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rivigno - Dal Medioevo all'età Contemporanea
Raffaella Brindisi Setari
 

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Capitolo Terzo

ETA' CONTEMPORANEA

1. Carboneria e restaurazione borbonica

Questo periodo, così intensamente vissuto, portò alla maturazione delle coscienze e ravvivò nella borghesia meridionale l'aspirazione ad un governo più liberale.
I rinnovati ideali fecero sì che molti lucani partecipassero alle società segrete per ottenere la libertà e la Costituzione; rivissero le associazioni dei Franco-muratori e si svilupparono le Vendite carbonare. Dal 1806 in poi si ebbe una commistione tra le Logge degli uni e le Vendite degli altri e si diffusero in molti paesi lucani prendendo particolari denominazioni: Aurora Lucana a Moliterno, Filarete Lucana a Lagonegro, La Scuola dei costumi a Marsicouovo (1).
Il Murat, secondo quanto afferma lo storico Pietro Colletta, favorì all'inizio tali associazioni anche per ingraziarsi le classi medio-basse; la borghesia, infatti, con l'applicazione delle Leggi Eversive era uscita rafforzata (2). In seguito, nel timore, peraltro fondato, che i Carbonari potessero appoggiare la restaurazione borbonica, emise ordinanze severissime (3).
Il Re Ferdinando, nel contempo, dalla Sicilia invitava i Napoletani alla riscossa promettendo il mantenimento degli ordini stabiliti, degli uffici pubblici, lasciando intravedere, con parole ambigue, la concessione di ordinamenti liberali.
Negli ultimi anni del Decennio francese la media borghesia vide nella restaurazione borbonica la possibilità di avere una Costituzione liberale sullo stampo di quella siciliana del 1812 che le permettesse di diventare classe dirigente e di avere maggiore consenso; cercò l'appoggio dei ceti più poveri con l'illusoria promessa di una soluzione più rapida della questione demaniale senza turbare l'esistente equilibrio sociale. La formula per realizzare tale equilibrio era quella della Monarchia Costituzionale che comportava nelle Vendite la diffusione di sentimenti liberali e cattolici (4). In questo modo ci fu anche l'adesione del Clero che dai Francesi era stato privato di molte prerogative e inquadrato, come gli altri funzionari, nell'ordinamento statale. Tutte queste concause determinarono una capillare diffusione della Carboneria dopo la Restaurazione Borbonica (5). La borghesia provinciale che si era andata faticosamente formando nel Decennio francese, per non compromettere la supremazia acquisita reagì ai tentativi di riscossa aristocratica e all'accentramento amministrativo; fu svantaggiata, inoltre, dalla regolamentazione della contribuzione fondiaria, dalla concorrenza del grano importato dall'estero, dalla crisi economica e comprese che, per difendere i propri interessi e i diritti di proprietà acquisiti, avrebbe dovuto avere il controllo e la gestione del potere, pertanto era indispensabile organizzarsi politicamente. Nel 1817 a Trivigno, già sede di un club giacobino fondato nel 1799, si aprì una Vendita Carbonara (6) che presumibilmente contava molti affiliati; di questi si conoscono solo i nomi del Gran Maestro, Luigi Miraglia, proprietario, di un Alto dignitario, Domenico Antonio Sassano, proprietario, del medico Saverio Lamonea (7), del dottore in utroque iure Giovanni Crisostomo Coronati, del proprietario Saverio Filitti, capo della guardia civica nel Decennio francese, del popolano Giuseppe Filitti, del sacerdote Giuseppe Passarella che partecipò anche al Senato Carbonaro della Lucania Orientale (8). Tale organismo il 4 luglio 1820 difese i diritti del popolo della Basilicata di cui si considerava rappresentante e attaccò il comandante della Divisione Territoriale, Gen. Francesco Pignatelli arrivando a parlare di repubblica (9).
L'11 agosto 1820 a Potenza si riunì la Grande Assemblea del Popolo Carbonaro della Lucania Orientale, ad essa parteciparono 88 Delegati di altrettante Vendite; quella di Trivigno fu rappresentata dal Gran Maestro Luigi Miraglia.
Con il Congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815) si ebbe la restaurazione dei Borboni sul trono di Napoli e il Re Ferdinando IV assunse il titolo di Ferdinando I Re delle Due Sicilie (10). Il Sovrano, ritenendo il Decennio francese solo un temporaneo periodo di occupazione militare, emanò leggi eccezionali contro i Murattiani e i Carbonari per intimorire i sudditi e restaurare il potere assoluto. Confermò le riforme realizzate dai francesi relative agli ordinamenti amministrativi e giudiziari, all'abolizione della feudalità, alla quotizzazione delle terre demaniali, alla razionalizzazione del sistema fondiario e alle leggi sulla Pubblica Istruzione, apportando modifiche in quelle parti che servivano a consolidare il proprio potere, ad esempio la nomina del sindaco non fu più di competenza dei decurioni ma del Governo (Decreto del 4 settembre 1815) (11).
