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rivigno - Dal Medioevo all'età Contemporanea
Raffaella Brindisi Setari
 

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8. Contesti sociali ed economici

Dopo il tentativo di ripopolare il feudo di Trivigno da parte di Lazzaro Mathès nel 1519 con popolazioni greco-albanesi (68), il Principe di Bisignano Pietrantonio Sanseverino nel 1534, con il consenso del Re, inviò nel feudo di Brindisi di Montagna e nel confinante feudo disabitato di Trivigno circa trenta famiglie di origine albanese che, insieme ai pochi indigeni superstiti del terremoto del 1456, avrebbero dovuto ripopolare queste terre ricche di boschi e di acqua (69).
Altri gruppi di Albanesi stanziati nella zona del Vulture in seguito ad una grave crisi economico-sociale, dovuta anche alle avverse condizioni meteorologiche, si spostarono nella terra di Trivigno, dove già c'erano altri conterranei, allettati dalle agevolazioni fiscali concesse dai Carafa a coloro che si trasferivano nel feudo. Il paese per tale aumento di popolazione ricomparve nella tassazione del 1595 con 25 fuochi (70). La vita di questo piccolo centro non fu facile perché le terre, essendo in gran parte rimaste incolte per molto tempo, si erano inselvatichite ed erano divenute covo di cinghiali, di lupi, di lepri e di volpi. Tutti gli abitanti, dopo un primo periodo di adattamento, provvidero a dissodare il territorio, metterlo a coltura, allevare il bestiame e piantare le vigne. Nel contempo si era andato formando sul colle, dove oggi sorge il paese, il primo agglomerato di abitazioni di fortuna, capanne in legno coperte da scannule (tavolette da spacco, lunghe circa 75 cm. e larghe 25) (71). Il centro abitato agli inizi del 1600 s'ingrandì e si estese intorno alle costruzioni simboli del potere: il palazzo feudale dei Marchesi Carafa e la Chiesa Madre. L'evoluzione sociale fu molto lenta anche a causa di eventi naturali avversi come i terremoti del 1600 e del 1626-27, gli inverni lunghi e freddi del 1605, 1608, 1610, 1612. La popolazione a poco a poco crebbe di numero anche per l'arrivo di altri albanesi, tanto che nel 1639 si contavano 80 fuochi. La comunità, che così faticosamente si era andata formando, risentì della terribile epidemia di peste del 1656 che provocò la morte di 214 persone. Ancora una volta l'immissione di popolazione albanese dette un valido contributo all'incremento demografico del paese che, come rilevò il Vescovo di Acerenza e Matera, passò dai 25 fuochi del 1661 alle 943 anime del 1667 (72).
La collettività pervasa da profonda religiosità, alimentata dal desiderio di avere la protezione divina, nel corso del 1600 costruì la Chiesa Madre di San Pietro Apostolo e le chiese di Sant'Antonio di Padova, di San Rocco, di Sant' Antuono (detto anche Sant'Antonio di Vienna) (73).
Superata la grave crisi determinata dalla peste e dal terremoto del 1694 con l'incremento della popolazione tutta la collettività costituita da bracciali, da un medico (Giambattista Guarini), da due notai (Francesco Spasiano e Vincenzo Fanelli), da un Giudice ad contractus (Angelo Garzonetto) e da alcuni sacerdoti, riprese vigore; desiderosa di migliorare iniziò ad esprimersi più incisivamente e con maggiore consapevolezza delle proprie prerogative. I rappresentanti dell'Università, interpretando l'esigenza di tutta la popolazione, stipularono con i Sacerdoti una convenzione con cui si assicurava una migliore assistenza spirituale agli abitanti; ristrutturarono intorno al 1730 la Chiesa Madre, fecero sistemare la Via Crucis, nell'abside un Coro ligneo e sull'archesto della porta grande un bellissimo organo (74) (v Appendice, II, pp. 102-103).
Per difendere gli interessi della comunità contro gli abusi dei rappresentanti del potere feudale, cominciarono a denunciare, attraverso gli Atti Pubblici, gli episodi di malgoverno compiuti dai Governatori e dai Luogotenenti, già citati.
Con la ripresa economica l'artigianato, anche se in misura modesta, si andò sviluppando soprattutto nell'arte di fabbricare (75) e di lavorare il ferro, tanto che al mastro campanaro Antonio Raga fu commissionata nel 1735 dal Clero della chiesa di San Michele di Potenza una campana da fondere a Trivigno e consegnarla entro il mese di agosto (76).
