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IL R. ISTITUTO FEMMINILE DI MARATEA - da "la Basilicata nel Mondo" 1924 / 1927

Una delle più pure e gloriose istituzioni della provincia, se non addirittura del Mezzogiorno d’ Italia, è l’Istituto Convitto Femminile De Pino - Matrone - Iannini, di Maratea.


Un breve cenno storico.

Sorse, verso il 1 730, col patrimonio lasciato a tal fine, molti anni innanzi (1613), dal benemerito cittadino Giovanni Antonio De Pino, da cui prese nome, come Conservatorio Salesiano.

Sino dal gennaio 1819 occupa l’attuale Monastero del Rosario, concesso da Re Gioacchino Murat, con real decreto del 16 luglio 1810.

Riconfermato, con rescritto di re Ferdinando del 1 Aprile 1857 quale istituto di educazione puramente laicale, soppresse il Conservatorio salesiano.

Con regio decreto del 21 Marzo 1869 venne approvato lo statuto organico, col quale, fra l’altro, venne l'Istituto sottoposto al governo di una commissione presieduta dal Sindaco; ma, con altro regio decreto del 19 dicembre 1901 fu ordinato come tutti gli altri educandati femminili del regno.

Con successivi regi decreti venne autorizzato ad accettare la donazione di lire centomila dal rimpianto filantropo Matrone Pasquale e dalla moglie Iannini Marianna, i quali costituivano il ricovero e l’educazione gratuita nell'Istituto di otto orfanelle povere di Maratea.

Infine, nell’ aprile del 1918, con altro Regio decreto, venne approvato il vigente statuto, in seguito al quale l’Istituto venne denominato « R. Istituto femminile De Pino - Matrone - Iannini ».

Un vasto edificio, tutto bianco come una veste d’innocenza, in mezzo alla corona verdissima del falso piano ferace.

Sul fondo, l’allineamento azzurro morbido dell’Appennino Iucano; occhieggiamento di casette gaie per la campagna; di fianco, Maratea, la Sinuosa, che faccia la ritrosa col suo mare alla Pierre Loti, eterno adoratore senza cruccio, che le bacia i piedi, glieli terge, glieli imbalsama di essenze saline.

Lo attraverso, di gran passo, inseguito dal morso del sole e dal grido delle cicale, il grande piazzale, qua e là ombrato da grandi alberi — non ricordo se platani, ontani o cerri — che, certo, i padri salesiani piantarono, in quella loro passione inesausta di tramandare ai venturi.

Alla grande porta ritinta di fresco esito un poco a tirare il cordone del campanello.

Provo quella sensazione, un pò triste e un pò gioconda, un pò fatta di stupore e un pò di sbigottimento, che provano tutti « i figli del secolo » quando stanno per varcare, per una circostanza qualsiasi, la soglia inviolabile di una di queste oasi di paradiso, refugi dell’innocenza, sui quali sembra vegliare la potente anima mistica di Francesco d’Assisi « lo sposo della Verginità, oltre che della Povertà ».

Ma ho fretta.., e tiro.

Rompo l'incanto del mio spirito, ma un altro ne nasce, subito, sotto i miei occhi.

Il campanello squilla, assai civettuolo, un pò stridulo, un pò petulante.

Pare suoni sul vuoto.

E s’ode un piccolo passo leggero.

Poi la porta si schiude un poco, uno spiraglio, nel quale s incornicia il volto delicato, tutto chiuso , come in un quadro di Van Dick, fra due bende candidissime di una suora molto giovane, niente affatto sorpresa di trovarsi di fronte, di là dalla porta, un giovane « figlio del secolo ».

Brevi parole; poi la suora si allontana a piccoli passi, come venuta, e sembra vada verso un mondo irreale, di sogno. Ma va semplicemente ad annunziarmi alla suora direttrice.

Ora il suo passo sale per una scala invisibile. L’ odo vanire, dalla soglia che non ho ancora osato varcare.

Ecco il piccolo passo della suora leggera, che torna.

E non so se parla, ma odo: « La madre direttrice l’attende » — E scompare.



*

La madre direttrice mi attende, infatti, in sommo di una gradinata di pietra tersissima. Sembra che a strisciarvi sopra la lingua, non debba esserci un solo granello di polvere.

Mi avvicino con umiltà, dimentico di essere il figlio del secolo e del tormento e con umiltà prego che mi sia dato attingere a quel filo di frescura e di purezza, per la mia sete nuova di misticità.

La madre direttrice — una suora norbertina dalla statura giunonica, dal volto al tempo stesso dolce e imperioso, di un pallore incarnato, che sembra fatto di fuoco bianco e di desiderio astrale, avvivato da due occhi mobilissimi, intelligentissimi, mi accompagna mi guida come un bambino. E come un bambino, io mi lascio guidare.

Sfila, sotto i miei occhi, la visione dei dormitori: file di lettini bianchi bianchi, fatti per sogni di piccoli angeli senz’ali.

Ampiezza, luce, quiete, pulizia scrupolosa, meticolosa, curata fln nei più piccoli particolari. Ordine rigidissimo, assetto igienico perfetto.

Si nota subito che una mano materna provvede a tutto; la mano pietosa e pura delle suore norbertine, preposte alla direzione e all’andamento dell’ Istituto, alle cure assidue, diligenti e alla abnegazione delle quali verso le alunne si deve l'incremento rapidissimo e l’ottima fama della istituzione, che ha assunto a sì grande importanza da vedersi costretta a rifiutare, per mancanza di posti, domande e domande di ammissione di alunne, che pervengono continuamente da ogni parte, e specialmente dalle Calabnie, dal Salernitano, e dai paesi più estremi della regione lucana.

