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ENIGMI E MISTERI NELLA CRIPTA DELLA CATTEDRALE DI ACERENZA

This paper deals with part of the building of the cathedral of Acerenza.
From the analysis of the various bearings and descri-ptions inside the cathedral itself, and on the original front doors, it is clear that this part of the building was built in 1524 by Giacomo Alfonso Ferillo and his wife Maria Balsa.
The apse is the structural part giving rise to huge discussions, as loads of hints (different kind of materials, discontinuity in decorations, different styles), might let the observer think it is the result of a reassembling action belonging to the middle of the XIX century.

In occasione della preparazione di un volume - di prossima pubblicazione per i tipi della casa editrice Osanna di Venosa - interamente dedicato alla cattedrale di Acerenza, a cura di Pina Belli D'Elia e di chi scrive (1) , mi sono trovata ad affrontare alcune difficoltà interpretative relative al succorpo, cui non è stato possibile purtroppo offrire risposte univoche. Credo che possa riuscire di un qualche interesse accennare in questa sede ad alcune di tali problematiche, nella speranza che nel prossimo futuro si possa giungere alla loro soluzione, e in attesa di opportune ricognizioni da parte delle competenti Soprintendenze.
Esteso al di sotto del coro, il succorpo - la cui realizzazione fu promossa dal conte Giacomo Alfonso Ferrillo, di origine napoletana, noto per i suoi profondi interessi umanistici, e la consorte, la principessa serba Maria Balsa - occupa poco più dei due terzi dello spazio disponibile e consiste in un vano perfettamente quadrangolare, suddiviso in tre navate da quattro colonne poggianti su piedistalli e coperto da una serie di nove voltine ribassate.
Le pareti perimetrali sono scompartite verticalmente in tre moduli di ugual misura tramite paraste scanalate: in corrispondenza delle pareti laterali, i primi due scomparti verso l'ingresso sono occupati da affreschi, il terzo da una finestra profondamente strombata che s'affaccia sul deambulatorio della chiesa superiore, da cui prende luce. La parete di fondo risulta invece tompagnata in corrispondenza dei due scomparti laterali, che sino agli inizi di questo secolo ospitavano armadi-reliquiari, ancora visibili in vecchie fotografie, mentre in corrispondenza dello scomparto centrale si apre una piccola abside rettangolare entro cui, su un ripiano sollevato rispetto al pavimento di circa m 1.30, è collocato un grande sarcofago marmoreo.
Non mi dilungherò sui precedenti culturali del succorpo, giustamente posto in relazione dal Bertaux sin dal
1897 (2) - e di recente con più ampie argomentazioni e in più occasioni dalla Barbone Pugliese (3) - col celebre succorpo del duomo di Napoli, voluto dal cardinale Oliviero Carafa e considerato unanimemente, sin dall'epoca della sua erezione (iniziato nel 1497, fu concluso nel 1506, con un'appendice di lavori sino al 1508), "la principessa de tucte le cappelle"(4) .
Le innegabili affinità d'impostazione tra i due succorpi ci autorizzano a ritenere che il disegno per quello di Acerenza sia stato fornito al Ferrillo da un ignoto architetto napoletano che, quasi certamente su sua indicazione, tenne ben presente il modello partenopeo, pur dovendo rapportarsi ad una situazione dei luoghi molto diversa e fare i conti con la disponibilità finanziaria del conte che, per quanto notevole, non poteva certamente competere con gli enormi proventi del Carafa.
La questione sulla quale intendiamo invece soffermarci più estesamente è quella relativa all'abside che si apre nella parete di fondo, all'interno della quale è collocato il sarcofago popolarmente noto come "cassone di san Canio".
L'ingresso alla piccola abside appare visibilmente frutto di una risistemazione: mentre infatti lo stipite di sinistra è realizzato interamente in marmo di Carrara, quello di destra è formato da tre spezzoni in materiale diverso, di cui l'inferiore in marmo di Carrara, il mediano in marmo cipollino dalle venature verdastre che, pur presentando decorazioni analoghe allo spezzone sottostante, manca di continuità rispetto a questo, e un terzo pezzo in pietra calcarea. Entrambi gli stipiti, e i semicapitelli che li coronano, risultano poi rimontati, analogamente a tutto il vano dell'abside in cui è inserito (si direbbe a forza) il grande sarcofago, vano che denuncia anch'esso vistosi rimaneggiamenti. Inoltre il piano di posa degli