Capitolo Secondo
ETA' MODERNA
1. Dai Guevara ai Carafa
Ferdinando il Cattolico, Re di Spagna, venuto in possesso del Regno di
Napoli (1503) (1) confermò ad Antonio de Guevara (1504) il titolo di
Conte della città di Potenza e delle Terre di Anzi, Noia, Vignola e
Rocca Imperiale, con i feudi disabitati di Trivigno, Robisco, Trisaja,
Caramola e Rotunda (2).
Lazaro Mathès, capitano degli Strazioti, per i servigi resi alla Corona
ottenne da Carlo V d'Asburgo e re di Spagna (subentrato per eredità nel
Regno di Napoli) il 30 marzo 1514 il Privilegio Regio di ripopolare due
casali nel Regno: Trivigno e San Chirico con la facoltà di farli abitare
da Greci e da Albanesi e con la franchigia, per dieci anni, da ogni
tassazione spettante alla Regia Curia (3). In esecuzione di tale
Privilegio il Conte di Potenza Giovanni de Guevara nel 1519 concesse al
Mathès in fitto il feudo di Trivigno. Con molta probabilità il
ripopolamento, se ci fu, non dette gli effetti sperati; il feudo ritornò
a Carlo de Guevara che alla morte del padre (1531) pagò il relevo anche
per Trivigno (4) e lo concesse in fitto a Bernaldo de Bernaldi,
Provinciale del Monastero delle monache di San Luca di Potenza.
Carlo nel 1541 rinunciò per un decennio a tutte le entrate derivanti dal
feudo di Trivigno in favore del già citato Monastero, quasi del tutto
decaduto a causa della peste e di altri incidenti (5).
Per quanto riguarda il trasferimento dei feudi va ricordato che la Regia
Curia conservava il diritto di riacquistare in ogni momento le terre
concesse per rivenderle o donarle ad altri; in genere ai feudatari era
consentito effettuare i passaggi feudali tramite vendite dirette o
all'asta quando i creditori lo pretendevano per recuperare i loro
crediti.
I creditori di Carlo de Guevara nel 1569 fecero porre in vendita la Terra
di Anzi e il feudo di Trivigno che vennero acquistati dal banchiere Gian
Giacomo Cosso per 41.900 ducati (6). Ottavio Carafa nel 1574 acquistò
dal Cosso per lo stesso prezzo la Terra di Anzi e il feudo di Trivigno
ottenendo il titolo di Marchese (7).
Sempre ben delimitato nella sua entità territoriale, il feudo di Trivigno
fu accorpato per esigenze amministrative ad Anzi e ripopolato; nel 1595
furono tassati 25 fuochi (8) (fig. 4).
Don Ottavio Carafa, I marchese di Anzi e di Trivigno, appartenente al ramo
dei Carafa della Stadera aveva sposato Costanza Carafa dei conti di
Policastro; gli successe il terzogenito Tiberio (9) che cedette al
fratello Francesco il titolo e le terre di Anzi e di Trivigno con
l'annesso feudo di San Leo. A sua volta Don Francesco Carafa il 28 marzo
1616 donò al figlio primogenito Ottavio il titolo e i relativi feudi
(10); questi alla morte dello zio Tiberio (1654), privo di figli,
ereditò i beni e il titolo di Principe di Belvedere (11).