La Basilicata in questo periodo rimase relativamente tranquilla, anche se tutti i ceti sociali avevano grandi difficoltà per la crisi granaria, per il ristagno economico, per l'eccessiva imposizione fiscale, per l'amministrazione partigiana dei governanti e per la mancata promulgazione della promessa Costituzione. Profonda insoddisfazione c'era anche nel Clero che, con il ritorno dei Borboni, aveva sperato di riacquistare i vantaggi perduti ma, con il Concordato stipulato nel 1818 tra lo Stato e la Chiesa, venne sottoposto ad una più rigorosa vigilanza da parte del Vescovo per migliorare l'organizzazione e la qualità della struttura ecclesiastica (12).
Alla notizia dello scoppio della rivoluzione in Spagna (Cadice, 2 luglio 1820) in Campania vi fu la sollevazione di Nola e di Avellino, seguita quasi contemporaneamente da Potenza e dalla Provincia di Basilicata. Tali avvenimenti costrinsero il Re il 6 luglio a concedere la Costituzione, entrando in aperto contrasto con i principi fissati dalla Santa Alleanza (Russia, Prussia, Austria), nella cui orbita gravitava il Regno di Napoli (13). Nel Congresso di Lubiana (gennaio 1821) dall'Austria fu ordinato, al connivente e acquiesciente Ferdinando, di ritirare la Costituzione e deciso l'intervento dell'esercito austriaco a Napoli. In tutto il Regno grande fu l'indignazione per il comportamento del Re; ai liberali non restò che organizzarsi per difendere la Costituzione e opporsi all'esercito austriaco; da tutti i paesi lucani schiere di legionari partirono alla volta di Napoli (14), gli austriaci però meglio armati e preparati sconfissero i patrioti il 7 marzo 1821 ad Androdoco.
Il Sovrano, oltre al ritiro della Costituzione, emanò tutta una serie di decreti repressivi e istituì una Corte Marziale per giudicare e punire esemplarmente i rivoltosi. Furono erogate pene severissime, la polizia indagò su tutti coloro che, in qualche modo, avevano partecipato al moto; fra i tanti anche i trivignesi Saverio Lamonea e Giuseppe Filitti furono schedati, il primo come "uomo pernicioso in tutti i tempi, essendo un repubblicano costituzionale" (15), il secondo perché "capace di qualsiasi eccesso, pernicioso all'ordine pubblico e al Governo" (16).
Dopo gli avvenimenti del 1820-21 in paese i galantuomini, che avevano aderito alla Carboneria, cercarono di esercitare e di rafforzare il potere attraverso le cariche comunali e i pubblici uffici; i nullatenenti sempre più insoddisfatti per la scarsa quotizzazione delle terre feudali e oppressi dalla miseria, erano in grande fermento; la situazione molto incerta rendeva lecito da parte di tutti ogni tipo di sopruso.
I Sovrani Borbonici, succeduti a Ferdinando I (Francesco I 1825-30, Ferdinando II 1830-59, Francesco II 1859), non dettero prova di buon governo. La popolazione continuò a vivere nelle più precarie condizioni in quanto l'economia prevalentemente agricola, già poco redditizia durante il Decennio francese, s'impoverì ulteriormente con riflessi negativi anche sulla vita sociale.
La caduta del prezzo del grano (17) non fornì più ai benestanti e alla massa contadina un reddito, anche se modesto. Tutto ciò avvenne nel totale disinteresse dello Stato che continuava ad imporre tasse (sullo sfarinato, sulla carne) e una serie di balzelli.
L'Amministrazione Comunale, così come risulta dall'esame dei bilanci (18), avendo a sua disposizione pochissime entrate fu costretta a ridurre le spese per soddisfare le necessità più impellenti e risolvere i problemi indilazionabili relativi alla costruzione del cimitero, ai lavori di ristrutturazione della Chiesa Madre, all'approvvigionamento idrico, alla viabilità, alla salute pubblica all'istruzione. Il Governo nel 1817, riconfermando il Decreto Napoleonico del 5 settembre 1806, stabilì per garantire la salute pubblica che il Camposanto fosse ubicato lontano dall'abitato. L'Amministrazione Comunale fece presente all'Intendente di Basilicata che, per difficoltà economiche, avrebbe potuto provvedere solo ad una più idonea sistemazione del luogo denominato Monte dei Morti ubicato in contrada Coste, da sempre adibito a sepoltura e dotato di una Cappella con cella ipogea (19).