stipiti che delimitano l'ingresso dell'abside non è allineato, come ci si aspetterebbe, al bordo superiore dei piedistalli che pausano le pareti perimetrali e che tripartiscono anche la parete di fondo, ma è curiosamente più alto di circa 20 centimetri. Gli stipiti poggiano infatti su una sorta di davanzale - evidentemente riutilizzato a causa dell'altrimenti inspiegabile presenza di un piccolo rincasso di forma rettangolare - sostenuto da due mensoloni scanalati e, al centro, da una tozza colonnina, scanalata nel rocchio inferiore e rastremata nel tratto superiore, sormontata da un capitello a larghe foglie lisce: elementi, questi ultimi, che si direbbero realizzati in epoca piuttosto recente, presumibilmente nel secolo scorso (5) . Quanto al vano rettangolare dell'abside, voltato a botte, anch'esso è caratterizzato da non poche incongruenze. Nella lunetta superiore della parete di fondo sono infatti incastrate due lastre rettangolari in marmo scolpite a bassorilievo, raffiguranti altrettanti Angeli, le quali fiancheggiano un'apertura strombata (evidentemente una porticina di tabernacolo), decorata con un simbolo eucaristico in corrispondenza della faccia inferiore del trave. Sicuramente l'ubicazione delle lastre non è quella originaria, dato che il bordo superiore, modanato, risulta tagliato, in corrispondenza degli spigoli rispettivamente di sinistra e di destra, dalla volta a botte che copre il piccolo vano, decorata da una regolare tessitura di quarantotto cassettoni (6 x 8), ognuno occupato da elementi isolati degli stemmi Ferrillo e Balsa ritmicamente disposti, due dei quali integrati a seguito di un restauro. A ciò si aggiunga l'assoluta incongruità di un tabernacolo collocato a tale altezza, apparentemente senza alcuna funzione liturgica.
Quanto alle pareti laterali del vano, esse sono articolate nella parte inferiore da due profonde arcate cieche - chiuse da una muratura piuttosto rozza, certamente non originaria - impostate su mensole poste a differente livello, di cui le posteriori visibili solo parzialmente perché affondate per oltre metà nella parete di fondo. Lungo l'interno dell'abside, a media altezza, corre un fregio continuo con figure di cherubini a mezzo busto. Alcune vistose rotture presenti nelle lastre che compongono il fregio, l'elementare constatazione che gli sguardi dei cherubini non convergono, come sarebbe naturale, verso lo stesso punto prospettico e, soprattutto, l'esistenza di almeno un'altra lastra erratica della stessa serie (6) , dimostrano che anche il fregio è stato smembrato e rimontato in questa posizione. In conclusione, l'intero assetto del vano dell'abside sembra non corrispondere a quello originario.
Una conferma viene da una rara fotografia scattata calandosi, dalla finestrella quadrangolare aperta nella parete di fondo dell'abside, nello spazio retrostante. Essa mostra, in corrispondenza del retrospetto della parete, una sorta di alzata d'altare in pietra, lievemente concava, conclusa da un massiccio cornicione modanato. Ai lati dell'apertura quadrangolare sono chiaramente visibili i cardini della porticina che doveva chiuderla. L'alzata poggia a sua volta su una pesante lastra in pietra, con i bordi scolpiti a sguscio e modanati, affondata per buona parte nel muro. Questa struttura, peraltro ben conservata, dimostra come almeno una parte dello spazio retrostante l'abside doveva essere percorribile, anche se è difficile ipotizzare come vi si accedesse.
Riuscire a ricostruire con plausibilità le trasformazioni avvenute in questa zona del succorpo è problema di assai ardua soluzione, soprattutto a causa della scarsità delle fonti disponibili e della loro controversa interpretazione. A ciò si lega la questione, non meno controversa, riguardante il luogo della deposizione delle reliquie di san Canio, dato che il sarcofago nel succorpo risulta vuoto (e, con ogni probabilità, lo è sempre stato). Un'ulteriore difficoltà, infine, è rappresentata dal fatto che quasi tutte le fonti parlano di un "altare" di san Canio esistente nel succorpo, mentre oggi, a rigor di termini, non potremmo applicare questa definizione a quella sorta di strano davanzale che costituisce il piano di posa del sarcofago né, tanto meno, quest'ultimo potrebbe essere identificato come tale.
Nell'impossibilità di rispondere ai quesiti sollevati, ci accontenteremo pertanto di proporre all'attenzione alcune testimonianze scelte tra le più significative al riguardo, lasciando ad altri il compito di formulare ipotesi più fondate di quanto non si possa fare attualmente.