Il Re Filippo IV, con Privilegio Regio del 2 maggio 1662, concesse alla
famiglia Pasca di acquisire la Terra di Trivigno (12) che nel 1667
ritornò in possesso di Francesco I Carafa (13). Gli successe nel 1706 il
figlio Francesco Maria II che nel 1707 chiese alla Camera della Sommaria
la legale intestazione dei feudi e il riconoscimento dei titoli; quanto
richiesto non gli fu concesso immediatamente perché una vertenza
fiscale, risalente al 1634, pendeva ancora presso la Regia Camera della
Sommaria. Con il Decreto del 22 dicembre del 1721 il tribunale stabilì
che il Principe dovesse pagare dall'1 gennaio per il casale di Trivigno
una tassa di tre ducati in quanto per esso la famiglia Pasca (1662-1667)
e successivamente i Carafa non avevano pagato alcuna tassa, inoltre,
questo passaggio non era stato registrato presso la Regia Camera della
Sommaria. La causa si concluse con la sentenza del 10 marzo 1722 che
prescriveva al Principe Francesco Maria II Carafa di pagare il relevo
per la morte del padre per poter ottenere che gli venissero intestate la
terra di Belvedere con il casale di Diamante, la terra di Anzi con il
casale di Trivigno e l'annesso feudo di San Leo oltre al riconoscimento
dei titoli che gli spettavano (14). Egli a sua volta concesse alla
moglie, Principessa Elisabetta Vanden Eynden, la rendita derivante dal
feudo di Trivigno (15). I beni e i titoli furono ereditati nel 1764, dal
figlio Carlo (16), nel 1787 da Francesco Maria III, nel 1805 da Marino
Carafa ultimo feudatario di Trivigno. I Francesi, subentrati ai Borboni
nel Regno di Napoli, abolirono la feudalità con la legge del 2 agosto
1806; il Principe, come prescritto, continuò a godere dei titoli e delle
rendite delle terre allodiali (17). Don Marino essendo separato nei beni
dalla moglie, Principessa Donna Marianna Gaetani dei duchi di
Laurenzana, venne condannato dal tribunale a pagare in beneficio di
costei una quota della dote ricevuta in contanti; in esecuzione della
sentenza cedette alla consorte il diritto di esigere il terraggio
dell'ex feudo di Trivigno e questo fu riconosciuto dalla Gran Corte
Civile di Napoli nel 1829 (18).
Morto il Principe (1830) ereditarono i diritti la moglie e i figli, Carlo
e Giulia sposata a Don Filippo Saluzzi, Duca di Corigliano. Con la
scomparsa della madre e del fratello Don Carlo, avvenuta a Trivigno il 2
ottobre 1832 (19), Giulia rimase l'unica erede. Si estinse così la
famiglia Carafa che per oltre due secoli aveva avuto in possesso la
Terra di Trivigno.
2. Beni feudali e burgensatici
II Principe Carafa aveva pieno possesso di tutto il territorio di
Trivigno, con piani, colline, monti, boschi, acque e strade.
Il feudo comprendeva il demanio feudale (territori appartenenti alla
Corona e dati in concessione al feudatario) e i beni burgensatici -
(proprietà privata del feudatario, pertanto non soggetta a vincoli
feudali) con tutti i diritti che il feudatario in essi poteva esercitare
(20).
Il demanio feudale era costituito da centinaia di tomoli di terreno
coltivato e dal bosco Torricelle, che era la parte ricadente nel feudo
di Trivigno dell'antico bosco di Cerreta (Aedes Cereris) che si
estendeva tra Anzi e Trivigno (21). Per i terreni coltivati i cittadini
di Trivigno pagavano un esoso terraggio, cioè un tomolo di grano per
ogni tomolo di terreno seminato a grano, e un tomolo di orzo per ogni
tomolo coltivato a orzo o ad altre sementi.
Il feudatario riscuoteva complessivamente 350 tomoli di grano che,
valutati a 5 carlini il tomolo, davano una rendita annua di 175 ducati,
e 180 tomoli di orzo che, a 25 grani al tomolo, davano una rendita annua
di 45 ducati; per il bosco Torricelle riscuoteva 150 ducati l'anno,
lasciando ai cittadini il godimento degli usi civici e di metà del
frutto (cioè metà della ghianda prodotta dal bosco) come si evince dal
relevo del 1603 (22). I Carafa, approfittando della debolezza dello
Stato centrale, misero progressivamente a coltura altri 300 tomoli di
terreno dell'esteso bosco Torricelle per ottenere un'ulteriore rendita
derivante dal terraggio riducendo, in tale modo, gli usi civici della
comunità e recando a questa un altro grave danno.
I beni burgensatici erano costituiti dai territori del feudo di San Leo
confinante con il feudo di Trivigno (23); esso era coltivato dai
trivignési che pagavano come fitto un tomolo di prodotto seminato per
ogni tomolo di terreno. Per questi territori i Carafa riscuotevano 350
tomoli di grano duro e 300 tomoli di saragolla (qualità di grano
pregiato) che, valutati a 5 carlini al tomolo, davano una rendita annua
di 325 ducati, nonché 200 tomoli di orzo che, a 25 grani il tomolo,
davano una rendita di 50 ducati. Il Principe consentiva ai vassalli di
valersi per nutrire i bovi e le vacche di loro proprietà di tanto fieno
quanto ne produceva mezzo moggio di terra e, se insufficiente, essi
dovevano comprarlo. Per tutti i territori demaniali e burgensatici
riscuoteva arbitrariamente 120 ducati per la vendita dell'erba
statonica, autunnale e vernotica, la spiga e la fida dei buoi (20 grani
a bove) che pascolavano nei terreni per i quali i vassalli già pagavano
il terraggio (24).
