Capitolo Terzo
ETA'
CONTEMPORANEA
1. Carboneria e
restaurazione borbonica
Questo periodo, così intensamente vissuto, portò alla maturazione delle
coscienze e ravvivò nella borghesia meridionale l'aspirazione ad un
governo più liberale.
I rinnovati ideali fecero sì che molti lucani partecipassero alle società
segrete per ottenere la libertà e la Costituzione; rivissero le
associazioni dei Franco-muratori e si svilupparono le Vendite carbonare.
Dal 1806 in poi si ebbe una commistione tra le Logge degli uni e le
Vendite degli altri e si diffusero in molti paesi lucani prendendo
particolari denominazioni: Aurora Lucana a Moliterno, Filarete Lucana a
Lagonegro, La Scuola dei costumi a Marsicouovo (1).
Il Murat, secondo quanto afferma lo storico Pietro Colletta, favorì
all'inizio tali associazioni anche per ingraziarsi le classi
medio-basse; la borghesia, infatti, con l'applicazione delle Leggi
Eversive era uscita rafforzata (2). In seguito, nel timore, peraltro
fondato, che i Carbonari potessero appoggiare la restaurazione
borbonica, emise ordinanze severissime (3).
Il Re Ferdinando, nel contempo, dalla Sicilia invitava i Napoletani alla
riscossa promettendo il mantenimento degli ordini stabiliti, degli
uffici pubblici, lasciando intravedere, con parole ambigue, la
concessione di ordinamenti liberali.
Negli ultimi anni del Decennio francese la media borghesia vide nella
restaurazione borbonica la possibilità di avere una Costituzione
liberale sullo stampo di quella siciliana del 1812 che le permettesse di
diventare classe dirigente e di avere maggiore consenso; cercò
l'appoggio dei ceti più poveri con l'illusoria promessa di una soluzione
più rapida della questione demaniale senza turbare l'esistente
equilibrio sociale. La formula per realizzare tale equilibrio era quella
della Monarchia Costituzionale che comportava nelle Vendite la
diffusione di sentimenti liberali e cattolici (4). In questo modo ci fu
anche l'adesione del Clero che dai Francesi era stato privato di molte
prerogative e inquadrato, come gli altri funzionari, nell'ordinamento
statale. Tutte queste concause determinarono una capillare diffusione
della Carboneria dopo la Restaurazione Borbonica (5). La borghesia
provinciale che si era andata faticosamente formando nel Decennio
francese, per non compromettere la supremazia acquisita reagì ai
tentativi di riscossa aristocratica e all'accentramento amministrativo;
fu svantaggiata, inoltre, dalla regolamentazione della contribuzione
fondiaria, dalla concorrenza del grano importato dall'estero, dalla
crisi economica e comprese che, per difendere i propri interessi e i
diritti di proprietà acquisiti, avrebbe dovuto avere il controllo e la
gestione del potere, pertanto era indispensabile organizzarsi
politicamente. Nel 1817 a Trivigno, già sede di un club giacobino
fondato nel 1799, si aprì una Vendita Carbonara (6) che presumibilmente
contava molti affiliati; di questi si conoscono solo i nomi del Gran
Maestro, Luigi Miraglia, proprietario, di un Alto dignitario, Domenico
Antonio Sassano, proprietario, del medico Saverio Lamonea (7), del
dottore in utroque iure Giovanni Crisostomo Coronati, del proprietario
Saverio Filitti, capo della guardia civica nel Decennio francese, del
popolano Giuseppe Filitti, del sacerdote Giuseppe Passarella che
partecipò anche al Senato Carbonaro della Lucania Orientale (8). Tale
organismo il 4 luglio 1820 difese i diritti del popolo della Basilicata
di cui si considerava rappresentante e attaccò il comandante della
Divisione Territoriale, Gen. Francesco Pignatelli arrivando a parlare di
repubblica (9).
