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rivigno - Dal Medioevo all'età Contemporanea
Raffaella Brindisi Setari
 

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Capitolo Secondo

ETA' MODERNA

1. Dai Guevara ai Carafa

Ferdinando il Cattolico, Re di Spagna, venuto in possesso del Regno di Napoli (1503) (1) confermò ad Antonio de Guevara (1504) il titolo di Conte della città di Potenza e delle Terre di Anzi, Noia, Vignola e Rocca Imperiale, con i feudi disabitati di Trivigno, Robisco, Trisaja, Caramola e Rotunda (2).
Lazaro Mathès, capitano degli Strazioti, per i servigi resi alla Corona ottenne da Carlo V d'Asburgo e re di Spagna (subentrato per eredità nel Regno di Napoli) il 30 marzo 1514 il Privilegio Regio di ripopolare due casali nel Regno: Trivigno e San Chirico con la facoltà di farli abitare da Greci e da Albanesi e con la franchigia, per dieci anni, da ogni tassazione spettante alla Regia Curia (3). In esecuzione di tale Privilegio il Conte di Potenza Giovanni de Guevara nel 1519 concesse al Mathès in fitto il feudo di Trivigno. Con molta probabilità il ripopolamento, se ci fu, non dette gli effetti sperati; il feudo ritornò a Carlo de Guevara che alla morte del padre (1531) pagò il relevo anche per Trivigno (4) e lo concesse in fitto a Bernaldo de Bernaldi, Provinciale del Monastero delle monache di San Luca di Potenza.
Carlo nel 1541 rinunciò per un decennio a tutte le entrate derivanti dal feudo di Trivigno in favore del già citato Monastero, quasi del tutto decaduto a causa della peste e di altri incidenti (5).
Per quanto riguarda il trasferimento dei feudi va ricordato che la Regia Curia conservava il diritto di riacquistare in ogni momento le terre concesse per rivenderle o donarle ad altri; in genere ai feudatari era consentito effettuare i passaggi feudali tramite vendite dirette o all'asta quando i creditori lo pretendevano per recuperare i loro crediti.
I creditori di Carlo de Guevara nel 1569 fecero porre in vendita la Terra di Anzi e il feudo di Trivigno che vennero acquistati dal banchiere Gian Giacomo Cosso per 41.900 ducati (6). Ottavio Carafa nel 1574 acquistò dal Cosso per lo stesso prezzo la Terra di Anzi e il feudo di Trivigno ottenendo il titolo di Marchese (7).
Sempre ben delimitato nella sua entità territoriale, il feudo di Trivigno fu accorpato per esigenze amministrative ad Anzi e ripopolato; nel 1595 furono tassati 25 fuochi (8) (fig. 4).
Don Ottavio Carafa, I marchese di Anzi e di Trivigno, appartenente al ramo dei Carafa della Stadera aveva sposato Costanza Carafa dei conti di Policastro; gli successe il terzogenito Tiberio (9) che cedette al fratello Francesco il titolo e le terre di Anzi e di Trivigno con l'annesso feudo di San Leo. A sua volta Don Francesco Carafa il 28 marzo 1616 donò al figlio primogenito Ottavio il titolo e i relativi feudi (10); questi alla morte dello zio Tiberio (1654), privo di figli, ereditò i beni e il titolo di Principe di Belvedere (11).
Il Re Filippo IV, con Privilegio Regio del 2 maggio 1662, concesse alla famiglia Pasca di acquisire la Terra di Trivigno (12) che nel 1667 ritornò in possesso di Francesco I Carafa (13). Gli successe nel 1706 il figlio Francesco Maria II che nel 1707 chiese alla Camera della Sommaria la legale intestazione dei feudi e il riconoscimento dei titoli; quanto richiesto non gli fu concesso immediatamente perché una vertenza fiscale, risalente al 1634, pendeva ancora presso la Regia Camera della Sommaria. Con il Decreto del 22 dicembre del 1721 il tribunale stabilì che il Principe dovesse pagare dall'1 gennaio per il casale di Trivigno una tassa di tre ducati in quanto per esso la famiglia Pasca (1662-1667) e successivamente i Carafa non avevano pagato alcuna tassa, inoltre, questo passaggio non era stato registrato presso la Regia Camera della Sommaria. La causa si concluse con la sentenza del 10 marzo 1722 che prescriveva al Principe Francesco Maria II Carafa di pagare il relevo per la morte del padre per poter ottenere che gli venissero intestate la terra di Belvedere con il casale di Diamante, la terra di Anzi con il casale di Trivigno e l'annesso feudo di San Leo oltre al riconoscimento dei titoli che gli spettavano (14). Egli a sua volta concesse alla moglie, Principessa Elisabetta Vanden Eynden, la rendita derivante dal feudo di Trivigno (15). I beni e i titoli furono ereditati nel 1764, dal figlio Carlo (16), nel 1787 da Francesco Maria III, nel 1805 da Marino Carafa ultimo feudatario di Trivigno. I Francesi, subentrati ai Borboni nel Regno di Napoli, abolirono la feudalità con la legge del 2 agosto 1806; il Principe, come prescritto, continuò a godere dei titoli e delle rendite delle terre allodiali (17). Don Marino essendo separato nei beni dalla moglie, Principessa Donna Marianna Gaetani dei duchi di Laurenzana, venne condannato dal tribunale a pagare in beneficio di costei una quota della dote ricevuta in contanti; in esecuzione della sentenza cedette alla consorte il diritto di esigere il terraggio dell'ex feudo di Trivigno e questo fu riconosciuto dalla Gran Corte Civile di Napoli nel 1829 (18).
Morto il Principe (1830) ereditarono i diritti la moglie e i figli, Carlo e Giulia sposata a Don Filippo Saluzzi, Duca di Corigliano. Con la scomparsa della madre e del fratello Don Carlo, avvenuta a Trivigno il 2 ottobre 1832 (19), Giulia rimase l'unica erede. Si estinse così la famiglia Carafa che per oltre due secoli aveva avuto in possesso la Terra di Trivigno.