Tale proposta fu respinta perché il luogo era troppo vicino all'abitato, né fu accolta quella di costruire il Camposanto in località Serra di Sant'Antonio lontana un quarto di miglio, ma troppo onerosa per la collettività. L'Amministrazione comunale nel 1819 scelse un'area idonea in località Castelluccio; i lavori furono appaltati per 1010 ducati, ben presto tutto fu sospeso perché dai fondi stanziati furono stornati 488 ducati richiesti dallo Stato quale sussidio alle famiglie dei soldati veterani; previo permesso accordato dalle Autorità competenti si continuò a seppellire nella Chiesa Madre. Una nuova Disposizione Reale nel 1837 vietò la sepoltura nei luoghi destinati al culto; il Comune con provvedimento immediato sospese le sepolture nella Chiesa Madre anche se fu costretto, per mancanza di fondi, a utilizzare l'antico Camposanto nonostante i problemi d'igiene pubblica e le contestazioni dei cittadini (20). Altre necessità si presentarono in tutta la loro urgenza e inderogabilità; nel 1840, il Sindaco dopo avere segnalato per anni all'Intendente di Basilicata le pessime condizioni e lo stato di pericolosità in cui versava la Chiesa Madre (21), incaricò l'ingegnere Domenico Berni di redigere una perizia sullo stato dell'immobile, di approntare un progetto relativo ai soli lavori urgenti e necessari per renderlo atto al culto. L'ingegnere rilevò che le cause del deperimento erano da imputarsi allo stato di estremo abbandono in cui la struttura versava, ma anche alla contiguità al muro meridionale della Chiesa di un forno pubblico che s'introduceva nel corpo della fabbrica per circa 40 cm. (due palmi); il fumo attraverso le crepe dei muri si diffondeva nella Chiesa, anneriva le pareti danneggiando l'intonaco, i quadri, le statue e gli altri arredi. Era necessario ricostruire e rinforzare il muro perimetrale in modo che potesse contenere la nicchia in cui, ancora oggi, è collocata la Madonna del Rosario e un sarcofago con altare addossato al muro della Cappella del Crocifisso, costruito nel 1832 per accogliere le spoglie del Principe Carlo Carafa. Era necessario, inoltre, riparare il tetto e il cornicione, chiudere una grossa fenditura che si era aperta nel Coro, intonacare l'interno, ripavimentare la navata centrale e consolidare le volte delle tre sepolture sottostanti. Il Comune, non essendo in grado di sostenere la spesa prevista in 310 ducati, adottò come primo provvedimento la chiusura del forno.
I lavori più urgenti, per 100 ducati, vennero finanziati dalla Curia Vescovile, altri 100 furono presi in prestito dalla Beneficenza. Di vitale importanza era la soluzione del problema relativo all'approvvigionamento idrico del paese; in tutto il territorio comunale c'erano numerose sorgenti, ma lontane dall'abitato, raggiungibili solo attraverso sentieri impraticabili d'inverno a causa delle frane. La cittadinanza quotidianamente attingeva acqua dalla fonte Pozzo dei Preti, in contrada Paschiere che però aveva una portata limitata. L'Amministrazione Comunale nel 1846 per venire incontro alle esigenze dei cittadini decise di utilizzare una sorgente sita in località Infrascata distante mezzo miglio dal paese. Con una spesa di 53 ducati venne costruita una fontana con annesso un abbeveratoio, uno spiazzo e un argine al vallone sottostante (22). Nel 1856 cercò di aumentare la portata dell'acqua della fonte Pozzo dei Preti con una più efficiente captazione delle risorse idriche e con la costruzione di un abbeveratoio, ritenendo tale lavoro vantaggioso non solo per gli abitanti, ma anche per i numerosi forestieri presenti con il bestiame nella fiera dell'1 e 2 settembre.
Anche la viabilità costituiva per l'Amministrazione Comunale un annoso problema da risolvere; le strade interne erano tutte disselciate e fangose, le mulattiere esterne erano sentieri appena tracciati, impraticabili d'inverno; mancava inoltre un ponte per guadare il Basento, questo creava un grave disagio a coloro che andavano a coltivare le terre in contrada Serra del Ponte e impediva un collegamento più agevole con la costruenda strada provinciale Potenza-Matera (il Comune per essa erogava un consistente contributo) (23) penalizzando il commercio dei prodotti agricoli. La salute pubblica non era tutelata; soltanto nel 1839 le Autorità comunali stanziarono 20 ducati da corrispondere al medico per assicurare ai non abbienti un minimo di assistenza sanitaria e 4 ducati per la vaccinazione antivaiolosa, in seguito tale spesa fu abolita. Ridussero gli stipendi dei pubblici dipendenti pur continuando a trattenere il 2,50% (al regolatore dell'orologio il compenso era passato da 6 a 4 ducati, all'organista a 3 ducati, successivamente tale voce di spesa non fu più menzionata). La scuola pubblica era tale solo di nome, essendo frequentata da pochissimi allievi del ceto medio e ubicata nella stessa casa del maestro (parroco) a cui venivano corrisposti 12 ducati; in alcuni bilanci comunali (1831-1832) venne prevista la spesa di 6 ducati per l'insegnante delle alunne. Questo fu un espediente amministrativo per stornare la somma preventivata da destinare ad altre spese, in realtà solo le ragazze appartenenti a famiglie abbienti apprendevano i primi rudimenti del sapere in casa. Vennero ridotte tutte le spese relative al culto, come la festa patronale, l'olio per la lampada del SS. Sacramento; per il predicatore quaresimale si dispose che l'impegno fosse assolto dal parroco. Nonostante tali ristrettezze economiche l'Amministrazione Comunale riuscì a stanziare per molti anni tre ducati per il fitto di un locale sito in piazza adibito a teatro.