La testimonianza più antica sul succorpo (e sulla sepoltura di san Canio) è contenuta nella Santa Visita nella diocesi compiuta dal novembre 1543 al settembre 1544 dal cardinale Giovanni Michele Saraceno, arcivescovo di Acerenza e Matera (7) . La mattina del 27 novembre 1543 il prelato dette inizio alla visita delle cappelle e degli altari della chiesa superiore: Et primo altare maius in quo reconditur sacrum corpus dicti sancti Canionis martiris prout fuit sibi relatum ab omnibus cum illud non potest videri ex quo est suptus altare fabricatum, postea accessit ad sub corpus constructum per illustrem quondam dominum Jacobum Alfonsum comitem Muri (...) (8) .
Se le affermazioni fatte dai canonici sono riferite esattamente dal Saraceno, dal passo citato si arguisce che: 1) le reliquie di san Canio erano conservate nell'altar maggiore, o meglio, come si precisa subito dopo, in una struttura fabbricata sotto (suptus) l'altar maggiore; 2) che questa struttura, inaccessibile, doveva trovarsi ad un livello di calpestio più basso rispetto a quello dell'altar maggiore e che non vi era alcun collegamento tra essa e il coro; 3) che, inoltre, non vi era alcun rapporto tra il deposito suptus altare fabricatum e il succorpo Ferrillo, dato che a quest'ultimo l'arcivescovo Saraceno accede postea, presumibilmente da una delle due scalinate corrispondenti ai due portali originari.
È interessante il fatto che nella Visita non si faccia alcuna allusione ad eventuali altari presenti nel succorpo né, tanto meno, alla presenza in esso del sarcofago.
Il controverso passo del Saraceno potrebbe fornire una spiegazione alla strana incongruenza che abbiamo già notato parlando della planimetria del succorpo: il fatto cioè che il Ferrillo, pur avendo a disposizione l'intero spazio sottostante il coro, ne abbia occupato in realtà solo una parte.
Nello spazio retrostante la parete est del succorpo potrebbe aver trovato posto la struttura ipogeica, cui allude il Saraceno, nella quale erano state deposte le reliquie di san Canio rinvenute dal vescovo Arnaldo nel 1080. Un indizio potrebbe essere rappresentato dal fatto che, in occasione della risistemazione tardottocentesca dell'abside, la fronte di tabernacolo sulla parete di fondo venne rimontata in una posizione che, assolutamente priva di funzionalità, poté tener conto della presenza al di là del succorpo, forse tramandata da un'antica tradizione, delle reliquie del santo.
Nessun accenno alla presenza di altari o del sarcofago anche nella descrizione del succorpo contenuta nel Liber piorum legatorum del 1559, dove l'attenzione si concentra piuttosto sulla pretesa finezza dell'apparato decorativo della cripta (expolitis lapidibus perpulchre) (9) .
In una relazione datata 25 giugno 1590 la situazione non sembra granché modificata: l'altare maggiore nel coro della chiesa superiore è ancora intitolato a san Canio, ma per la prima volta si parla anche di un altare presente nel succorpo, del quale non si specifica il titolo (10). Ma probabilmente non si trattava dell'unico altare, dato che qualche decennio dopo, durante l'episcopato di Giovanni Battista Spinola (1648-1665), altri due altari del succorpo, collocati in corrispondenza delle pareti laterali, cambiano patronato e vengono ridedicati a san Martino e a san Nicola, essendo state contemporaneamente coperte le immagini a fresco già presenti, come riferisce una Santa Visita citata dalla Barbone Pugliese (11) .
Nel 1659, nella prima edizione della sua Italia Sacra, l'Ughelli descrive brevemente la cattedrale di Acerenza e, in particolare, il succorpo. Rispetto a quella descritta nel 1543 dal Saraceno, la situazione relativa alla sepoltura di san Canio appare alquanto mutata: le reliquie del corpo del santo si dicono infatti collocate nell'altare maggiore del succorpo (quindi in una posizione non più inaccessibile) e si afferma che esse vi erano state deposte dal vescovo Leone nel 799 (escludendo un loro spostamento a seguito della pur nota inventio da parte del vescovo Arnaldo, avvenuta nel 1080) (12) .
L'Ughelli ricorda poi come il giorno 15 di ogni mese di maggio, corrispondente alla festività di san Canio, ex lapideo loculo (il succorpo, l'altare, o il sarcofago marmoreo?) liquor pretiosus manare solet dulcis et omnibus infirmitatibus salutaris (13).
