9. Dialetto e costume
a) Con la dominazione normanna (sec. XII-XIII) si diffuse il modo francese
d'indicare una persona, oltre che con il nome proprio, con il
patronimico come figlio di (di Alessandro, di Marco). L'indicazione
patronimica dette luogo in vario modo alla formazione dei cognomi con la
trasformazione del di in de (di Marco in de Marco, di Alessandro in
d'Alessandro), con il diminutivo del nome del padre (di Cicco in
Ciccariello), o con l'indicazione latineggiante di una qualità del padre
(Jaco-bellis), oppure individuando i membri di una famiglia con il
plurale del nome paterno (da Guarino, Guarini; da Coronato, Coronati; da
Volino, Volini). I cognomi potevano anche essere matronimici: derivare
da un antico soprannome della madre (la Pelosa trasformatosi in Peloso,
Pelusi), o da un suffisso accrescitivo o diminutivo del nome materno (da
Maria, Mariotta, Marotta; da Giovanna, Gianna, Giannarella). Frequenti
furono i cognomi derivanti da nomi di persona (da Biase, Blasi), dal
mestiere di un antenato (Pellettieri), da qualità o difetti fisici
(Ciano, dagli occhi azzurri, Pacifico, Ritorti, Rotunno, Stancarone),
dal vestiario (Coppola da animali selvatici (Lence), da uccelli
(Jerinò), da pesci (la Raja), da fiori (Gilio), da legumi (Cecere), dal
ceto sociale (Villano), dai mesi dell'anno (Maggio), dalle monete
(Taccone) e dai colori (Russo, da rosso di capelli). Molti cognomi
derivarono da città o da altri toponimi (Brindisi, Padula, Sassano,
Vignola), altri erano di origine straniera: greca (Basile), francese
(Ciliberti), germanica (Gioffredi, Guarino, Stasi), catalana o spagnola
(Moles, Savarese), albanese (Musacchio), o derivavano da nazioni
(Grieco, Ungaro), da tradizioni religiose cristiane (Prejte, Abbate,
Paternostro). Infine alcuni cognomi (Doto, Saluzzo, Varallo, Zito, dal
piemontese citto, bambino) rivelavano l'elemento gallitalico derivante
dall'immigrazione piemontese.
I cognomi presenti a Trivigno riportati secondo l'anno di registrazione
erano (85):
1664: Ciano, Ciccariello, de Acierno, de Consolo, di Grazia, di Sarlo,
Ferretti, Jemundo, La Rocca, Lenge, Lillo, Masciore, Padula, Pirriello,
Sanarese, S. Lucia (Montepeloso), Zito.
1665: Beneditto, Carramone, Cianciullo, Cortese, de Blasi, Diano,
Faniello, Ferzola, Gioscia (Castelmezzano), Guarino, Guidone, la Raja,
Li Moli, Lo Sacco, Muliere, Passarella, Raimundo, Rotunda, Spasiano,
Valenzano, Vignola.
1666: Allegretto, Aluano (Montepeloso), Buscicchio, Ciraldo, de
Alessandro, de Brindisi, de Maggio, de Marco, di Nella, di Vietri,
Felitto, Galgano, Garzonetto, Grieco, Crisi, Lauria, Martoccia,
Morgoglione, Pastore, Petrosino, Potenza, Restaino, Rizzo, Sarno,
Sant'Angelo, Virtuccio.
1667: Amolino. Bernalda, Ciliberto, de Rinaldo, Ionno (Albano), José
(gendarme), Marsilio, Ragho, Santoro, Scarrone (località in tenimento di
Albano).
1668: Carosiello, Cammarota, Duragho (gendarme), de Perna, de Staso,
Grippo, Miraglia, Missanello, Petrone, Scielzo, Tomia (Matera).
1669: Adone, Baione, Canallo, Cecere, Coluzzo, di Roma, La Plescia, Lanza,
Lo Puzo, Puzzutiello.
1670: Brancato (Castelmezzano), de Lorenzo, de Rosa, Lo Iacono, Procaccio.
1671: Doto, La Pelosa, Russo.
1672: Casella, Iacovazzo, Lochino, Lombardo, Petruzzo, Prejte, Pisano,
Sassano.
1673 Abbate, Brancalione (Catania), Coppola, Coronato, de Fina, Magnante,
Marino, Pagano, Paternostro, Pizzuto.
1674: de Amico, Gurga, Manno (Laurenzana), Rizzuto, Ungaro.
1676: Crapullo, la Salandra (Tricarico).
1678: Consalvo, de Salvia, Maggio.
1679: Motta, Muschatello, Pacifico.
1680: Marotta.
1681: Avigliano, de Bonis, Masiello, Matullo.