2. Il 1848

Le forze liberali in Basilicata si riorganizzarono nella Vendita carbonara Giovine Italia sorta a Potenza nel 1832 ad opera di Vincenzo D'Enrico. A questo Circolo, d'impostazione moderata, potevano partecipare i professionisti appartenenti alla ricca borghesia, erano esclusi gli elementi della media borghesia, gli artigiani e i contadini (24).
A Trivigno l'Arciprete Don Giuseppe Passarella nel 1841 con l'appoggio dell'avvocato Giovanni Coronati diede vita ad un'associazione segreta a cui aderirono i vecchi carbonari e i nuovi adepti (25). Essi, con il pretesto di giocare a carte, si riunivano in casa del parroco Passarella, da Don Giovanni Coronati e presso la famiglia Miraglia. Facevano parte della Vendita non solo professionisti e piccoli proprietari terrieri, ma anche artigiani, contadini, non si sa quanto spontaneamente e con quale consapevolezza. Gli affiliati erano in stretta corrispondenza con i liberali di Potenza tramite il trivignese Don Francesco Paolo Coronati, rettore del Regio Collegio del capoluogo, con i liberali di Napoli attraverso Ferdinando Petruccelli di Muro, con i patrioti del Cilento per mezzo dell'avvocato Giovanni Miraglia. Questi ai primi di dicembre del 1847 si recò a Polla, ove risiedeva la sorella Clementina sposata al Capourbano Gerardo Concer, per instaurare rapporti più concreti con i liberali del paese e attingere notizie sull'azione rivoluzionaria che in quella zona svolgeva l'energico patriota Costabile Carducci. Una fitta rete di amici e di parenti rendeva possibile la diffusione delle idee e la circolazione delle informazioni; Don Giovanni Miraglia da Polla faceva pervenire le notizie al rettore Coronati; questi le trasmetteva ai familiari a Trivigno e teneva i contatti con il Circolo potentino. Don Gaetano Miraglia aveva rapporti epistolari con il noto liberale Ferdinando Petruccelli che premeva sulla media e piccola borghesia locale perché assumesse atteggiamenti più decisi per ottenere reali garanzie costituzionali.
Ai primi di febbraio del 1848 giunse in paese la notizia che il Re il 29 gennaio aveva concesso la Costituzione; grande fu il giubilo, i liberali al suono di tamburo e con grida di gioia percorsero le vie, in Chiesa fu cantato il Te Deum dal Cantore Giovanni Sarli che benedì anche la bandiera tricolore, fatta preparare in precedenza da Don Federico Volini.
L'avvocato Vincenzo D'Errico, uomo autorevole per censo e cultura, capo della Giovine Italia non vedendo pubblicata la legge elettorale, né organizzata la Guardia Nazionale, indirizzò il 19 febbraio 1848 ai Ministri una memoria di Voti e Ricordi a nome della Lucania dichiarando che questa: "tradirebbbe la buona causa, se tacesse alcune apprensioni sue". Pochi giorni dopo lo stesso D'Errico divulgò altra stampa in cui, enumerando i paesi che più si erano distinti per amore di libertà, affermava che: "Potenza, a dispetto dell'assolutismo, conservossi sempre devota ai principi di libertà civile. Trivigno, Genzano, Albano, Anzi, Spinoso, Montemurro, Viggiano, Marsico, Saponara, Tramutola erano con noi nel concerto", facendo intravedere le segrete relazioni con la Giovine Italia da lui diretta (26). Scoppiata (23 marzo 1848) la I guerra d'Indipendenza fra l'Austria e il Piemonte Ferdinando II non poté esimersi d'inviare in aiuto del Piemonte circa sedicimila uomini, comandati dal Generale Guglielmo Pepe. Un appello a stampa rivolto ai giovani della Basilicata per sollecitarli ad accorrere sui campi della Lombardia dove si decidevano le sorti dell'Italo rimase inascoltato, si mossero solo pochi volontari fra cui alcuni potentini (27). I liberali erano insoddisfatti della Costituzione concessa per l'indirizzo conservatore a cui essa s'ispirava, in quanto i principi enunciati garantivano pieni poteri al Sovrano che con le due Camere, una elettiva con limitato suffragio, e l'altra di nomina regia, esercitava il potere legislativo i cui provvedimenti divenivano operanti solo dopo l'approvazione regia.