Interessante è anche la descrizione di un luogo della chiesa superiore, vicino al sacrario, corrispondente all'attuale cappella di san Canio (14). Non sappiamo se già all'epoca la cappella avesse assunto il titolo del santo titolare della chiesa, ma sicuramente vi erano conservati importanti oggetti legati al suo culto: una statua, con tutta probabilità da identificare con quella lignea sopravvissuta sino ad oggi; un pastorale (il cosiddetto "bastone di san Canio") e un simulacro argenteo contenente una reliquia, non più esistente. Quanto all'altare compaginato ex candido marmore, vacuo tamen, presente nella cappella, esso è identificabile con l'altare in pietra racchiuso all'interno di quello settecentesco che vi figura attualmente, visibile attraverso un'apertura circolare di circa 15 cm praticata in una lastra di questo (15).
Qualche decennio dopo, il Pacichelli ricalcava esattamente la descrizione ughelliana (16), ripetuta senza varianti nella seconda edizione dell'Ughelli (1721) (17). È appena il caso poi di citare il Gatta, il quale si limita a ricordare che Acerenza "è celebre per lo deposito di detto Santo Martire, il quale rendesi illustre per li continui Miracoli" (18), senza però specificarne l'ubicazione.
Si deve giungere a poco prima del 1770 per imbattersi in una significativa, ma purtroppo enigmatica descrizione dello "stato delle cose" da parte del canonico acheruntino Carlo Lavinia: "Vien questo (s'intenda il Duomo di Acerenza) formato da una Nave maggiore con due minori; e nel capo della maggiore da man dritta, e da man manca si sporge altra simile Nave, con due Cappelloni del Santissimo Sagramento, e della Beatissima Vergine del Rosario, e forma una perfetta Croce, in cima a cui è situato il superbo Coro con Altar Maggiore, sotto il quale vi stà un Succorpo, sostenuto da quattro Colonne di diversi marmi fini. In questo luogo stà riposto il Corpo del ridetto S. Canio, e al di sotto di detto Altare, il quale è concavo, ed in giro, vi scaturisce un liquore portentoso; giacchè tanta è la divozione degli Acerentini verso il Santo loro Protettore, e tanta la fiducia nella virtù di detto liquore, che di esso bevendo, o bagnandosi alcuno, credono esser valevole a guarire qualunque male (...)" (19).
Anche il Lavinia, quindi, come già l'Ughelli, ritiene che le spoglie di san Canio siano deposte nel succorpo. Arduo però immaginare l'aspetto e la posizione dell'" altare concavo, ed in giro", che egli dice di vedervi: quel che pare certo è che difficilmente la sistemazione descritta dal dotto canonico può coincidere con quella attuale.
Questa circostanza è indirettamente confermata nel 1848 dal Girardi, a detta del quale l'altare maggiore del succorpo suscitava l'ammirazione dei visitatori (affermazione assolutamente inverosimile se rapportata all'altare nella sua attuale forma) (20). Siamo certi, comunque, che all'epoca, il sarcofago di marmo, vuoto, e distinto dall'altare, si trovava nel succorpo. Lo afferma lo stesso Girardi, pur avvolgendo la notizia di macroscopiche imprecisioni: "Il corpo di tal santo vescovo essendo stato scoperto fra le rovine della distrutta Atella da Leone arcivescovo di Acerenza (nel 1299 (sic!)), questi arricchì di tanto tesoro la città nostra, la quale, per cento prodigi sperimentati, elesse Canio a suo patrono. Vuolsi per tradizione che le reliquie di lui fossero dapprima collocate in una cassa di marmo lavorato, che sta nel soccorpo della cattedrale. Presentemente tale cassa è vuota, e con buone ragioni si crede che il corpo di S. Canio fosse stato chiuso nel muro dell'altare a lui dedicato nel soccorpo medesimo" (21).
Non dissimile la situazione descritta qualche anno dopo (1853): "Al disotto del Presbitero vi ha un soccorpo di elegantissima struttura. Quattro belle colonne di fino marmo, dell'altezza di palmi quindeci, s'innalzano nel bel mezzo di esso a sostenere la volta, le quali ne' loro piedestalli, egualmente di marmo, presentano scolpite figure profane: i capitelli delle medesime sono di ordine composito. Gira tutt'all'intorno di questa critta un cornicione, anch'esso di marmo, nel fregio del quale sono scolpiti a rilievo ornati raffiguranti rami di olivo; e di marmo son pure il pavimento ed un ricco altare posto nel mezzo (il corsivo è mio!), dedicato al Protettore S. Canio. Non così dei due altri altari che veggonsi ne' laterali, i quali sono di legno, e s'intitolano uno a S. Nicola, a S. Martino l'altro" (22).