2. Beni feudali e burgensatici

II Principe Carafa aveva pieno possesso di tutto il territorio di Trivigno, con piani, colline, monti, boschi, acque e strade.
Il feudo comprendeva il demanio feudale (territori appartenenti alla Corona e dati in concessione al feudatario) e i beni burgensatici - (proprietà privata del feudatario, pertanto non soggetta a vincoli feudali) con tutti i diritti che il feudatario in essi poteva esercitare (20).
Il demanio feudale era costituito da centinaia di tomoli di terreno coltivato e dal bosco Torricelle, che era la parte ricadente nel feudo di Trivigno dell'antico bosco di Cerreta (Aedes Cereris) che si estendeva tra Anzi e Trivigno (21). Per i terreni coltivati i cittadini di Trivigno pagavano un esoso terraggio, cioè un tomolo di grano per ogni tomolo di terreno seminato a grano, e un tomolo di orzo per ogni tomolo coltivato a orzo o ad altre sementi.
Il feudatario riscuoteva complessivamente 350 tomoli di grano che, valutati a 5 carlini il tomolo, davano una rendita annua di 175 ducati, e 180 tomoli di orzo che, a 25 grani al tomolo, davano una rendita annua di 45 ducati; per il bosco Torricelle riscuoteva 150 ducati l'anno, lasciando ai cittadini il godimento degli usi civici e di metà del frutto (cioè metà della ghianda prodotta dal bosco) come si evince dal relevo del 1603 (22). I Carafa, approfittando della debolezza dello Stato centrale, misero progressivamente a coltura altri 300 tomoli di terreno dell'esteso bosco Torricelle per ottenere un'ulteriore rendita derivante dal terraggio riducendo, in tale modo, gli usi civici della comunità e recando a questa un altro grave danno.
I beni burgensatici erano costituiti dai territori del feudo di San Leo confinante con il feudo di Trivigno (23); esso era coltivato dai trivignési che pagavano come fitto un tomolo di prodotto seminato per ogni tomolo di terreno. Per questi territori i Carafa riscuotevano 350 tomoli di grano duro e 300 tomoli di saragolla (qualità di grano pregiato) che, valutati a 5 carlini al tomolo, davano una rendita annua di 325 ducati, nonché 200 tomoli di orzo che, a 25 grani il tomolo, davano una rendita di 50 ducati. Il Principe consentiva ai vassalli di valersi per nutrire i bovi e le vacche di loro proprietà di tanto fieno quanto ne produceva mezzo moggio di terra e, se insufficiente, essi dovevano comprarlo. Per tutti i territori demaniali e burgensatici riscuoteva arbitrariamente 120 ducati per la vendita dell'erba statonica, autunnale e vernotica, la spiga e la fida dei buoi (20 grani a bove) che pascolavano nei terreni per i quali i vassalli già pagavano il terraggio (24).
Il feudatario esercitava anche tutta una serie di jussi (diritti) che comportavano gravosi oneri per i vassalli; esigeva 27 ducati per concedere il permesso di piantare vigne, giardini, costruire case, stazzi intorno all'abitato. I tributi venivano corrisposti al Governatore che risiedeva ad Anzi, però per i due feudi non teneva contabilità separate; tale sistema danneggiava soprattutto i naturali di Trivigno determinando molti soprusi. Per sanare questa situazione nel 1707 il Principe Francesco Maria II cercò di mettere ordine nell'amministrazione feudale dando in fitto la mastrodattia di Trivigno, per 68 ducati, a Domenico Missanello, la gestione dei mulini a Biase Postiglione, per 68 ducati e i diritti della piazza e della fida a Domenico Colusso, per 6 ducati. Impose all'Università di gestire i due forni di sua proprietà riscuotendo un canone annuo di 120 ducati, esercitava anche il diritto di proibitiva sui mulini e sulle gualcherie (attrezzature tessili). Corrispondeva, a sua volta, 18 ducati a Giovanni Angelo Sassano, quale guardiano del bosco di Trivigno (25).