Il Re conservava il potere esecutivo, la nomina dei membri del Consiglio di Stato, il comando delle forze armate e della Guardia Nazionale i cui ufficiali erano elettivi fino al grado di Capitano. Non erano garantiti i diritti politici dei cittadini, la libertà di riunione, d'associazione e quella religiosa (28). La legge elettorale prescriveva per gli elettori una rendita annua non inferiore a 24 ducati e per gli eleggibili di 240 ducati; in tale modo la Nazione sarebbe stata rappresentata solo dalla ricca borghesia terriera con l'esclusione dei meno abbienti, penalizzando la Basilicata in quanto i grandi proprietari terrieri e i nobili risiedevano quasi tutti nella capitale del Regno.
In seguito alla pressione della corrente radicale con la legge del 5 aprile vennero inclusi tra gli elettori, senza tenere conto del censo, i liberi professionisti, i laureati, gli insegnanti, coloro che avevano compiuti studi liceali e coloro che esercitavano un'attività autonoma. Per concordare e preparare la lista dei candidati da eleggere giunsero a Trivigno, sede del Circondario, molti galantuomini e professionisti da Albano, Castelmezzano, Brindisi di Montagna e si riunirono nella Chiesa Madre (29).
Seguì un periodo denso di avvenimenti: il 18 aprile in ogni comune si tennero le elezioni e il 30 dello stesso mese a Potenza; tutto si svolse con ordine e regolarità. Nel capoluogo il 29 aprile si era costituito il Circolo Costituzionale Lucano sotto la presidenza di Vincenzo D'Errico; i Comuni della Provincia furono invitati a istituire Circoli secondari, che dovevano essere sempre in contatto con quello del capoluogo (30).
A Napoli la Camera dei Deputati si riunì il 15 maggio 1848; sorse tra i presenti una discussione accesa e tempestosa sulla formula di giuramento che avrebbe dovuto prestare il Re. Fuori del palazzo si innalzarono barricate per difendere i Deputati e la Costituzione; partì un colpo, si disse fortuito, ma dalle terribili conseguenze. I mercenari svizzeri e i lazzaroni, istigati dai filoborbonici spararono sulla Guardia Nazionale e su quanti erano presenti sulle barricate; ogni resistenza fu travolta e la strage fu terribile e inevitabile.
Il Re Ferdinando II non si lasciò sfuggire l'occasione per sciogliere il Parlamento, reprimere nel sangue il movimento liberale e ritirare le truppe dalla guerra.
Nelle Province e nei Comuni si riorganizzarono i Circoli Costituzionali con l'intento di esercitare un controllo diretto sugli Amministratori di nomina regia preposti agli Enti locali.
Il 17 maggio a Napoli, nell'Hotel Genéve, s'incontrarono alcuni deputati tra cui il lucano Ferdinando Petruccelli (31), il cilentano Costabile Carducci (32) e altri radicali calabresi. In tale riunione si decise che sarebbe stato più opportuno promuovere l'insurrezione nelle Province, occupare le strade di collegamento con la Capitale dove gli insorti avrebbero convocato un'Assemblea Costituente. Nello stesso giorno a Potenza, sotto la spinta dei fatti accaduti a Napoli, si riunì il Circolo Costituzionale Lucano; il presidente moderato Vincenzo D'Errico, deputato al Parlamento, propose un'opposizione disciplinata nel rispetto della Costituzione, mentre i Radicali chiesero che fosse disarmata la gendarmeria, inviati a Napoli cinquecento militi della Guardia Nazionale e i corrieri in ogni Comune con l'ordine di tenere pronto un terzo della Guardia Nazionale per andare a difendere i Deputati e la Costituzione; dopo una vivace discussione prevalsero i Moderati e si stabilì di attendere le decisioni del Re.
A Trivigno, in aperto contrasto con il giudice, Nicola Marotta, funzionario di nomina regia e responsabile dell'ordine pubblico il 18 maggio si riunì il Circolo Costituzionale nominando il Cantore don Giovanni Sarli, presidente e segretario, Vincenzo de Gloria.
I bracciali e i proletari sempre più irrequieti e minacciosi, armati di scure sostavano in piazza, restii ad andare a lavorare, pronti ad invadere la proprietà altrui così come era avvenuto in alcuni centri della provincia. Con il pretesto di evitare un'eventuale sommossa popolare dai benpensanti, come si disse, venne aperto un secondo Corpo di guardia provvisorio in un piccolo terraneo disabitato sito nel largo della Chiesa Madre; in esso si riunivano sotto gli occhi di tutti, a porta aperta, galantuomini, sacerdoti, artigiani, massari e proletari (33).