L'11 agosto 1820 a Potenza si riunì la Grande Assemblea del Popolo
Carbonaro della Lucania Orientale, ad essa parteciparono 88 Delegati di
altrettante Vendite; quella di Trivigno fu rappresentata dal Gran
Maestro Luigi Miraglia.
Con il Congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815) si ebbe la
restaurazione dei Borboni sul trono di Napoli e il Re Ferdinando IV
assunse il titolo di Ferdinando I Re delle Due Sicilie (10). Il Sovrano,
ritenendo il Decennio francese solo un temporaneo periodo di occupazione
militare, emanò leggi eccezionali contro i Murattiani e i Carbonari per
intimorire i sudditi e restaurare il potere assoluto. Confermò le
riforme realizzate dai francesi relative agli ordinamenti amministrativi
e giudiziari, all'abolizione della feudalità, alla quotizzazione delle
terre demaniali, alla razionalizzazione del sistema fondiario e alle
leggi sulla Pubblica Istruzione, apportando modifiche in quelle parti
che servivano a consolidare il proprio potere, ad esempio la nomina del
sindaco non fu più di competenza dei decurioni ma del Governo (Decreto
del 4 settembre 1815) (11).
La Basilicata in questo periodo rimase relativamente tranquilla, anche se
tutti i ceti sociali avevano grandi difficoltà per la crisi granaria,
per il ristagno economico, per l'eccessiva imposizione fiscale, per
l'amministrazione partigiana dei governanti e per la mancata
promulgazione della promessa Costituzione. Profonda insoddisfazione
c'era anche nel Clero che, con il ritorno dei Borboni, aveva sperato di
riacquistare i vantaggi perduti ma, con il Concordato stipulato nel 1818
tra lo Stato e la Chiesa, venne sottoposto ad una più rigorosa vigilanza
da parte del Vescovo per migliorare l'organizzazione e la qualità della
struttura ecclesiastica (12).
Alla notizia dello scoppio della rivoluzione in Spagna (Cadice, 2 luglio
1820) in Campania vi fu la sollevazione di Nola e di Avellino, seguita
quasi contemporaneamente da Potenza e dalla Provincia di Basilicata.
Tali avvenimenti costrinsero il Re il 6 luglio a concedere la
Costituzione, entrando in aperto contrasto con i principi fissati dalla
Santa Alleanza (Russia, Prussia, Austria), nella cui orbita gravitava il
Regno di Napoli (13). Nel Congresso di Lubiana (gennaio 1821)
dall'Austria fu ordinato, al connivente e acquiesciente Ferdinando, di
ritirare la Costituzione e deciso l'intervento dell'esercito austriaco a
Napoli. In tutto il Regno grande fu l'indignazione per il comportamento
del Re; ai liberali non restò che organizzarsi per difendere la
Costituzione e opporsi all'esercito austriaco; da tutti i paesi lucani
schiere di legionari partirono alla volta di Napoli (14), gli austriaci
però meglio armati e preparati sconfissero i patrioti il 7 marzo 1821 ad
Androdoco.
Il Sovrano, oltre al ritiro della Costituzione, emanò tutta una serie di
decreti repressivi e istituì una Corte Marziale per giudicare e punire
esemplarmente i rivoltosi. Furono erogate pene severissime, la polizia
indagò su tutti coloro che, in qualche modo, avevano partecipato al
moto; fra i tanti anche i trivignesi Saverio Lamonea e Giuseppe Filitti
furono schedati, il primo come "uomo pernicioso in tutti i tempi,
essendo un repubblicano costituzionale" (15), il secondo perché "capace
di qualsiasi eccesso, pernicioso all'ordine pubblico e al Governo" (16).
Dopo gli avvenimenti del 1820-21 in paese i galantuomini, che avevano
aderito alla Carboneria, cercarono di esercitare e di rafforzare il
potere attraverso le cariche comunali e i pubblici uffici; i
nullatenenti sempre più insoddisfatti per la scarsa quotizzazione delle
terre feudali e oppressi dalla miseria, erano in grande fermento; la
situazione molto incerta rendeva lecito da parte di tutti ogni tipo di
sopruso.