Il Principe era proprietario in paese di un palazzo ubicato di fronte alla Chiesa Madre, rione Piazza, messo a disposizione del Sig. Agente, suo rappresentante, e i relativi magazzini per custodire i prodotti provenienti dalle rendite feudali, una taverna adibita ad alloggio per i forestieri, a fienile e stalla per i cavalli dell'Agente e dei guardiani, e una vigna data in godimento all'Agente quale parziale compenso per il servizio che egli esercitava. Alla custodia del feudo provvedevano tre guardiani, ad essi venivano corrisposti 150 ducati oltre la fornitura di grano, di olio, di sale e di formaggio (26).
I Principi Carafa, come quasi tutti coloro che avevano feudi in Basilicata, risiedevano a Napoli (dove c'era la Corte Regia) ed esercitavano i diritti feudali attraverso ufficiali di loro fiducia.
La Corte locale era costituita dal Governatore rappresentante del Principe e residente ad Anzi. Egli, quale Giudice di prima istanza, aveva il compito di amministrare la giustizia civile, criminale e mista (27), nonché le cause derivanti dalla riscossione delle decime e dei legati pii. Il potere giurisdizionale del Governatore dapprima era limitato solo all'esame delle cause civili e dei piccoli reati; successivamente Alfonso I di Aragona (1441) concesse ai Baroni il mero e misto imperio et gladii potestatem; per tutto il periodo delle dominazioni aragonese, spagnola e austriaca il Governatore, quale rappresentante del feudatario, eccetto che nelle cause di diretta competenza dei Tribunali superiori, ebbe la potestà di emettere per un gran numero di reati pene che potevano anche arrivare all'estremo supplizio o alla confisca dei beni. Il Re Carlo III di Borbone limitò le attribuzioni del Governatore che poteva giudicare in materia criminale solo piccoli reati, conservando, rispetto a quelli più gravi, la funzione di polizia giudiziaria. Il Governatore nell'amministrazione della giustizia era assistito talvolta da un Consultore (generalmente il governatore di un feudo vicino, che forniva parere legale e veniva pagato dalle parti interessate) e dal Mastrodatti (Magister Actorum) che, in qualità di Cancelliere, provvedeva all'autentica e alla pubblicazione delle sentenze, alla compilazione di tutti gli atti riguardanti la Corte locale e alla conservazione degli originali (28).
Il Governatore, su richiesta dell'Università, doveva provvedere all'esazione forzata delle pene pecuniarie dei contravventori renitenti e all'esecuzione dei provvedimenti emanati dai Tribunali. Di norma doveva essere forestiero, veniva nominato annualmente dal feudatario e sottoposto, dopo l'anno di esercizio, al giudizio del sindacato di due probi cittadini nominati dall'Università, se ritenuto meritevole poteva essere riconfermato. Questo meccanismo, buono in se stesso, si prestava ad essere disatteso per l'estrema durezza con cui il Governatore esercitava il suo potere, appoggiato molto spesso da corrotti rappresentanti dell'Università. Egli, per l'esercizio delle sue competenze, godeva di esigui diritti giudiziali e della casa fornitagli dal feudatario; a causa degli scarsi introiti erano frequenti le concussioni e le estorsioni perpetrate ai danni del popolo. Nel feudo di Trivigno il Governatore era rappresentato da un Luogotenente, detto anche Erario residente in loco, che aveva il compito di esigere i tributi, mantenere stretti contatti con i rappresentanti dell'Università, essere presente nei Parlamenti pubblici avvalendosi della collaborazione di un Mastrodatti. Per la notifica degli atti vi erano i serventi della Corte che fungevano da uscieri e da inservienti.