II presidente del Circolo secondo le disposizioni inviate da Potenza aveva arruolato nella Guardia Nazionale una cinquantina di uomini e il loro addestramento era stato affidato a Don Francesco Coronati, esperto di cose militari; in paese correva voce che per incoraggiare i proletari ad arruolarsi nella Guardia Nazionale fossero corrisposti 4 carlini al giorno.
Il 13 giugno, benché fosse la festa di Sant'Antonio di Padova, il Coronati riunì gli uomini al piano della taverna, al Casale, per la consueta esercitazione e disse loro che si sarebbero dovuti recare a Potenza e con altri armati, raggiungere Napoli per combattere contro le truppe regie. Il milite Francesco di Grazia, detto Cacoscia, manifestò con parole irriguardose la ferma intenzione i non partire, a lui si associarono altri, suscitando l'irata reazione di Don Francesco Coronati che colpì con lo staffile il di Grazia al viso. Questi, risentito per l'offesa ricevuta, spianò l'arma pronto a tirargli una fucilata, ma fu trattenuto dai presenti, così i colpi partiti andarono a vuoto e tutto si risolse in un nulla di fatto.
I liberali di Trivigno continuarono ad essere in contatto con il Circolo Costituzionale di Potenza che il 25 giugno 1848 compilò un Memorandum in cui si disapprovava l'operato del Re che aveva fatto sciogliere dalla polizia la Camera dei Deputati, si segnalava la violenza dei mercenari contro quanti erano accorsi a difendere le barricate e si chiedeva di mantenere lealmente il regime costituzionale. Questo documento, letto in paese, fu da tutti condiviso e si colse anche l'occasione per esaltare l'opera dei liberali calabresi in aiuto dei quali era accorso il lucano Ferdinando Petruccelli. Questi fin dal 15 maggio ritenendo inutile l'opposizione parlamentare aveva deciso d'adoperarsi affinché le province si sollevassero con l'intento di proclamare un'Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto decidere delle sorti dello Stato. La corrente radicale a tale scopo intensificò l'azione di propaganda per spingere le popolazioni lucane a sollevarsi contro la Monarchia (34). Da Trivigno, Albano di Lucania, Anzi, Bella, Corleto, Montemurro, Pietragalla, San Fele si guardava con simpatia all'insurrezione calabrese e si sollecitava la lotta contro la monarchia borbonica, svolgendo una febbrile azione per organizzare le forze.
Fallito il movimento in Calabria, a Laurenzana il 4 luglio convennero i radicali di Anzi, Armento, Missanello, Pietrapertosa; dichiarata decaduta la monarchia borbonica costituirono un governo provvisorio affidando la presidenza a Domenico Asselta. I Radicali potentini, capeggiati dal sacerdote don Emilio Maffei l'8 luglio erano pronti a proclamare il governo provvisorio; i Moderati per evitare che l'intera Provincia fosse travolta da questa tragica avventura fecero intervenire la Guardia Nazionale che sventò qualsiasi tentativo rivoluzionario. Non cessarono i Radicali di riorganizzare le forze repubblicane, avendo come punto di riferimento il Petruccelli contro cui da tempo era stato emesso un mandato di cattura. Egli, per sfuggire alla polizia, si rifugiò dapprima a Laurenzana presso la famiglia Asselta, scoperto si spostò ad Anzi dove risiedeva una sorella sposata con Francesco Paolo Pomarici; per non destare sospetti, con il pretesto di andare a caccia prese alloggio nella masseria di Francesco Antonio di Roma. Di qui continuò a tessere la trama dei rapporti con i Circoli del basso potentino, appoggiato anche dai liberali di Trivigno che gli fornirono, per mezzo di corrieri fidati, tutto ciò di cui avrebbe potuto avere bisogno.
Dopo i fatti di Potenza il Petruccelli, impossibilitato ad agire, per sottrarsi alla cattura decise di recarsi a Tricarico ospite del fidatissimo amico, Carmine Ferri. Come era stato segretamente concordato (35) il 15 luglio passò per Trivigno in compagnia di due o tre amici, non incontrò alcuno, in piazza chiese al vaticale Giuseppe Iovine dove avrebbe potuto comprare dei sigari e poi prese la strada per Tricarico fermandosi prima a Laurenzana.
Quel giorno il paese era stranamente deserto, il capitano della Guardia Nazionale, Tommaso Brindisi, si disse ammalato, la famiglia Coronati era riunita in casa con Don Domenico Molfese venuto da Albano per assicurarsi del passaggio, il sindaco Don Giovanni Miraglia e Don Francesco Benvenuti erano andati a caccia.
Al loro rientro lo Iovine li informò dell'incontro, i due galantuomini simularono la loro contrarietà per non essersi trovati in paese perché, a loro dire, avrebbero potuto assicurare il Petruccelli alla giustizia essendoci contro di lui un mandato d'arresto. Il giorno successivo Don Saverio Filitti senior, Don Arcangelo Passarella, Don Saverio del Giudice e Don Francesco Coronati si recarono a Laurenzana dove erano convenuti anche molti altri liberali dai paesi limitrofi; il Petruccelli comunicò loro che la rivolta era fallita; dopo essersi fermato a Tricarico raggiunse la costa ionica per imbarcarsi alla volta di Genova.