Non vogliamo proseguire oltre nelle citazioni, quanto piuttosto cercare di tirarne le fila: quello che ci sembra di poter affermare, a questo punto, è che, almeno a partire dalla fine del XVII secolo, nel soccorpo viene ubicato un altare dedicato a san Canio, nel quale - e non più in un luogo inaccessibile, sotto l'altar maggiore - si dicono collocate le sue reliquie. Nella stessa epoca si comincia a parlare di un secondo altare dedicato al santo in una delle cappelle che si affacciano sul deambulatorio.
Sebbene con tutte le cautele necessarie in una situazione che ha visto il succedersi di pesanti interventi, non sempre documentati, nonché la quasi totale mancanza di ricognizioni, possiamo ipotizzare che la sistemazione attuale dell'abside del succorpo risalga a circa la metà dell'Ottocento. In quest'occasione deve essere stato smembrato l'altare maggiore del succorpo, che è da distinguersi dal sarcofago, introdotto nel succorpo in epoca imprecisabile. Resta oscura, inoltre, la collocazione originaria dei pezzi che sono serviti a ricomporre il vano dell'abside, riadattati all'angusto spazio modulare in cui è tripartita la parete di fondo del succorpo col sacrificio, in questa nuova sistemazione, di alcuni di essi. In tal modo il cenotafio marmoreo venne ad assumere la funzione di una sorta di pala d'altare, collocato com'è su un davanzale- mensa e visibile solo dal basso.
Solo qualche osservazione, infine, su una questione non secondaria: in quale rapporto cronologico si pone il sarcofago (e, forse, la struttura absidale che lo contiene) col succorpo? Risalgono entrambi ad un'unica campagna di lavori o è possibile ipotizzare che l'uno sia precedente all'altro, o viceversa?
Come è stato già notato dalla Barbone Pugliese, il sarcofago presenta rilievi sulla metà anteriore del coperchio del sarcofago e su parte delle facce laterali: questa circostanza rimanda ad una collocazione originaria nella quale esso doveva risultare addossato ad una struttura e ad un livello d'altezza tale da poterne apprezzare soltanto la parte anteriore e, forse, parte delle facce laterali.
La presenza degli emblemi Balsa-Ferrillo sul coperchio del sarcofago, la simbologia sottesa alla decorazione della fronte, che rimanda con tutta evidenza alla figura di un vescovo, sono all'origine della perdurante convinzione, riaffermata sino a tempi recenti, che il sarcofago, commissionato da un non meglio identificato vescovo Ferrillo, della stessa famiglia dei conti fondatori e peraltro mai esistito, contenesse le spoglie dei nobili coniugi (23). Più verosimilmente, invece, gli stemmi Balsa-Ferrillo stanno ad indicare i conti committenti del sarcofago, in cui forse, almeno in un primo tempo, si pensava di trasferire i resti del santo titolare della chiesa, il vescovo Canio, che un'antica tradizione diceva sepolto nel succorpo. Come si è già ricordato, infatti, da tempo immemorabile la voce popolare lo indica significativamente come "cassone di san Canio".
L'autore del sarcofago è stato verosimilmente identificato in uno scultore lombardo attivo a Napoli, Francesco da Milano (24), le più antiche notizie documentarie sul quale risalgono al 1468 e che risulta morto in un documento del 1505 (25): un troppo lungo intervallo, come si vede, rispetto al succorpo, concluso - almeno nelle sue parti architettoniche e scultoree - nel 1524.
In base a tutto quel che si è detto sinora, riteniamo di poter ipotizzare che Giacomo Alfonso Ferrillo e Maria Balsa, all'inizio del loro insediamento, e prima dell'avvìo della ricostruzione del corpo longitudinale della chiesa, abbiano eretto una cappellina ipogeica destinata ad ospitare il sarcofago di san Canio, le cui reliquie essi speravano di potervi deporre. Non è possibile allo stato attuale avanzare delle ipotesi se e come tale cappellina sia stata in seguito collegata al succorpo, in occasione dell'erezione di quest'ultimo. A fine Seicento è da presumere che essa costituisse una sorta di grande appendice del succorpo e che contenesse un altare "nel mezzo" (Girardi), intorno al quale si poteva girare, come sembrerebbe indicare l'espressione "concavo, ed in giro", usata dal Lavinia (26). Demoliti l'altare e la cappellina che lo conteneva intorno alla metà dell'Ottocento, con alcuni dei pezzi risultanti e con l'aggiunta di integrazioni moderne fu probabilmente ottenuta l'attuale abside - ove fu collocato il cenotafio di san Canio -: abside che rappresenta sicuramente l'elemento più problematico dell'intero succorpo, e che ancora oggi, purtroppo, continua a nascondere gelosamente gran parte del suo mistero.