1682: Ambrisi, Polidoro.
1684: Cinefra, Caporale, Postiglione, Russo.
1701: di Scato, Vitale.
1702: Blescia, Gianarella, Limolis, Venezia (Vaglio).
1703: Epifani, Galante, Grasso, Lauria, Palerme.
1721: di Mola, Imbriano, Riso.
1723: Lamonea.
1724: Morena (Laurenzana).
1726: Corleta, de Filippis, di Lorenzo, Pitaccone.
1740: Romano (Tolve), Marino (Grassano).
1747: Giudice (Tito).
1753: Barbarito, Calabrese (Anzi).
1757: Lobosco.
1763: Grippo (Pietragalla)
1768: Pisani (Brindisi), Catalano (Vaglio).
1769: Camarano (Camerota).
1770: Lione (Brindisi di Montagna).
1772: Blasi (Abriola), Marsicano (Viggiano), Riviello (Calvello).
1774: Bilotto (Montemurro) de Stefano (Anzi), del Giudice (Santa Maria
diocesi di Policastro), di Greppio (Dianae civitatis), di Melfi (Anzi),
Palumbo (Brindisi), Peluso (Montemurro).
1776: Scalese (Brindisi).
1777: Ninnivaccio (Altamura), Marrone (Laurenzana).
1783: Manes (Brindisi).
1785: Ruoti (Mola).
1789: Monserrato (Castelmezzano).
1790: Lavanga (Brindisi).
1792: Nicolino (Campomaggiore).
1793: Pisillo (Calvello), Cirone (Calvello), Cutro (Anzi), Pellettieri
(Castelmezzano)
1799: Castiglia.
1801: Carbone (Campomaggiore).
1803: Bonelli (Spinoso).
1805: Coppola (Altomonte).
1806: Calace (Brindisi, Canosa (Castelmezzano).
1809: Lavigna (Laurenzana).
1812: Lotesto (Spinoso).
1813: Nobile (Spilogatri)
1815: Rubino (Abano).
1817: Iula, Panebianco, Urso.
1819: Agreste, Arenace.
1820: Elefante, Guida.
1822: Modena, Spina, Sinisi, Vetrani.
1823: Emma, Tolla.
1825: Biscaglia (Campomaggiore), Basta (Brindisi di Montagna), Angerame
(Albano).
1826: Belli, Granieri, Salbitani, Villamene (Tolve).
1846: Conca, Cascinolo (Petrella), Libonati (Montemurro).
1848: Di Leo, Ruotolo.
1850: Dores (Brindisi), La Torre.
1851: Terzella, Villani.
1852: Dolce, Staduti.
1853: Quirino.
1854: Borsa, Braia, de Fino.
1855: Carilli, Mesogna.
1856: Acerenza.
1858: Giardino.
1859: Rivelli.
1861: Nardi, Sabatino, Summa.
1862: Sannazzaro.
1863: Santomauro.
1864: Cafara, De Feliciis, De Vito, Nigro, Venuto.
1866: Tobia (Polla).
1868: Pecora (Brindisi).
1886: Maffezzoni.
b) Fin dai tempi della Magna Grecia l'Italia Meridionale era fortemente
esposta alla penetrazione ellenica attraverso le colonie greche presenti
sulla fascia costiera. Nel V sec. d.C., tramontato definitivamente
l'Impero Romano d'Occidente, questi territori attraversarono una
gravissima crisi e le popolazioni costiere, a causa dell'impaludamento
dei litorali e del conseguente sviluppo della malaria, si spostarono
nell'interno in luoghi impervi e inaccessibili. Tale isolamento permise
il mantenimento delle antiche culture greca e latina (86). Nel dialetto
di Trivigno sono presenti vocaboli derivati dal greco:
attan(e) o anche tàtt (padre) da atta: padre;
kaccav(e) (caldaia usata dai pastori) da kàkkabos: caldaia;
kamastra (catena del focolare) da kremástra, catena del focolare;
kattar(e) da katàra, imprecazione;
ped(e) cataped(e) piede innanzi piede, da Kàta pous: piede vicino;
salma (soma) da súgma: soma;
vocaboli derivanti dal latino:
crài (domani) da cras, domani;
p(e)scrai, (poidomani), da post-cras: il giorno dopo;
tredicina (preghiera ripetuta per tredici giorni) da tredecim fere,
all'incirca tredici;
ruit(e) da ruo (stridere, cigolare per l'approssimarsi di una tempesta).