Il feudatario esercitava anche tutta una serie di jussi (diritti) che
comportavano gravosi oneri per i vassalli; esigeva 27 ducati per
concedere il permesso di piantare vigne, giardini, costruire case,
stazzi intorno all'abitato. I tributi venivano corrisposti al
Governatore che risiedeva ad Anzi, però per i due feudi non teneva
contabilità separate; tale sistema danneggiava soprattutto i naturali di
Trivigno determinando molti soprusi. Per sanare questa situazione nel
1707 il Principe Francesco Maria II cercò di mettere ordine
nell'amministrazione feudale dando in fitto la mastrodattia di Trivigno,
per 68 ducati, a Domenico Missanello, la gestione dei mulini a Biase
Postiglione, per 68 ducati e i diritti della piazza e della fida a
Domenico Colusso, per 6 ducati. Impose all'Università di gestire i due
forni di sua proprietà riscuotendo un canone annuo di 120 ducati,
esercitava anche il diritto di proibitiva sui mulini e sulle gualcherie
(attrezzature tessili). Corrispondeva, a sua volta, 18 ducati a Giovanni
Angelo Sassano, quale guardiano del bosco di Trivigno (25).
Il Principe era proprietario in paese di un palazzo ubicato di fronte alla
Chiesa Madre, rione Piazza, messo a disposizione del Sig. Agente, suo
rappresentante, e i relativi magazzini per custodire i prodotti
provenienti dalle rendite feudali, una taverna adibita ad alloggio per i
forestieri, a fienile e stalla per i cavalli dell'Agente e dei
guardiani, e una vigna data in godimento all'Agente quale parziale
compenso per il servizio che egli esercitava. Alla custodia del feudo
provvedevano tre guardiani, ad essi venivano corrisposti 150 ducati
oltre la fornitura di grano, di olio, di sale e di formaggio (26).
I Principi Carafa, come quasi tutti coloro che avevano feudi in
Basilicata, risiedevano a Napoli (dove c'era la Corte Regia) ed
esercitavano i diritti feudali attraverso ufficiali di loro fiducia.
La Corte locale era costituita dal Governatore rappresentante del Principe
e residente ad Anzi. Egli, quale Giudice di prima istanza, aveva il
compito di amministrare la giustizia civile, criminale e mista (27),
nonché le cause derivanti dalla riscossione delle decime e dei legati
pii. Il potere giurisdizionale del Governatore dapprima era limitato
solo all'esame delle cause civili e dei piccoli reati; successivamente
Alfonso I di Aragona (1441) concesse ai Baroni il mero e misto imperio
et gladii potestatem; per tutto il periodo delle dominazioni aragonese,
spagnola e austriaca il Governatore, quale rappresentante del
feudatario, eccetto che nelle cause di diretta competenza dei Tribunali
superiori, ebbe la potestà di emettere per un gran numero di reati pene
che potevano anche arrivare all'estremo supplizio o alla confisca dei
beni. Il Re Carlo III di Borbone limitò le attribuzioni del Governatore
che poteva giudicare in materia criminale solo piccoli reati,
conservando, rispetto a quelli più gravi, la funzione di polizia
giudiziaria. Il Governatore nell'amministrazione della giustizia era
assistito talvolta da un Consultore (generalmente il governatore di un
feudo vicino, che forniva parere legale e veniva pagato dalle parti
interessate) e dal Mastrodatti (Magister Actorum) che, in qualità di
Cancelliere, provvedeva all'autentica e alla pubblicazione delle
sentenze, alla compilazione di tutti gli atti riguardanti la Corte
locale e alla conservazione degli originali (28).