Note

1 Il volume, promosso dalla Curia Arcivescovile di Acerenza e patrocinato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, oltre i saggi di Pina Belli D'Elia e di chi scrive, conterrà contributi di studiosi di varie specializzazioni (Gerardo Cioffari, Luisa Derosa, Hubert Houben, Valeria Verrastro), un'introduzione di Cosimo Damiano Fonseca e un'appendice di Giuseppe Lettini.

2 E. BERTAUX, I monumenti medievali della regione del Vulture, supplemento alla "Napoli nobilissima, rivista di Topografia ed Arte Napoletana", a. VI, 1897, pp. I-XXIV, in part. p. XXII.

3 N. BARBONE PUGLIESE, La cripta Ferrillo nel Duomo di Acerenza, in "Napoli nobilissima", vol. XXI, fasc. V-VI, sett.-dic. 1982, pp. 168-182; Ead., La cripta della cattedrale, in Acerenza, a cura della Comunità Montana "Alto Bradano", Venosa 1995, pp. 49-64. L'ipotesi è accolta anche da F. Abbate, La scultura napoletana del Cinquecento, Roma 1992, p. 54.

4 La definizione è del frate francescano Bernardino Siciliano, dottore in diritto canonico e lettere nello Studio di San Lorenzo Maggiore. Il succorpo ha goduto pressoché ininterrottamente nella storiografia artistica europea, sino ai nostri giorni, di una singolare fortuna, come ha sottolineato di recente l'Abbate che ne ha ripercorso le varie tappe (Abbate, La scultura napoletana cit., p. 49).

5 La colonnina nasconde inoltre un basso rilievo, raffigurante la Croce della passione, scolpito sulla fronte interna, che risulta anch'esso, ad un'attenta osservazione, frutto di una risistemazione posteriore.

6 Si cfr. scheda OA della Soprintendenza ai Beni A.S. della Basilicata, n. Catalogo generale 17/00033920.

7 Archivio Curia Arcivescovile di Acerenza (d'ora in poi ACAA), Inventario di tutti i beni mobili ed immobili posseduti dalla Mensa Arcivescovile, dai Capitoli, Clero, Confraternite ed Cappelle di Acerenza, Matera ed Archidiocesi Acheruntina compilato in S. Visita nell'anno 1543 per ordine dell'Arcivescovo Cardinale Saraceno. La Santa Visita è stata pubblicata in traduzione italiana da A. Grillo, Acerenza e Matera. La visita pastorale nella diocesi: 1543-1544, Lavello 1994.

