ARBËRESHE
Va incoraggiata. fra
le ricerche interdisciplinari condotte a più riprese nelle scuole locali di
Maschito, la testimonianza che una classe la III sez. A - opportunamente
guidata dai docenti - ha stilato nell’anno scolastico 1998 - 1999, nella
Scuola Media Statale “Rosario e Luigi GIURA” ed a cui diamo spazio, in
questo volume patrocinato dal Comune, perché sia di stimolo prezioso alle
nuove generazioni della comunità albanofona.
Magari promuovendole con apposite borse di studio e viaggi all’estero oltre
che in Albania.
In ciascuno di noi vive il passato, la nostra esistenza presente non è altro
che il prodotto finale di molteplici fattori che si sono sommati nel tempo e
che ci caratterizzeranno in un certo modo, rendendoci unici ed irripetibili.
Considerando fondamentale la conoscenza del sé, abbiamo cercato di
rintracciare nella “cultura” del passato quelle origini che sembrano ormai
perse.
E' nel colore, nel sapore, nelle mille sfumature delle piccole cose di
tutti i giorni che è possibile ricollegare i fili che si sono spezzati. Non
è un ritorno al passato come chiusura al futuro, ma uno sguardo alle radici
per migliorare la conoscenza del sé all’interno del processo della vita.
Il tempo a disposizione era minimo (cinque lezioni di due ore ciascuna)
sfruttando alcune ore del “Tempo Pieno” del venerdì, abbiamo avviato uno
studio di base della struttura della lingua Arbëreshe e delle tradizioni
popolari agganciate alle leggende.
Per prima cosa abbiamo studiato la fonetica, prerequisito indispensabile per
la comprensione e l’uso di una lingua. Abbiamo notato che le regole di base
sono spesso simili a quelle del Greco che invece non vengono più utilizzate
nella lingua dell’Albania.
Abbiamo studiato l’indicativo dei verbi essere e avere ed imparato alcune
storielle popolari.
Entrando nel mondo dolce della ninna-nanna che una volta le mamme e le nonne
cantavano a figli e nipotini per addormentarli, abbiamo colto la differenza
tra il mondo caldo ed accogliente che non c’è più e quello attuale fatto
spesso di freddi meccanismi.
Abbiamo potuto volgere significativamente il cuore e la mente al passato,
per comprendere meglio il presente.
Poche sono le conoscenze acquisite ma tanto il loro valore, giacché abbiamo
cominciato la frantumazione del muro di indifferente ignoranza nei confronti
“del mondo” d’origine.
Perché gli Arbëreshe - come ribadì in un convegno seguitissimo a Napoli nel
1899 il molisano prof. Guglielmo Ciarla - con le musiche ed in
particolare “con il canto celebrano le nozze, vanno incontro agli ospiti più
distinti e cari, combattono e vincono; può darsi che vivano una vita tutta
musicale. Ma la loro è una musica fioca, triste, malinconica che rispecchia
le sofferenze, i dolori, le loro persecuzioni”.
Siamo entrati nel mondo delle tradizioni popolari, delle storielle,
filastrocche e nenie.
E stato curioso sapere che prima il paese era circondato da grossi alberi,
il più grande di tutti era un pioppo di quasi due metri di diametro, situato
accanto alla Fontana Skenderbeu, quando si voleva offendere una persona
molto alta ma non intelligente si soleva ripetere:
“Ai karusha eshte sa qupi ta kroj.”
Gli adulti, quando prendevano in braccio un bambino, per farlo ridere lo
sistemavano sulle gambe e facendogli battere le mani ripetevano:
“Lanne, Lanne, pupti lanne
laj dorat e ben llasanjat
ndijat’eme neng do
laj dorat e ecu dhetrò”.
“Lava, lava, bimbo lava
lava le mani e fai le lasagne
se tua madre non vuole
lavati le mani e vai a ritirarti.”
Era un semplice giochino, sufficiente però a divertire i pargoletti di una
volta che ne ridevano felici.
Così pure per la storiella delle dita:
“Ki thote me vjen uri
Ki thote neng kimi buke
Ki thote vemi viedhemi
ki thote e ndi na zenjen e na vene nder galé?
Piripiq, piripaq buka ta shporte
Vera te kenata mishte ta patili
E Llucia neng a pervoi
E vate bjia ma bithe ta kroi”.
Questo dito dice Mi viene fame;
Quest’altro dice: Non abbiamo pane;
Questo dice: Andiamo a rubare;
Quest’altro dice: E se ci prendono e ci mettono in galera?
