella, fu una vera disgrazia la partenza del fratello, l’unico che potesse comprenderla, perché il più intelligente e di buon cuore, e perché aveva diviso con lei l’entusiasmo degli studi giovanili, e ben conosceva i1 delicato sentire dell’affettuosa sorella. come Ella crebbe negli anni e il suo ingegno si maturò, si vide sempre più sola e più triste, circondata com’era da gente zotica e vile, la madre poco contò nella famiglia per la prepotenza dei figli, e i fratelli furono per la sorella tanti nemici, avvelenati da volgari sospeti, e intolleranti del suo ingegno superiore.
Cara alle Muse, Isabella fu incompresa e visse infelice nel Castello di Favale, che sorgeva in luogo alpestre, sul fiume Sinni, e di cui oggi restano i ruderi, dichiarati monumento nazionale. — Come Leopardi, e più recentemente, Ada Negri, ella espresse in meravigliosi versi tutto il tormento del suo spirito nel gretto ambiente paesano, - posta da ciascuno in cieco oblio. -

Poscia che al bel desir troncate hai l’ale,
Che nel mio cor sorgea, crudel Fortuna,
Si che d’ogni tuo ben vivo digiuna,
Dirò, con questo stil ruvido e frale,
Alcuna parte de 1’ interno male,
Causato sol da te, fra questi dumi,
Fra questi aspri costumi
Di gente irrazional, priva d’ ingegno,
Ove, senza sostegno,
Son costretta a menare il viver mio,
Qui posta da ciascuno in cieco oblio.

(Canzone olio Fortuna)


Isabella spera lungamente che il padre o il fratello Scipione la richiamassero in Francia, presso di loro, ma invano, i1 padre era morto, e il giovane fratello, innalzato, dopo la morte di Francesco I, al grado di segretario di Caterina de’ Medici, tra il fasto e gli onori della corte francese, aveva dimenticato la sorella, che intristiva lontano sull’alpestre rupe di Favale, maledicente.
A 25 anni, la nostra poetessa si volge a rimirare la vita passata, e vedendo sfiorire inutilmente la sua bellezza, canta con voce disperata.

Quella ch’è detta la fiorita etade,
Secca ed oscura, solitaria ed erma,
Tutta ho passata qui, cieca ed inferma,
Senza saper mai pregio di beltade
E spenta l’hai in altrui, che potea sciorre
E in altra parte porre
Dal carcer duro, il ve1 de l’alrna stanca,
Che, come neve bianca
Dal sol, cosi da te si strugge ogni ora,
E struggerassi, infin che qui dimora.

Stanca di dolore, coll’animo sazio di lacrime, perduta ogni speranza di mutare e legare il suo destino all’amore, trova conforto nella fede e, ispirandosi come una Santa, esce di casa ed erra per le foreste, cercando nella bellezza della natura l’espressione di Dio.

Quel che gli giorni a dietro
Noiava questa mia gravosa salma,
Di star tra queste selve erme ed oscure,
Or so! diletta Palma
Che da Dio, sua merce, tal grazia impetro,
Che scorger ben mi fa le vie secure
Di gire a lui fuor delle inique cure.