Il latino, evolvendosi nell'italiano e nei dialetti delle regioni
italiane, venne a modificare il sistema vocalico basato su vocali lunghe
e brevi, sviluppando un nuovo sistema vocalico (87) nel quale è
fondamentale la qualità delle vocali aperte o chiuse nel seguente modo:
la a ,i, u brevi (v) o lunghe (-) hanno dato luogo a: a, i, u
la e breve (u) o la e lunga (-) hanno dato la è aperta e la é chiusa es.
pèsca (pescare), pésca (frutto)
la o breve (u) e la o lunga (-) hanno dato la ò aperta e la o chiusa, es.
bòtte (percosse), bótte (recipiente da vino).
Questo sistema vocalico, secondo lo studioso di linguistica Gerhald
Rholfs, è valido per tutta 'Italia.
La Basilicata però presenta una tale varietà di trasformazioni che è più
giusto parlare non di dialetto lucano ma di dialetti lucani.
Tale frammentazione linguistica fu dovuta alla scarsa mobilità della
popolazione nel corso dei secoli, ciò fa sì che nessun dialetto possa
essere considerato tipico e rappresentativo dell'intera regione. La
storia linguistica lucana va scritta località per località, perché
ognuna di essa esprime una comunità dotata di un suo sistema dialettale
differente dagli altri, denotando però tutti una peculiarità lucana.
La Basilicata dialettale, a grandi linee, può dividersi in tre aree:
- arcaica o meridionale a sud del fiume Agri;
- orientale o di trasmissione costituita dalla fascia bradanica;
- centrale o intermedia che comprende i centri di Trivigno, Brindisi di
Montagna, Anzi, Albano, Capomaggiore e Pietrapertosa.
Qui talvolta la i si è evoluta in e per cui dal latino minna (mammella) si
ha il dialettale menna; si è conservata la ú breve del latino in ú
chiusa, per es. dal latino búcca (bocca) si ha il dialettale vukk(e).
Nei dialetti lucani spesso le vocali finali cambiano in e semimuta o
spariscono completamente, es. vukk(e) (bocca), kian(e) kian(e) (piano
piano).
Un altro tratto molto comune riguarda i nessi mp, nt che si cambiano in
mb, nd, ad es. camb (campa), dend (dente). Altre variazioni fonetiche,
morfologiche e lessicali nei dialetti locali sono dovute ad
infiltrazioni culturali e linguistiche derivanti dalle immigrazioni,
come quella galloitalica che si può collocare, secondo Gherhard Rohlf,
tra gli anni di Carlo I (1271) e quelli di Roberto d'Angiò (1343),
`quando i sovrani e forse anche i feudatari conservavano vincoli con il
Monferrato.
Tale fenomeno è concentrato, in gran parte, nella zona di Potenza e dei
comuni limitrofi: Avigliano, Cancellara, Pignola, Picerno, Tito,
Trivigno. Un'altra massiccia immigrazione si ebbe dall'Albania, più
propriamente dalle colonie albanesi dell'Epiro (Grecia settentrionale) e
da Korona nel basso Peloponneso, iniziata della metà del 1400, all'epoca
di Giorgio Castriota detto Skanderbeg, e
protrattasi
per circa due secoli. Il lungo e notevole flusso di albanesi fece sì che
queste popolazioni influenzassero le comunità autoctone con il loro
dialetto tosco-albanese, i costumi e la religione di rito greco
ripopolando zone all'epoca quasi del tutto deserte come Brindisi di
Montagna, Trivigno, San Chirico. Alcuni centri della Basilicata (Barile,
Ginestra, Maschito, San Costantino e San Paolo Albanese) sono ancora
oggi bilingui, mentre in altri (Trivigno, Brindisi, San Chirico) la
lingua albanese non è più presente.
Il dialetto dell'ultimo cinquantennio, con la mobilità della popolazione,
con le mutate condizioni economico-sociali e l'alfabetizzazione di
massa, si è andato evolvendo in un italiano parlato con inflessioni
dialettali. Sarebbe auspicabile che il dialetto fosse recuperato con un
attento studio in loco e acquisito su basi scientifiche come lingua
complementare all'italiano.
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c) Il modo di vestire della
popolazione trivignese, così come di tutti i paesi dell'Italia
Meridionale, sostanzialmente conservava per foggia, colori e caratteri
l'origine orientale (albanese e greca) (88).
a) L'abito delle donne era molto ricco e decorato, era costituito dalla
gonna arricciata in vita lunga fino al polpaccio e di vario colore:
verde, viola, rosso, loschino (grigio scuro); il tessuto invernale con
cui era realizzata era di scottino (pannolana tessuto in casa), di
filandina (flanella) o di pesante damasco rosso, detto gippone. In
estate la gonna era di setiglia (tessuto più leggero sempre di vari
colori o a fiori). La gonna era indossata al di sopra di una sottana che
poteva essere dello stesso tessuto e ad essa erano legati due pettorali
di setiglia rossa.