Sia lode a queste piccole suore — madri ideali della più alta maternità dello spirito — operose, colte, industri e pazienti.

Il numero delle convittrici raggiunge attualmente la cifra approssimativa di cento.

Anche il refettorio, un ambiente pur esso vasto, colmo di luce, prorompente da grandi finestre sul verde — è tenuto con estrema signorilità e igiene.

Noto le tovaglie, pascolianamente candide, i fiori, profusi qua e là, leggiadramente, sulle mense.

I pavimenti luccicano di lavatura recente e l’odore della nettezza rinfresca e conforta.

Ora giunge il suono di un pianoforte, la cui tastiera dev’essere percossa da una infantile mano inesperta, che tenta i primi studi di melodia, le primissime melodie di stile.

Sorrido. Anche la madre direttrice sorride di un bel sorriso indulgente, intelligente e materno. E dice. " Sono le ragazze della scuola di musica ".

Perché c’ è anche una scuola di musica nell’ Istituto. E vi sono i corsi completi elementari e i corsi completi delle complementari, tenuti da professori titolati, e riconosciuti al pari di ogni altra scuola di Stato. L’insegnamento religioso è curato in maniera speciale.

Vi è anche annessa una scuola magnifica di lavori donneschi, a cura delle suore norbertine.

Ogni anno, nel luglio, vi si fanno ammirevoli esposizioni che vanno dalle più modeste biancherie personali ai ricami più fini e perfetti, fino alle magnificenze dei ricami in oro e in pirografia.

Mi viene la tentazione di chiedere alla madre direttrice, che mi mostri qualcuno di questi miracoli di Aracne, nei quali piccole mani pure e sagaci hanno costruito, col filo sottile e con l’uncinetto arcato, tutti i sogni e tutti gl’incanti, tutte le melodie mute e tutti gl’ incomprensibili geroglifici delle immagini aeree, continuamente pullulanti dal profondo dello spirito umano, tanto più alto quanto più virginale, teso nello sforzo di rivelare a sé stesso e ad altrui il mistero e il volto della più vera Bellezza.

Ma mi appago di una mia fantasia, ineffabilmente soave, e mi rivolgo, quasi istintivamente, verso le tinnule di voci pacate, che vengono dalle aule scolastiche, nelle quali s’insegna.

Da tutto questo, si può facilmente arguire come l’educazione, che in questo elegante istituto si impartisce alle giovinette sia quanto di più fine e aristocratico, morale e moderno, le esigenze della società nostra possano reclamare.

Dovrei, ora, visitare il giardino, dissetarmi alla sorgente di acqua freschissima, che dentro vi sgorga.

Ma no. Non voglio respirare il profumo dei fiori, che l’innocenza odora, né voglio bere a quella fonte pura.

Mi basta questa nostalgia mistica della visione di purità per il tormento delle ore amare; mi basta la coscienza di esser dannato, come tutti i " figli del secolo " a bere a tutte le fonti impure della vita, perché io possa mai ritrovarmi, sulla mia bocca aspra, la freschezza di quell’acqua pura, che non avrei mai più per la mia sete.

Bere acqua, con dentro la luna, si, come in certe notti della mia terra natale; ma bere anche acqua con dentro il fango, come in certe altre notti delle grandi città.

Purità, purità, purità!

Chiamarti col cuore di Francesco d’Assisi, e sapersi voltolare, a carni nude, tra le spine del rosaio, da cui sbocciarono e sbocciano per sempre, le rose bianche, con la stigmata del sangue puro, alla base di ogni petalo!

Uno sguardo, quasi furtivo,— che non mi veda la madre direttrice — al mio orologio.

Manca mezz’ora, al passaggio del treno. M’inchino umilmente alla madre direttrice, che s’inchina essa pure, soave, e vado.

Odo, dietro me, la porta del piccolo mondo di sogno, che si chiude.

E scappo, sotto il morso del sole di luglio, inseguito dai gridi delle cicale, pazze di meriggio, verso la stazione di Maratea, passando tra il fortore delle vigne, degli orti opulenti, dei giardini violenti, che ubriacano di lussuria floreale.

Oh, il mio sogno, fatto lassù nella clausura dell’innocenza come se ne va distrutto!

O suore norbertine, piccole madri ideali della più alta maternità dello spirito!

Ma... non facciamo i poeti.

C’ è forse più posto per la poesia, nel mondo?

Nel treno ripenso alla mia visita rapida al bello e fiorente Istituto, vanto di Maratea e della nostra provincia, le cui sorti amministrative sono curate, con intelletto di amore, dal chiaro comm. dott. Biagio Tarantini, coadiuvato dal Sacerdote Calderaro e dal Signor Biagio Mazzeo.

Fino al 1923 è debito di onore ricordare che strenuo presidente del Consiglio di Amministrazione fu il chiaro comm. avv. Luigi Marini D’Armenia.

E mentre la fuga del treno fa scomparire Maratea, la Sinuosa, l'Armoniosa, la Bella, dietro la curva del monte, io rivedo, attonitamente, file di lettini bianchi, tovaglie di neve, volti femminili di Van Dick, incorniciati tra bende bianche, pur esse e di neve.




tratto da "la Basilicata nel Mondo" 1924 / 1927

Autore: IL NOMADE

 

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