3. L'Università e le sue magistrature

Le Magistrature preposte al governo dell'Università (Universitas Civium) erano rappresentate dal Sindaco, un Capo Eletto, due Eletti (Magnifici Regimentari) e il Giudice della Bagliva.
Il Sindaco era il responsabile dell'amministrazione; per la parte economica era coadiuvato da tre eletti dal popolo che con lui condividevano gli oneri e le responsabilità del potere.
Il Capo Eletto, in caso di assenza o d'impedimento del Sindaco, ne faceva le veci; tutti gli Eletti, oltre le particolari mansioni amministrative loro delegate dal Sindaco, avevano l'incarico d'interessarsi di quanto potesse occorrere al popolo, facendosi interpreti delle varie necessità presso gli altri Magistrati, il Governatore e il Principe.
Le cariche riguardanti la conduzione dell'Università erano elettive ed annuali (dal 1 settembre al 31 agosto); ad esse potevano accedere tutti i cittadini che avevano compiuto 18 anni e avevano le capacità; erano esclusi le donne, i preti, i miserabili, i condannati a pene infamanti, i debitori dell'Università e coloro che avevano cause pendenti con essa.
Il Sindaco, previo avviso dato ad alta voce dal banditore, convocava un pubblico Parlamento che si teneva in piazza il 4 agosto di ogni anno (29) (se tale giorno cadeva di domenica bisognava avere il permesso del Vicario Foraneo); i cittadini eleggevano i successori, la nomina però poteva essere sempre revocata dal popolo. Tutti i parlamenti, anche quelli convocati per altri motivi, dovevano svolgersi con le stesse modalità, per essere validi era necessaria la presenza del Governatore o, in sua vece, del Luogotenente; il Mastrodatti verbalizzava le deliberazioni che venivano legalizzate attraverso un Atto Pubblico redatto da un notaio in presenza di due testimoni; il Giudice della Bagliva aveva il compito di fare osservare i regolamenti di polizia rurale e di elevare le contravvenzioni ai trasgressori.