In paese coloro che avevano partecipato a questi straordinari eventi, comprendendo che tutto era perduto ritennero opportuno, per non alimentare sospetti, di non riunirsi più nel terraneo vicino alla Chiesa Madre che dal settembre 1848 era stato dato in fitto alla filatrice Maria Imundi vedova di Luciano Padula, uno dei più pericolosi e turbolenti proletari, pertanto al di sopra di ogni sospetto di connivenza con i liberali.
I giudici della Gran Corte Criminale fin dal febbraio del 1849 cominciarono a raccogliere prove per istruire i processi contro quanti direttamente avevano partecipato alle riunioni sediziose e incitato i cittadini ad armarsi o pronunziato discorsi contro la Corona. Il timore per le possibili conseguenze prese un po' tutti; iniziarono i sospetti, le denunce, le delazioni, le vendette, si vissero giorni di grande turbamento; tutte le famiglie del ceto medio furono sconvolte, coloro che avevano ricoperto cariche municipali e impieghi pubblici o solamente manifestato simpatia per le idee liberali furono inquisiti. Si dettero alla latitanza dal luglio del '49 Francesco Antonio Beneventi, Francesco Saverio del Giudice, Francesco Coronati (fu Giovanni), Federico Volini.
Il trivignese Francesco Antonio Lamonea, cancelliere comunale a Brindisi di Montagna, fu arrestato il 29 novembre 1849 perché ritenuto responsabile di espressioni e atti ingiuriosi alla Sacra Persona del Re avendo vestito il busto di gesso del Re con i tipici indumenti da pastore (cappello a punta, purzone e bastone ad uncino); fu processato l'8 agosto 1850 e condannato a otto mesi di prigione (36).
Ai primi di settembre dello stesso anno la Gran Corte Criminale, avendo ricevuto dal giudice del Regio Giudicato di Trivigno, Don Nicola Marotta, due riservatissime note con precise e dettagliate informazioni sui fatti politici accaduti in paese nel 1848, istruì il processo a carico di tredici cittadini di Trivigno:
Beneventi Francesco Antonio, di Gregorio, di anni 30, possidente
Cascinolo Nicola, di Luigi, usciere del Regio Giudicato
Coronati Giovanni, fu Giovanni di anni 71, ex supplente del Regio Giudicato
Coronati Francesco, fu Giovanni, di anni 33, possidente
Coronati Francesco, di Alessandro, di anni 37, Rettore del Regio Collegio di Potenza
de Gloria Vincenzo, ex Cancelliere del Regio Giudicato
Filitti Saverio, fu Pietro, di anni 69, possidente
Miraglia Gaetano, fu Saverio, di anni 30, medico
Miraglia Giovanni, fu Saverio, di anni 34, avvocato e ex Sindaco
Passarella Arcangelo, fu Giosué, di anni 35, notaio
Sarli Giovanni, fu Pietro, di anni 67, Cantore
Volini Federico, di Andrea, di anni 34, medico

inquisiti per associazione illecita, discorsi sediziosi, incitamento ad armarsi contro il Governo, minacce e ingiurie contro il regio giudice, Nicola Marotta.
I giudici fecero un lavoro attento e minuzioso, vagliarono le azioni di ognuno, indagarono sulle famiglie, sulle parentele, sulle amicizie, sullo stato patrimoniale; ascoltarono molti testimoni a carico e a discarico che in prevalenza smentirono le accuse.
Fu chiesto anche al giudice istruttore di Sala Consilina d'indagare sulle amicizie e sul comportamento tenuto da Giovanni Miraglia durante il suo soggiorno a Polla.
Il Procuratore Generale del Tribunale di Potenza, dopo avere analizzato tutti gli elementi raccolti il 14 maggio 1851 chiese per dodici imputati il proscioglimento per insufficienza di prove; l'arresto e il rinvio a giudizio per Francesco Antonio Coronati, accusato di avere incitato il popolo ad armarsi contro l'Autorità Sovrana. Il 28 novembre 1851 dispose che l'imputato fosse giudicato in contumacia per il reato di cui era accusato. La Corte il 16 giugno 1852, presi in esame il rapporto del giudice istruttore e le conclusioni del pubblico ministero, ritenne all'unanimità il Coronati colpevole del reato ascrittogli e lo condannò alla pena di 19 anni di carcere. L'imputato il 28 ottobre 1852 chiese e ottenne dalla Corte un salvacondotto per 12 giorni per potere sbrigare alcune faccende personali, previo il pagamento di una cauzione di 100 ducati. Egli si presentò spontaneamente al giudice il 19 novembre avendo ascoltati i capi d'accusa, li contestò e addusse a suo discarico la testimonianza di persone bene informate dei fatti.