Piripiq, piripaq il pane è nel cesto;
il vino nella brocca,
la carne nel tegame
E Lucia non li ha assaggiati
ed è finita con il sedere nella fontana.
Gli abitanti di Maschito, fino a più di mezzo secolo fa, parlavano tra loro
sempre in lingua Albanese ma quando dovevano dare ordini agli animali da
soma lo facevano in dialetto italiano (n.d.A. l’idioma corrente attualmente
in Maschito, con consistenti new entries venosini e murgici oltre che
americanismi, sia per le tonalità, le desinenze sui generis, il
consonantismo doppio inesistente, che per i cosiddetti “calchi fonetici”
Arbëreshe inframezzati da frasi e lemmi genuinamenle skipetari, è
catalogabile - a livello scientifico - come una vera e propria lingua pidgin
su cui avviare una specifica ricerca gIotto-antropologica anche in
collaborazione con l’Università della Basilicata ).
E' stato ancora curioso sentire i nomi che, anticamente. venivano attribuiti
ad alcuni paesi vicini: Ginestra veniva chiamata “Nderzhure” (sotto il feudo
di Jura Francesco n.d.A.) ed i suoi abitanti venivano denominati “Zhurjani”;
Atella era per i maschitani “Ndèle” perché avevano distorto il significato
reale del nome.
Quando ad una persona veniva la malattia detta dell’orticaria, kur nje djale
o nje vaize kishe kuklit, vej ta shpia gjitonit e thoj shpéit shpéit, per
tre volte si andava a dire in casa del vicino “Ketu ti le !” (Qui te la
lascio.) Ancora le nonne cantavano per fare divertire i nipoti a loro
affidati, dai genitori al lavoro nei campi ed altrove: “E nani ti ti vata
macia pe di dhri, vata gardhe gardhe Vata qjeje nje cope larde e se te mos e
shihije njari, vata a haje mhe Shen Mbrie”.
Cioè “E dunque la gatta andò attraverso le viti, andò da una siepe
all’altra, sino a riuscire a trovare un bel pezzo di lardo e per mangiarselo
in pace senza essere visto da nessuno, è andata a nascondersi nei pressi
della Madonna del Caroseno”.
Durante il lungo inverno di una volta, accanto al fuoco scoppiettante del
camino, gli anziani spesso ricordavano, a coloro che erario seduti sulla
panca, la leggenda riguardante il furto di un bue da una masseria.
Erano quelli del 1700 - 1800 tempi duri, il cibo non era affatto abbondante
per tutti e spesso della povera gente si improvvisava ladra per reperire un
pò di proteine non solo vegetali. Però dopo essere riuscito a rubare, dal
proprio recinto, l’animale. rischiarono di essere scoperti dalla
gendarmeria. Che fecero?
Lo coprirono con un largo panno funebre e cominciarono tutti insieme “a
piangere il morto” con queste parole: “Klania vlazeretjma se bashka kat’e
klami dhe bashka kat’e hami” (Piangiamolo fratelli che assieme dobbiamo
piangerlo ed assieme dobbiamo mangiarlo).
Al che i gendarmi che non conoscevano la lingua albanese, del posto,
credendo che si trattasse veramente di un funerale, ritornarono sui loro
passi e tutto finì in gloria.
Inoltre, quando il colle Mustafà sì copriva di una leggera coltre di neve,
ai bambini felicissimi di andare a scorazzare e giocare a palle di neve, sì
raccontava una simpatica filastrocca: “Nani bie dhebora LuI Kolli me nje
dore, nani bie shi Lal Kolli me nje si”. Si trattava di un semplice ma utile
scioglilingua che aiutava i bimbi ad imparare le parti del corpo umano,
secondo gli psicologi della scuola dell’infanzia contemporanea a conoscere
“lo schema corporeo”.
La vita semplice e grama dei contadini del tempo si ravvivava, però, durante
le grandi festività, soprattutto di carattere religioso.
A Pasqua tutti erano in fermento, a raccogliere frasche e legname d’ogni
specie, per poter allestire un grande falò sul sagrato della chiesa del
Caroseno. I ragazzi, silenziosamente, con la croce in mano andavano su e giù
da una parte all’altra del paese a cercare legna da ardere per la “santa
pìra” nel momento della Resurrezione di Cristo. Ciascuno portava, poi, un
po’ di quella brace a casa propria a titolo di benedizione ed in segno di
purificazione.
Per l’occasione sì consumavano, tanti i forni a legna in attività, taralli
impastati senza Iievito “Hami kulacët”. |