4. La chiesa ricettizia di San Pietro Apostolo: dal patronato alla cura delle anime

La diffusa presenza nelle aree rurali e più interne della Basilicata di chiese ricettizie, dalle origini peraltro ancora incerte, è dovuta all'accentuata tendenza di forme di vita microeconomiche di pura sussistenza che ebbero un ruolo primario, non solo nella storia del clero meridionale, ma nella stessa storia della società meridionale, dal Basso Medioevo all'Unità d'Italia (30).
La Chiesa ricettizia, innumerata e curata era un'associazione di preti locali, dotati dalla propria famiglia di un patrimonio che veniva gestito in massa comune, di per sé inalienabile, dal Capitolo dei chierici; le rendite dovevano essere equamente divise tra i componenti del Capitolo (sacra distributio). Era definita innumerata perché il Reverendo Capitolo aveva la facoltà di ammettere ad esso un numero illimitato di componenti purché nati nella stessa Terra (essendo stata istituita come chiesa dalla Università) dopo che il Vescovo aveva accertato, attraverso un saggio di probità e di dottrina, la loro idoneità; era detta curata perché tutti i sacerdoti partecipanti erano tenuti a collaborare nella cura delle anime attraverso la catechesi, la predicazione, la celebrazione della Santa Messa insieme al parroco che era solo un primus inter pares (31).
L'Università di Trivigno e il Clero (32), in un atto notarile del 1675, stabilirono i patti relativi al servizio che il Reverendo Capitolo avrebbe dovuto svolgere a vantaggio della collettività assumendo ufficialmente il suo ruolo, oltre che religioso, anche sociale e civile. L'Università a sua volta avrebbe corrisposto annualmente al Clero 30 ducati e 20 grani per le cere, 63 ducati e mezzo per le funzioni, inclusi i 6 ducati per la lettura del Passio; al posto delle decime avrebbe versato un quarto di grano per ciascun bove, o per ciascuna casata se questa fosse stata sprovvista. L'Università a causa della estrema povertà della Chiesa avrebbe fornito ai sacerdoti i paramenti, gli arredi sacri, la farina per le ostie e 12 ducati per le spese delle feste principali e per la visita del Vescovo. Il Clero, da parte sua, avrebbe servito la comunità in ogni momento e celebrato tre messe settimanali. Nello stesso atto si elaborò lo jus mortuorum: si convenne che per officiare con prete e chierico il funerale di un bambino fino a 7 anni di età si dovessero pagare 2 carlini e 4 candele, per un ragazzo fino a 14 anni 6 carlini e 1 libbra di cera. Per il funerale di un adulto si fissò il pagamento in 20 carlini e 2 libbre di candele; nel rispetto della volontà del defunto la famiglia avrebbe potuto chiedere l'intervento di tutto il Clero, la messa cantata e la tumulazione nella Chiesa Madre; la spesa sarebbe stata di 35 carlini e 2 libbre di cera; questa convenzione venne ulteriormente chiarita nei dettagli nel 1692 (33).
Nel tempo tra il Clero e l'Università si crearono delle incomprensioni e controversie tanto da ricorrere alla mediazione del principe Carafa; il 18 gennaio 1705 (34), in presenza del notaio Francesco Spasiano e dell'Agente del principe, Pietro Cancillari, si ebbe la riconferma dei patti; il Sindaco dell'Università, Egidio Allegretto, e gli altri Eletti, Francesco Antonio Iemundo, Giovanni Coluzza e Gregorio de Sagoda, acconsentirono di versare al Clero altri 26 ducati e mezzo giungendo ad un totale di circa 90 ducati l'anno. I sacerdoti, da parte loro, s'impegnarono di solennizzare tutte le festività, celebrare la messa mattinale per il comodo della collettività che, già dal 10 giugno 1704 (35), versava al Clero 8 ducati e mezzo all'anno per l'acquisto nella fiera di Grottole dell'incenso e della cera necessari per le funzioni religiose. Si fornì in tal modo, una minima rendita per il funzionamento della parrocchia e il mantenimento del Clero al quale si provvedeva, peraltro, con lasciti alla Chiesa da parte dei privati cittadini (36). Il Capitolo del Reverendo Clero gestiva anche i lasciti fatti dai naturali al Monte dei poveri, più comunemente detto Congrega della Beneficienza. La gestione delle rendite da parte del Clero era stata affidata inizialmente all'Economo Curato; per il disordine e l'imprecisione con cui era tenuta il Vescovo di Acerenza incaricò l'Università (37), proprio perché essa conservava sulla chiesa il patronato laico, nelle persone degli Eletti Domenico Santangelo, Mastro Antonio Garzonetto, Gregorio Beneventi, di riscuotere quanto dovuto alla Cappella di Sant Antonio di Padova, 27 ducati per il grano venduto, 124 ducati, 4 tarì e 11 grani per la vendita di animali e altri lasciti.