8 ACAA, Inventario di tutti i beni mobili cit., c. 114r.

9 ACAA, Liber piorum legatorum. In nomine Trinitatis Amen. Ordo martjrologii Capituli secundum morem et consuetudinem Acherontine Ecclesie Sancti Canionis feliciter incipit 1559, f. 86r.

10 La relazione è pubblicata in A. GRILLO, Percorsi di una Cattedrale, Lavello (PZ) 1995, pp. 24-26.

11 BARBONE PUGLIESE, La cripta Ferrillo cit., p. 178. Della Santa Visita, attualmente irrintracciabile, non viene specificato l'anno.

12 F. UGHELLI, Acheruntina Metropolis, in Id., Italia sacra sive de Episcopis Italiae, et insularum adiacentium complectens Metropolitanas, earumque suffraganeas Ecclesias, quae in Lucaniae seu Basilicatae, et Apuliae tum Dauniae, cum Peucetiae Regni Neapolitani praeclaris Provinciis continentur, VII, Romae MDCLIX, col. 10.

13 UGHELLI VII, ed. 1659, ibidem.

14 UGHELLI VII, ed. 1659, ibidem.

15 M. FESTA, Visita guidata alla Cattedrale di Acerenza, in Celebrazioni del IX Centenario della Cattedrale di Acerenza, Palazzo San Gervasio 1995, pp. 165-175, in part. p. 172.

16 G. B. PACICHELLI, Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici provincie, Napoli 1703, p. 268.

17 F. UGHELLI, Acheruntina Metropolis, in Id., Italia sacra sive de Episcopis Italiae, et insularum adjacentium complectens Metropolitanas, earumque suffraganeas Ecclesias, quae in Lucaniae seu Basilicatae, et Apuliae tum Dauniae, cum Peucetiae Regni Neapolitani praeclaris Provinciis continentur, editio secunda aucta, et emendata cura et studio Nicolai Coleti, Ecclesiae S. Moysis Venetiarum Sacerdotis Alumni, VII, Venetiis apud Sebastianum Coleti MDCCXXI, col. 9.

18 C. GATTA, Memorie topografiche-storiche della provincia di Lucania, Napoli MDCCXXXII, p. 322.

19 C. LAVINIA, Acerenza, in C. Orlandi, Delle città d'Italia e sue isole adjacenti compendiose notizie, sacre e profane, t. I, Perugia 1770, pp. 5-6.

20 F. S. GIRARDI, Acerenza (chiesa Metropolitana), in V. D'Avino, Cenni storici sulle chiese arcivescovili, vescovili, e prelatizie (nullius) del Regno delle due Sicilie, Napoli 1848, p. 6.

21 Id., ivi.

22 F. C., Acerenza, in "Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato", vol. VI, Napoli 1853, p. 126.

23 Basilicata e Calabria, Guida TCI, IV ed., Milano 1980, p. 227.

24 F. ABBATE, La scultura napoletana cit., p. 33, nota 65. La Barbone Pugliese riscontra notevoli analogie tra il sarcofago e i prodotti della bottega malvitesca, ma non si pronuncia circa l'autore del sarcofago ( La cripta Ferrillo cit., p. 176). In un secondo momento ( La cripta della Cattedrale cit., 1995, p. 61), e proprio a seguito dell'ipotesi dell'Abbate, parla più genericamente di "maestri lombardi".

25 Le notizie documentarie disponibili su Francesco de Cristofano da Milano (altrimenti detto Francesco Lombardo) sono raccolte in G. Filangieri, principe di Satriano, Documenti per la storia le arti e le industrie delle provincie napoletane, I-VI, Napoli 1883-1891, in part. III, pp. 101-110. Per una trattazione critica dell'artista cfr. F. Abbate, La scultura napoletana cit., pp. 16-17, 27-28, 32-33.

26 Un indizio della verosimiglianza di questa ricostruzione potrebbe essere fornito dalle due arcate che articolano le pareti laterali dell'attuale abside, forse in origine aperte per permettere il passaggio in senso circolare dei devoti.


tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1999"

Autore: Testo di Clara Gelao

 

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