Ammise di avere riunito il 13 giugno al piano della taverna la Guardia Nazionale per la consueta esercitazione, precisò di non avere fatto discorsi sediziosi contro le Reali Autorità, di non avere parlato di armarsi e partire, per andare a combattere contro le Reali Bandiere, di avere percosso il milite Francesco di Grazia, perché ubriaco e oltremodo indisciplinato e irriguardoso. Dichiarò che i suoi accusatori, Francesco Casella, Giuseppe Casella, Domenico de Marco e Nicola Vignola avevano mentito, il primo per trarre vantaggio, gli altri per rancori personali.
Il procuratore della Gran Corte Criminale, dopo avere esaminati i nuovi fatti emersi dalle dichiarazioni dell'imputato, rimise gli atti al giudice istruttore per disporre ulteriori accertamenti e trarre le debite conclusioni. Furono ascoltati trentadue testimoni a discarico e tre a carico; i primi affermarono che Francesco Coronati nel 1848 si era comportato in maniera moderata, aveva istruito la Guardia Nazionale con zelo e competenza, e che l'episodio del 13 giugno 1848 era stato determinato dall'insubordinazione del di Grazia. Dagli interrogatori emerse anche che Giuseppe Maggio era molto ostile al Coronati perché temeva che quest'utimo gli subentrasse nella gestione dei beni dei Sigg. Fittipaldi. I secondi dichiararono di avere nel primo processo deposto il falso mossi da sentimenti di vendetta; lo stesso Francesco di Grazia fece pervenire alla Corte per mezzo del parroco Don Giuseppe Passarella il suo rammarico per avere ingiustamente accusato il Coronati, perché disse di essere stato indotto da altri. La Gran Corte Criminale di Basilicata il 20 dicembre 1852 visti gli atti a carico dell'imputato, poiché nella nuova istruttoria non erano emersi indizi di colpevolezza, a voti unanimi lo prosciolse dal reato ascrittogli (37). La Gran Corte Criminale, nel processo istruito a Potenza contro coloro che avevano preso parte ai movimenti politici svoltisi in Basilicata nel 1848, inflisse pene severe ai maggiori responsabili; Don Francesco Paolo Coronati, ex rettore del Regio Collegio, fu condannato a diciannove annidi carcere (38).
Finiti i processi non solo coloro che erano stati giudicati ma anche coloro che avevano manifestato sentimenti liberali furono inclusi nelle liste degli Attendibili politici e sottoposti a sorveglianza di polizia. Non era loro consentito allontanarsi dal paese pena la carcerazione, erano spiati di casa in casa, per le vie e ovunque andassero. Tale persecuzione politica gettò nel terrore e sgomento le famiglie dei galantuomini quasi tutte rovinate anche economicamente. Le liste degli Attendibili dalla polizia venivano costantemente aggiornate, accanto ai nomi figuravano note concernenti non solo la condotta del sorvegliato, ma anche il carattere e qualsiasi altra notizia utile (39).
Del dott. Gaetano Miraglia si scrisse: "di temperamento non tanto moderato, storpio nei piedi, ammogliato, senza figli"; per il notaio Arcangelo Passarella: "di temperamento allegro"; per l'avv Giovanni Miraglia: "di temperamento elastico e liberale"; per il proprietario Camillo Sassano: "di temperamento non stabile"; per il dott. Federico Volini, vedovo con una figlia: "di temperamento elastico e liberale". Furono destituiti dagli uffici pubblici Don Giuseppe Cascinolo, usciere del Regio Giudicato, il notaio Arcangelo Passarella, sostituto cancelliere, esclusi dalle cariche comunali i decurioni Rocco d'Aniello, Gerardo Allegretti, Saverio del Giudice, Nicola Miraglia e Vincenzo Passarella.
Gli uomini più intraprendenti e i più colti furono allontanati dalla vita attiva; i liberi professionisti furono costretti a non esercitare quasi più la professione e i proprietari ebbero difficoltà a vendere i prodotti agricoli con grave danno economico per tutta la collettività.
I giovani che studiavano a Potenza furono anch'essi schedati: Giuseppe Coronati di anni 19 di Alessandro, studente presso i Gesuiti, Francesco Antonio Passarella di anni 18 di Giuseppe, studente chimico presso Don Gaetano Demarco, domiciliato in casa di mastro Luigi Aquino, Carlo Policastro di anni 20 fu Luigi, studente presso i Gesuiti, Luigi Guarini di anni 21 fu Federico, domiciliato presso il Sig. Fittipaldi negoziante di coloniali sottoposto a vigilanza di polizia per le sue idee politiche (40).
La vita del paese fu sconvolta, furono violati gli affetti più profondi, rinfocolati i rancori antichi, messa in dubbio la parola data, negata la verità, la menzogna divenne strumento di estrema difesa.

 

 

 

 

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