Dispose, inoltre, che Francesco Sassano, esattore delle collette, dovesse utilizzare metà del riscosso in acquisto di fedi di credito del Banco di Santo Spirito di Napoli e l'altra parte devolverla alla Beneficenza, per darla ad annuo censo a persone solvibili. Il Reverendo Capitolo aveva accumulato un notevole patrimonio che non poteva essere alienato né donato, ma solo permutato al meliorandum; il Clero finì col gestire di fatto l'economia del paese. Questa gestione così privatistica dei beni ecclesiastici creò tra i sacerdoti tensioni e discordie costringendo più volte il Vescovo ad intervenire, né mancarono controversie anche con la Corte Marchesale. Nel 1734 Carlo III di Borbone, nel provvedimento di modifica dell'intero sistema di tassazione, previde che le rendite derivanti dai beni ecclesiastici, da sempre esenti da imposte, fossero tassate. In seguito al Concordato del 1741 le imposte vennero limitate ai soli beni che erano al di fuori del patrimonio sacro, e dimezzate per quelli acquisiti anteriormente a tale data.
Dal Catasto Onciario (38) si apprende che il Clero di Trivigno era costituito da ventotto sacerdoti e da un parroco-arciprete; tutti risultavano essere proprietari di case, terreni, animali e, rispetto alla collettività costituita da massari, artigiani e bracciali, godevano di una condizione economica abbastanza buona; vivevano di solito presso la famiglia d'origine con cui condividevano i beni e ne accrescevano il prestigio.
Il Clero della Chiesa ricettizia, innumerata e curata della Terra di Trivigno il 28 marzo 1792 chiese che gli Statuti su cui si fondava la Chiesa ricevessero il Regio Assenso che venne concesso il 13 giugno 1792 dalla Reale Camera di Santa Chiara di Napoli (39).
Gli Statuti non ledevano in alcun modo i diritti della sovranità e del pubblico, regolavano il buon governo, l'esercizio ecclesiastico, oltre che l'amministrazione dei beni della chiesa e prevedevano che ad essa fossero ascritte solo persone nate nella stessa Terra. Essi erano costituiti da 24 articoli: i primi 13 regolavano minuziosamente le mansioni spettanti all'Arciprete, al Cantore e, come da antica consuetudine, la suddivisione degli emolumenti tra tutti i sacerdoti; i successivi 5 disciplinavano l'immissione alla Chiesa dei Chierici, previa licenza dell'Arcivescovo, e stabilivano i loro doveri nel triennio del noviziato; gli ultimi 6 individuavano e regolavano il servizio dei sacrestani che doveva essere espletato dai suddiaconi avvicendandosi nei compiti loro assegnati. Per ridare tranquillità al Clero, essendo sorte varie controversie interne, su richiesta dell'arciprete don Francesco Antonio Abbate il 3 settembre 1814 (40) gli Statuti vennero riconfermati e rese più dettagliate le norme riguardanti gli obblighi, la suddivisione dei proventi delle Messe e delle decime, la regolamentazione delle funzioni religiose in occasione della morte di un sacerdote.
L'Arciprete, Don Giuseppe Passarella, e il Clero il 14 febbraio 1847 (41) rettificarono lo Statuto e la Chiesa di Trivigno per uniformarlo allo Statuto Generale (art. 31) e alle altre Reali Disposizioni. Il primo articolo era molto importante perché la Chiesa di Trivigno, sotto il titolo di San Pietro Apostolo, oltre ad essere ricettizia, diveniva numerata con 12 titoli incluso il parroco; prescriveva che la rendita della Chiesa (614,80 ducati) dovesse essere così distribuita: al parroco, per sua congrua 150 ducati, e 2 porzioni di 10 ducati da dare a coloro che si erano distinti nel servizio della Chiesa e nella cura delle anime; i rimanenti 360 ducati erano divisi in 9 porzioni di 40 ducati e spettava all'Ordinario della Chiesa conferirli agli ecclesiastici naturali che avevano assolto al loro ministero con devozione e con zelo. La Chiesa conservava sempre due dignità: l'Arciprete-Parroco che era il capo, e il Cantore; con l'assegnazione dei vari compiti, responsabilità e onorari, la gerarchia ecclesiastica era ben definita. Queste nuove norme modificarono i rapporti esistenti nel Clero: si passò da una situazione quasi paritaria nella dignità, nella suddivisione dei compiti e delle rendite, ad una posizione preminente dell'autorità del parroco. Dopo pochi anni gli eventi storici modificarono radicalmente il rapporto tra Chiesa e Stato; in base alla legge del 7 luglio 1866 i beni e le rendite della parrocchia furono incamerati dallo Stato Italiano che istituì il Fondo per il Culto; ad esso venne affidata l'amministrazione dei Beni Ecclesiastici e al Clero fu corrisposto un assegno che versava al parroco per il suo ufficio; per la definizione di quest'ultimo sorsero contestazioni tra le parti che terminarono, anche se solo in parte, con l'emissione del Decreto Sovrano del 28 luglio 1898, in esso fu chiarito che spettava al Comune sostenere tutte le spese per l'espletamento del culto (42).

 

 

 

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