Così, sola, Incompresa, derisa dai fratelli volgari, ella struggeva il fiore della sua giovinezza ardente.
Tocca dal tormento della poetessa, un’anima gentile senti pietà di Isabella Morra, e cerco di allontanarla da Favale per mutarne o almeno alleviarne la sorte.
Di qui ebbe origine il fratricidio.
Sorgeva presso Bollita, oggi Nova Siri, un castello feudale della famiglia Caracciolo, abitato da Donna Antonza Caracciolo, andata sposa a Don Diego de Castro, governatore spagnolo di Taranto.
Donna Antonia si commosse ai lamenti della nobilc donzella, e, d’accordo con suo marito, e col pedagogo di Isabella, pensò di liberarla con uno stratagemma dalla schiavitù gelosa e odiosa, in cui la tenevano i fratelli.
Questi, accortisi della clandestina partenza da Favale del pedagogo, chiamato segretamente da Donna Antonia al castello di Bollita, si insospettirono e intensificarono, pensando a una tresca di amore con don Diego, la vigilanza attorno alla sorella.
Andarono poi incontro al pedagogo, mentre ritornava da Bollita e, trovatogli addosso un plico, indirizzato a Isabella, con i caratteri di don Diego, lo trucidarono, nonostante che il povero vecchio implorasse la innocenza propria e quella di Isabella e insistesse nel dire che quelle carte gli erano state consegnate da donna Antonia, e che nulla vi era da temere.
Ma il fato doveva compiersi tutto.
Isabella, venuta a conoscenza dell’assassinio, intuì che oramai tutto era finito per lei e che avrebbe chiuso con il martirio la sua brevissima travagliata esistenza.
Incalzata dalla morte, scrisse gli ultimi due sonetti, che sono supremo grido disperato del suo spirito, l’ultimo canto dell’usignuolo innanzi alla notte senza via.

Ecco che un’altra volta, o valle inferna
o fiume alpestre, o sassi,
o ignudi spirti di virtude e
Udrete d pianto e la mia doglia eterna.

Ogni monte udirammi, ogni caverna, ovunque io resti, ovunque io mova i passi chè fortuna che mai salda non stassi
c resce ognor il mio mal, ognor l’eterna.
….
*
* *

Mentre la poetessa sente da presso il fine amaro e canta la sua agonia, Donna Antonia Caracciolo spera ancora di salvare la dolorante amica e si rivolge al marito, il quale, a sua volta, prega insistentemente il governatore della Basilicata di allontanare da Favale la infelice donzella.
Nuovo fuoco questo intervento di don Diego all’atroce sospetto dei fratelli: i quali, inveleniti dalla presunta vergogna patita, piombarono addosso, furibondi, alla sorella, e fecero col pugnale scempio del corpo giovanissimo, dimentichi che, in esso, scorreva lo stesso sangue delle loro vene.
Perì della stessa mano e nell’istesso modo anche Don Diego de Castro, che aveva avuto tanta pietà della poetessa infelice.
E la morte li colse, l’una e l’altro, nell’arco della stessa falciata.
Il quadrio nella (Storia e ragione d’ogni poesia) così dice di Isabella Morra. Nelle traversie del padre e nelle disgrazie di sua famiglia, fu rarissimo esempio di onestà nella sua persona, di coraggio in soffrir le sciagure e d’amore verso il padre e fu poetessa altresì di spirito singolare e di fantasia superiore al suo sesso.
Fiorì intorno al 1560 e prima ancora. Ma le sue Rime, nel vero, assai belle, che prima si leggevano sparse in varie Raccolte, non furono tutte insieme impresse che con quelle di Veronica Gambara e di Lucrezia Marinella, in Napoli, per Antonio Bulison nel 1693.
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Sono cinque secoli che il corpo trafitto di Isabella Morra ha pace nella sua terra ; e quelli del suo sangue sono passati, e le case dei suoi sono crollate, insieme con la potenza truce dei fratelli assassini. Cinque secoli sonò che l’ultmo canto di morte fu troncato dal fratricidio sulla bocca moribonda, che non aveva conosciuto l’amore.
Ma da cinque secoli, il Sinni non fa che narrare e cantare alle generazioni la tragica sorte di Isabella, mentre la gloria ne ricompone il corpo, terso dalle ferite, nella impassibile immortalità dei divini. E, poetessa della morte, ella è salutata dal perenne fluire delle generazioni dei vivi.
E la sua poesia canta ai secoli, come le acque del fiume, sulle cui canzoni fiorì.

da: "La Basilicata nel Mondo" 1924 - 1927

Autore: FRANCESCO RUSCIANI

 

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