Il Governatore, su richiesta dell'Università, doveva provvedere
all'esazione forzata delle pene pecuniarie dei contravventori renitenti
e all'esecuzione dei provvedimenti emanati dai Tribunali. Di norma
doveva essere forestiero, veniva nominato annualmente dal feudatario e
sottoposto, dopo l'anno di esercizio, al giudizio del sindacato di due
probi cittadini nominati dall'Università, se ritenuto meritevole poteva
essere riconfermato. Questo meccanismo, buono in se stesso, si prestava
ad essere disatteso per l'estrema durezza con cui il Governatore
esercitava il suo potere, appoggiato molto spesso da corrotti
rappresentanti dell'Università. Egli, per l'esercizio delle sue
competenze, godeva di esigui diritti giudiziali e della casa fornitagli
dal feudatario; a causa degli scarsi introiti erano frequenti le
concussioni e le estorsioni perpetrate ai danni del popolo. Nel feudo di
Trivigno il Governatore era rappresentato da un Luogotenente, detto
anche Erario residente in loco, che aveva il compito di esigere i
tributi, mantenere stretti contatti con i rappresentanti
dell'Università, essere presente nei Parlamenti pubblici avvalendosi
della collaborazione di un Mastrodatti. Per la notifica degli atti vi
erano i serventi della Corte che fungevano da uscieri e da inservienti.
3. L'Università e le sue
magistrature
Le Magistrature preposte al governo dell'Università (Universitas Civium)
erano rappresentate dal Sindaco, un Capo Eletto, due Eletti (Magnifici
Regimentari) e il Giudice della Bagliva.
Il Sindaco era il responsabile dell'amministrazione; per la parte
economica era coadiuvato da tre eletti dal popolo che con lui
condividevano gli oneri e le responsabilità del potere.
Il Capo Eletto, in caso di assenza o d'impedimento del Sindaco, ne faceva
le veci; tutti gli Eletti, oltre le particolari mansioni amministrative
loro delegate dal Sindaco, avevano l'incarico d'interessarsi di quanto
potesse occorrere al popolo, facendosi interpreti delle varie necessità
presso gli altri Magistrati, il Governatore e il Principe.
Le cariche riguardanti la conduzione dell'Università erano elettive ed
annuali (dal 1 settembre al 31 agosto); ad esse potevano accedere tutti
i cittadini che avevano compiuto 18 anni e avevano le capacità; erano
esclusi le donne, i preti, i miserabili, i condannati a pene infamanti,
i debitori dell'Università e coloro che avevano cause pendenti con essa.
Il Sindaco, previo avviso dato ad alta voce dal banditore, convocava un
pubblico Parlamento che si teneva in piazza il 4 agosto di ogni anno
(29) (se tale giorno cadeva di domenica bisognava avere il permesso del
Vicario Foraneo); i cittadini eleggevano i successori, la nomina però
poteva essere sempre revocata dal popolo. Tutti i parlamenti, anche
quelli convocati per altri motivi, dovevano svolgersi con le stesse
modalità, per essere validi era necessaria la presenza del Governatore
o, in sua vece, del Luogotenente; il Mastrodatti verbalizzava le
deliberazioni che venivano legalizzate attraverso un Atto Pubblico
redatto da un notaio in presenza di due testimoni; il Giudice della
Bagliva aveva il compito di fare osservare i regolamenti di polizia
rurale e di elevare le contravvenzioni ai trasgressori.
4. La chiesa
ricettizia di San Pietro Apostolo: dal patronato alla cura delle
anime
La diffusa presenza nelle aree rurali e più interne della Basilicata di
chiese ricettizie, dalle origini peraltro ancora incerte, è dovuta
all'accentuata tendenza di forme di vita microeconomiche di pura
sussistenza che ebbero un ruolo primario, non solo nella storia del
clero meridionale, ma nella stessa storia della società meridionale, dal
Basso Medioevo all'Unità d'Italia (30).
La Chiesa ricettizia, innumerata e curata era un'associazione di preti
locali, dotati dalla propria famiglia di un patrimonio che veniva
gestito in massa comune, di per sé inalienabile, dal Capitolo dei
chierici; le rendite dovevano essere equamente divise tra i componenti
del Capitolo (sacra distributio). Era definita innumerata perché il
Reverendo Capitolo aveva la facoltà di ammettere ad esso un numero
illimitato di componenti purché nati nella stessa Terra (essendo stata
istituita come chiesa dalla Università) dopo che il Vescovo aveva
accertato, attraverso un saggio di probità e di dottrina, la loro
idoneità; era detta curata perché tutti i sacerdoti partecipanti erano
tenuti a collaborare nella cura delle anime attraverso la catechesi, la
predicazione, la celebrazione della Santa Messa insieme al parroco che
era solo un primus inter pares (31).
L'Università di Trivigno e il Clero (32), in un atto notarile del 1675,
stabilirono i patti relativi al servizio che il Reverendo Capitolo
avrebbe dovuto svolgere a vantaggio della collettività assumendo
ufficialmente il suo ruolo, oltre che religioso, anche sociale e civile.