Il lavoro artigianale era scarso di commesse e non remunerativo tanto da consentire un ampliamento della bottega o un miglioramento dell'attività. Gli abitanti, a causa delle gravi ristrettezze economiche, provvedevano, in gran parte da soli alla costruzione di tutti gli attrezzi da lavoro e alle suppellettili domestiche; gli artigiani per vivere erano costretti ad esercitare il loro mestiere anche nei paesi limitrofi con un aggravio di spesa e disagi per gli spostamenti non facili per la mancanza di strade, penalizzando anche la vendita dei prodotti locali. I trivignesi, nonostante tutto, riuscivano a portare il grano a dorso di mulo per sentieri impervi e pericolosi fino alla piazza di Salerno (77). A mano a mano al di sopra dei contadini e dei maestri di bottega si andò formando il ceto dei massari, uomini capaci e intraprendenti che s'inserirono nella gestione dell'Università; raggiunto un certo benessere economico, per consentire ai figli di elevarsi socialmente li avviarono al sacerdozio o agli studi per accedere alle libere professioni. La società trivignese risultava costituita dai seguenti gruppi sociali: bracciali, artigiani, massari, civili (coloro che vivevano con la rendita delle proprie industrie), professionisti (dottori fisici, notai) e sacerdoti. Queste distinzioni erano del tutto nominali, non indicavano privilegi legali o pretese di nobiltà d'origine o di famiglia, ma servivano solo a connotare la condizione personale di ciascun cittadino nell'ambito della collettività (78).
Tutti i naturali, anche se analfabeti, potevano accedere alle cariche pubbliche, purché avessero i requisiti, inoltre si poteva passare da un ceto ad un altro, migliorare la propria posizione economica e intraprendere l'esercizio delle professioni liberali e avviarsi alla carriera ecclesiastica.
I nobili, per diritto di nascita, e il Clero, per dignità di ministero, godevano di privilegi e del titolo di Don; in seguito esso venne progressivamente esteso anche ai congiunti del sacerdote, ai dottori in utroque jure (avvocati in entrambi i diritti, civile e penale) e ai medici. Ai rappresentanti delle Magistrature dell'Università, ai notai e al mastrodatti si concedeva l'appellativo di Magnifico, agli artigiani quello di Mastro.
Le differenze sociali erano evidenziate anche dal modo di vivere e di vestire. I professionisti, i civili, i massari più benestanti vivevano in case palazziate a due piani (la più grande contava sedici stanze). L'ingresso era costituito, per lo più, da un ampio portone che si apriva in un cortile interno per consentire l'accesso ai carri e agli animali (casa Sassano, Miraglia, Beneventi, Brindisi) e ai magazzini (stalle, cantine dotate di cisterne e palmenti per pigiare l'uva), i massari meno ricchi abitavano in case formate da cinque o sei vani. Tali dimore non erano molto comode ed erano arredate senza nulla concedere al superfluo. Tutti gli altri vivevano in un unico ambiente mal ventilato, umido e buio, che riceveva luce e aria dalla porta ad un battente che si apriva direttamente sulla strada, con il camino posto in un angolo senza cacciafumo, il pavimento era in terra battuta e il tetto di tavole era ricoperto da scannule di legno o da embrici. In esso c'era grande promiscuità, trovavano ricovero anche gli animali; l'igiene era molto scarsa o addirittura inesistente e tutte le malattie, dal tifo alla difterite, vaiolo, tubercolosi, salmonellosi, malaria, sifilide e polmonite trovavano l'ambiente adatto per svilupparsi.
Il modello familiare era quello patriarcale; l'autorità paterna, la sacralità del focolare, la sobrietà dei costumi costituivano gli elementi peculiari. Si preferiva che il primogenito prendesse moglie, rimanendo sotto il tetto paterno, e che tutti i fratelli si dedicassero alla coltivazione della terra e all'allevamento del bestiame. In altri casi il nucleo familiare poteva essere costituito da due fratelli sposati che convivevano con le rispettive famiglie e gli altri fratelli celibi (79).
L'articolazione della famiglia rispondeva probabilmente al modo con cui il lavoro era socialmente organizzato. Non è chiaro in che misura incidessero su tale struttura le credenze etnico-sociali, forse di origine albanese (80), oltre le scarse possibilità economiche che impedivano la formazione di nuove famiglie, alimentando il celibato.
Il modesto patrimonio familiare rimanendo massa comune poteva accrescersi; se suddiviso non avrebbe consentito ad alcuno dei figli di avere un'indipendenza economica. Dall'analisi dei Libri dei Matrimoni (81) e dal Catasto Onciario risulta che gli uomini tendevano a sposarsi intorno ai trenta anni (piuttosto tardi, tenendo conto dell'età media del periodo) e le donne raramente al di sotto dei diciotto, proprio perché il nucleo d'origine aveva bisogno della loro forza-lavoro.