La camicia era bianca di tela casareccia o fine, con scollatura talvolta
orlata con pizzilli (merletti) o pinta (ricamata).
Il corpetto, per lo più, era della stessa stoffa della gonna o di seta,
copriva gran parte della spalla, mentre sul davanti era molto scollato e
da esso uscivano i pettorali di seta scarlattina (rosso acceso). Le
mezze maniche erano tenute ferme da fettucce o da nastri in modo da
lasciare uscire lo sbuffo delle maniche della camicia. Completavano il
costume il grembiule (vandesino, dal latino ante sinum) che poteva
essere di lana, di scottino, di saia, di lino, di taffittano (taffettà)
anch'esso colorato; la legatura per la testa, cioè un fazzoletto di
mussola, orletta o orlettone, era guarnita talvolta con i pizzilli;
d'inverno s'indossava anche un panno di lana rosso (scarlatto
d'Inghilterra). La sottana, il panno per la testa e talvolta le mezze
maniche venivano guarnite, secondo il ceto di appartenenza, con una
fascia di seta per il ceto dei mastri, con un gallone d'argento per le
donne del ceto dei massari, notai, medici, o con un gallone d'oro per
coloro che si ritenevano di nobiltà locale (luogotenente, mastrodatti)
(89).
Non mancavano i gioielli, come gli orecchini pendenti (sciaccaglie), o a
cerchi (ghietti), anelli, spille e catene d'oro; il collo era ornato da
un girogola, detto cannacchino, che poteva essere di granati, di coralli
o con passanti d'oro.
Nell'800 le donne di ceto più elevato andarono lentamente abbandonando il
costume che rimase in uso presso gli artigiani e i contadini, divenendo
sempre più povero.
Si preferì il colore scuro per la gonna, il corpetto e le mezze maniche; i
petti di scarlattina furono sostituiti da un fazzoletto bianco che si
portava al collo e s'incrociava sul petto (scolla).
Un semplice fazzoletto bianco, privo di merletti, copriva il capo, le
calze erano di cotone (bambacia) bianco; venivano usate come calzature
le pianelle, le contadine generalmente andavano scalze. Piuttosto
elaborata era l'acconciatura dei capelli, che erano divisi da una
scriminatura centrale e da una trasversale alla sommità del capo; le due
bande anteriori venivano girate intorno a se stesse tanto da formare due
piccoli rolli che si univano dietro in una lunga treccia, a sua volta
arrotolata su se stessa sulla parte alta della testa. Le donne delle
classi più abbienti, per tenere a posto i capelli, si servivano delle
pettinatrici (capere) che, per un magro compenso, si recavano ad
acconciare a domicilio.
b) Il costume maschile era molto semplice: consisteva in un cappello a
cono di rozzo feltro, detto alla romana (90), pantaloni corti al
ginocchio di pannolana casareccio, calze di lana senza pedale, con
pezzuole di tela grossolana che avvolgevano i piedi a cui si adattavano
calzari di cuoio (cioce) allacciati con corregge, sostituite in seguito
da rozzi scarponi la cui suola ere resa più resistente da chiodi, detti
bullette o tacce.
La camicia era di tela bianca senza collo; su di essa s'indossava un
panciotto e la giacca di pannolana piuttosto stretta e corta. D'inverno
i bracciali si coprivano con il tradizionale purzone (pelliccione senza
maniche di pelle di pecora o capra lungo fino al polpaccio) (91).
Del tutto eccezionali vanno considerati i pochi contesti familiari che,
attraverso arredi e supellettili domestici nonché indumenti personali,
evidenziavano il loro peculiare status socio-professionale come il
singolare caso del Mastrodatti Angelo Antonio Carzonetto che operò a
Trivigno tra la fine del 1600 e gli inizi del '700 (vedi Appendice III,
p. 104 ss.)
Nel tempo la foggia del costume si modificò: i bracciali cominciarono ad
usare lunghe ghette (uose, dal francese houseau) di panno marrone
allacciate lateralmente, o anche di filandina bianca. Gli artigiani e
quelli di ceto superiore sostituirono il cappello a cono con la coppola
e le brache corte con pantaloni lunghi, indossando d'inverno un mantello
di lana pesante e grossolana. Il taglio dei capelli dapprima era alla
nazarena (lunghi sul collo e corti sulla fronte), in seguito divenne
corto alla condonné (secondo l'uso dei condannati alla ghigliottina)
(92). II costume fu indossato fino alla prima metà del 1900 cadendo, in
seguito, in disuso: attualmente pochi ne conservano il ricordo. |