L'Università a sua volta avrebbe corrisposto annualmente al Clero 30
ducati e 20 grani per le cere, 63 ducati e mezzo per le funzioni,
inclusi i 6 ducati per la lettura del Passio; al posto delle decime
avrebbe versato un quarto di grano per ciascun bove, o per ciascuna
casata se questa fosse stata sprovvista. L'Università a causa della
estrema povertà della Chiesa avrebbe fornito ai sacerdoti i paramenti,
gli arredi sacri, la farina per le ostie e 12 ducati per le spese delle
feste principali e per la visita del Vescovo. Il Clero, da parte sua,
avrebbe servito la comunità in ogni momento e celebrato tre messe
settimanali. Nello stesso atto si elaborò lo jus mortuorum: si convenne
che per officiare con prete e chierico il funerale di un bambino fino a
7 anni di età si dovessero pagare 2 carlini e 4 candele, per un ragazzo
fino a 14 anni 6 carlini e 1 libbra di cera. Per il funerale di un
adulto si fissò il pagamento in 20 carlini e 2 libbre di candele; nel
rispetto della volontà del defunto la famiglia avrebbe potuto chiedere
l'intervento di tutto il Clero, la messa cantata e la tumulazione nella
Chiesa Madre; la spesa sarebbe stata di 35 carlini e 2 libbre di cera;
questa convenzione venne ulteriormente chiarita nei dettagli nel 1692
(33).
Nel tempo tra il Clero e l'Università si crearono delle incomprensioni e
controversie tanto da ricorrere alla mediazione del principe Carafa; il
18 gennaio 1705 (34), in presenza del notaio Francesco Spasiano e
dell'Agente del principe, Pietro Cancillari, si ebbe la riconferma dei
patti; il Sindaco dell'Università, Egidio Allegretto, e gli altri
Eletti, Francesco Antonio Iemundo, Giovanni Coluzza e Gregorio de
Sagoda, acconsentirono di versare al Clero altri 26 ducati e mezzo
giungendo ad un totale di circa 90 ducati l'anno. I sacerdoti, da parte
loro, s'impegnarono di solennizzare tutte le festività, celebrare la
messa mattinale per il comodo della collettività che, già dal 10 giugno
1704 (35), versava al Clero 8 ducati e mezzo all'anno per l'acquisto
nella fiera di Grottole dell'incenso e della cera necessari per le
funzioni religiose. Si fornì in tal modo, una minima rendita per il
funzionamento della parrocchia e il mantenimento del Clero al quale si
provvedeva, peraltro, con lasciti alla Chiesa da parte dei privati
cittadini (36). Il Capitolo del Reverendo Clero gestiva anche i lasciti
fatti dai naturali al Monte dei poveri, più comunemente detto Congrega
della Beneficienza. La gestione delle rendite da parte del Clero era
stata affidata inizialmente all'Economo Curato; per il disordine e
l'imprecisione con cui era tenuta il Vescovo di Acerenza incaricò
l'Università (37), proprio perché essa conservava sulla chiesa il
patronato laico, nelle persone degli Eletti Domenico Santangelo, Mastro
Antonio Garzonetto, Gregorio Beneventi, di riscuotere quanto dovuto alla
Cappella di Sant Antonio di Padova, 27 ducati per il grano venduto, 124
ducati, 4 tarì e 11 grani per la vendita di animali e altri lasciti.
Dispose, inoltre, che Francesco Sassano, esattore delle collette, dovesse
utilizzare metà del riscosso in acquisto di fedi di credito del Banco di
Santo Spirito di Napoli e l'altra parte devolverla alla Beneficenza, per
darla ad annuo censo a persone solvibili. Il Reverendo Capitolo aveva
accumulato un notevole patrimonio che non poteva essere alienato né
donato, ma solo permutato al meliorandum; il Clero finì col gestire di
fatto l'economia del paese. Questa gestione così privatistica dei beni
ecclesiastici creò tra i sacerdoti tensioni e discordie costringendo più
volte il Vescovo ad intervenire, né mancarono controversie anche con la
Corte Marchesale. Nel 1734 Carlo III di Borbone, nel provvedimento di
modifica dell'intero sistema di tassazione, previde che le rendite
derivanti dai beni ecclesiastici, da sempre esenti da imposte, fossero
tassate. In seguito al Concordato del 1741 le imposte vennero limitate
ai soli beni che erano al di fuori del patrimonio sacro, e dimezzate per
quelli acquisiti anteriormente a tale data.