Alle donne, che con il matrimonio abbandonavano la famiglia, nel ceto dei massari venivano concessi un corredo, utensili per la nuova casa e una dote in danaro (data il giorno delle nozze o anche in più rate, secondo quanto stabilito tra il padre della vergine in capillis e lo sposo, come si evince dai contratti matrimoniali) e molto raramente una casa e una vigna.
Se uno dei figli maschi avesse voluto crearsi un nucleo familiare autonomo, essendo ancora vivo il padre, non gli sarebbe spettata alcuna quota; alla morte del genitore i beni potevano essere divisi in parti uguali tra i fratelli anche in questo caso, per lo più, continuavano ad essere amministrati in comune.
I matrimoni nella classe dei massari avvenivano in gran parte tra gli appartenenti allo stesso ceto e molte volte tra consanguinei; da ciò il gran numero di dispense chieste alla Curia di Acerenza (82) e il formarsi di una fitta rete di parentele, che costituiva un'ulteriore garanzia di reciproco sostegno e di benessere economico. I massari cercavano di avviare almeno uno dei figli, in genere il più capace, agli studi o al sacerdozio per dare lustro a tutta la famiglia e permettere al figlio di elevarsi socialmente. Questo evitava non solo la divisione del patrimonio familiare, ma consentiva di accrescerlo perché il sacerdote, che continuava a vivere in famiglia poteva dare ad annuo censo quanto ricevuto in dote e non soggetto a tassazione.
Queste famiglie, gelose della posizione raggiunta, mal sopportavano l'eccessivo fiscalismo feudale ed erano sempre desiderose di rendere il proprio patrimonio più sostanzioso, per tale motivo insieme al gran numero dei diseredati alla fine del 1600 e per tutto il '700, come è stato già detto, molte volte invasero le terre feudali, compiendo usurpazioni che degeneravano in scontri violenti con gli armigeri del feudatario, in liti e in controversie ed a esasperate tensioni. Non si tolleravano più i soprusi dei rappresentanti del potere e non si nascondeva il desiderio di rivalsa contro coloro che detenevano la ricchezza.
Con l'evoluzione della coscienza sociale nella seconda metà del 1700 i massari più abbienti ed intraprendenti, divenuti esperti nell'amministrazione delle terre avendo ottenuto in fitto una serie di masserie feudali (i Miraglia e gli Abbate a Serra del Ponte, i Brindisi in tenimento di Laurenzana, i Sassano, per un breve periodo, il feudo di Brindisi di Montagna) avviarono più figli agli studi, comprendendo che questo era il modo migliore per riscattarsi definitivamente e raggiungere una posizione sociale più elevata. L'ambiente in cui s'inserirono questi giovani a Napoli esercitò una notevole influenza sulla loro formazione; gli studenti, affascinati dallo spirito innovatore presente in esso, assorbirono i nuovi principi di uguaglianza, d'indipendenza e di partecipazione alla vita sociale. Al loro ritorno in paese venivano accolti con simpatia dal ceto di provenienza, in quanto erano ritenuti capaci di opporsi alle prepotenze del feudatario e dei suoi rappresentanti. I giovani, all'inizio, animati da lodevoli propositi accettarono il ruolo loro assegnato difendendo, anche se solo formalmente, i diritti dei più deboli.
Ben presto, tradendo ogni aspettativa e dimenticando la propria origine, aspirarono a conquistare una posizione preminente ed a inserirsi tra la nobiltà locale per condividere il potere (83); furono costretti ad assumere posizioni contrastanti con la classe sociale di provenienza.
Questi nuovi uomini, differenziatisi dal ceto originario e guardati con sospetto anche dai gentiluomini gelosi delle loro prerogative, andarono a costituire la classe dei galantuomini, che continuarono a servirsi dei ceti più miseri sfruttando il loro odio verso i ricchi, per accedere con il loro aiuto al governo dell'Università, sempre fonte di potere e benessere economico, destinati a costituire per tutto l'800 e oltre la classe dirigente. Ben presto i massari, i bracciali e gli artigiani cominciarono a diffidare dei galantuomini; il rancore provocato dal loro atteggiamento si mutò in odio quando questi, conquistate posizioni preminenti nell'ambito della collettività, ignorarono le loro aspirazioni.

 

 

 

 

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