Dal Catasto Onciario (38) si apprende che il Clero di Trivigno era
costituito da ventotto sacerdoti e da un parroco-arciprete; tutti
risultavano essere proprietari di case, terreni, animali e, rispetto
alla collettività costituita da massari, artigiani e bracciali, godevano
di una condizione economica abbastanza buona; vivevano di solito presso
la famiglia d'origine con cui condividevano i beni e ne accrescevano il
prestigio.
Il Clero della Chiesa ricettizia, innumerata e curata della Terra di
Trivigno il 28 marzo 1792 chiese che gli Statuti su cui si fondava la
Chiesa ricevessero il Regio Assenso che venne concesso il 13 giugno 1792
dalla Reale Camera di Santa Chiara di Napoli (39).
Gli Statuti non ledevano in alcun modo i diritti della sovranità e del
pubblico, regolavano il buon governo, l'esercizio ecclesiastico, oltre
che l'amministrazione dei beni della chiesa e prevedevano che ad essa
fossero ascritte solo persone nate nella stessa Terra. Essi erano
costituiti da 24 articoli: i primi 13 regolavano minuziosamente le
mansioni spettanti all'Arciprete, al Cantore e, come da antica
consuetudine, la suddivisione degli emolumenti tra tutti i sacerdoti; i
successivi 5 disciplinavano l'immissione alla Chiesa dei Chierici,
previa licenza dell'Arcivescovo, e stabilivano i loro doveri nel
triennio del noviziato; gli ultimi 6 individuavano e regolavano il
servizio dei sacrestani che doveva essere espletato dai suddiaconi
avvicendandosi nei compiti loro assegnati. Per ridare tranquillità al
Clero, essendo sorte varie controversie interne, su richiesta
dell'arciprete don Francesco Antonio Abbate il 3 settembre 1814 (40) gli
Statuti vennero riconfermati e rese più dettagliate le norme riguardanti
gli obblighi, la suddivisione dei proventi delle Messe e delle decime,
la regolamentazione delle funzioni religiose in occasione della morte di
un sacerdote.
L'Arciprete, Don Giuseppe Passarella, e il Clero il 14 febbraio 1847 (41)
rettificarono lo Statuto e la Chiesa di Trivigno per uniformarlo allo
Statuto Generale (art. 31) e alle altre Reali Disposizioni. Il primo
articolo era molto importante perché la Chiesa di Trivigno, sotto il
titolo di San Pietro Apostolo, oltre ad essere ricettizia, diveniva
numerata con 12 titoli incluso il parroco; prescriveva che la rendita
della Chiesa (614,80 ducati) dovesse essere così distribuita: al
parroco, per sua congrua 150 ducati, e 2 porzioni di 10 ducati da dare a
coloro che si erano distinti nel servizio della Chiesa e nella cura
delle anime; i rimanenti 360 ducati erano divisi in 9 porzioni di 40
ducati e spettava all'Ordinario della Chiesa conferirli agli
ecclesiastici naturali che avevano assolto al loro ministero con
devozione e con zelo. La Chiesa conservava sempre due dignità:
l'Arciprete-Parroco che era il capo, e il Cantore; con l'assegnazione
dei vari compiti, responsabilità e onorari, la gerarchia ecclesiastica
era ben definita. Queste nuove norme modificarono i rapporti esistenti
nel Clero: si passò da una situazione quasi paritaria nella dignità,
nella suddivisione dei compiti e delle rendite, ad una posizione
preminente dell'autorità del parroco. Dopo pochi anni gli eventi storici
modificarono radicalmente il rapporto tra Chiesa e Stato; in base alla
legge del 7 luglio 1866 i beni e le rendite della parrocchia furono
incamerati dallo Stato Italiano che istituì il Fondo per il Culto; ad
esso venne affidata l'amministrazione dei Beni Ecclesiastici e al Clero
fu corrisposto un assegno che versava al parroco per il suo ufficio; per
la definizione di quest'ultimo sorsero contestazioni tra le parti che
terminarono, anche se solo in parte, con l'emissione del Decreto Sovrano
del 28 luglio 1898, in esso fu chiarito che spettava al Comune sostenere
tutte le spese per l'espletamento del culto (42). |