I Sovrani Borbonici, succeduti a Ferdinando I (Francesco I 1825-30,
Ferdinando II 1830-59, Francesco II 1859), non dettero prova di buon
governo. La popolazione continuò a vivere nelle più precarie condizioni
in quanto l'economia prevalentemente agricola, già poco redditizia
durante il Decennio francese, s'impoverì ulteriormente con riflessi
negativi anche sulla vita sociale.
La caduta del prezzo del grano (17) non fornì più ai benestanti e alla
massa contadina un reddito, anche se modesto. Tutto ciò avvenne nel
totale disinteresse dello Stato che continuava ad imporre tasse (sullo
sfarinato, sulla carne) e una serie di balzelli.
L'Amministrazione Comunale, così come risulta dall'esame dei bilanci (18),
avendo a sua disposizione pochissime entrate fu costretta a ridurre le
spese per soddisfare le necessità più impellenti e risolvere i problemi
indilazionabili relativi alla costruzione del cimitero, ai lavori di
ristrutturazione della Chiesa Madre, all'approvvigionamento idrico, alla
viabilità, alla salute pubblica all'istruzione. Il Governo nel 1817,
riconfermando il Decreto Napoleonico del 5 settembre 1806, stabilì per
garantire la salute pubblica che il Camposanto fosse ubicato lontano
dall'abitato. L'Amministrazione Comunale fece presente all'Intendente di
Basilicata che, per difficoltà economiche, avrebbe potuto provvedere
solo ad una più idonea sistemazione del luogo denominato Monte dei Morti
ubicato in contrada Coste, da sempre adibito a sepoltura e dotato di una
Cappella con cella ipogea (19).
Tale proposta fu respinta perché il luogo era troppo vicino all'abitato,
né fu accolta quella di costruire il Camposanto in località Serra di
Sant'Antonio lontana un quarto di miglio, ma troppo onerosa per la
collettività. L'Amministrazione comunale nel 1819 scelse un'area idonea
in località Castelluccio; i lavori furono appaltati per 1010 ducati, ben
presto tutto fu sospeso perché dai fondi stanziati furono stornati 488
ducati richiesti dallo Stato quale sussidio alle famiglie dei soldati
veterani; previo permesso accordato dalle Autorità competenti si
continuò a seppellire nella Chiesa Madre. Una nuova Disposizione Reale
nel 1837 vietò la sepoltura nei luoghi destinati al culto; il Comune con
provvedimento immediato sospese le sepolture nella Chiesa Madre anche se
fu costretto, per mancanza di fondi, a utilizzare l'antico Camposanto
nonostante i problemi d'igiene pubblica e le contestazioni dei cittadini
(20). Altre necessità si presentarono in tutta la loro urgenza e
inderogabilità; nel 1840, il Sindaco dopo avere segnalato per anni
all'Intendente di Basilicata le pessime condizioni e lo stato di
pericolosità in cui versava la Chiesa Madre (21), incaricò l'ingegnere
Domenico Berni di redigere una perizia sullo stato dell'immobile, di
approntare un progetto relativo ai soli lavori urgenti e necessari per
renderlo atto al culto. L'ingegnere rilevò che le cause del deperimento
erano da imputarsi allo stato di estremo abbandono in cui la struttura
versava, ma anche alla contiguità al muro meridionale della Chiesa di un
forno pubblico che s'introduceva nel corpo della fabbrica per circa 40
cm. (due palmi); il fumo attraverso le crepe dei muri si diffondeva
nella Chiesa, anneriva le pareti danneggiando l'intonaco, i quadri, le
statue e gli altri arredi. Era necessario ricostruire e rinforzare il
muro perimetrale in modo che potesse contenere la nicchia in cui, ancora
oggi, è collocata la Madonna del Rosario e un sarcofago con altare
addossato al muro della Cappella del Crocifisso, costruito nel 1832 per
accogliere le spoglie del Principe Carlo Carafa. Era necessario,
inoltre, riparare il tetto e il cornicione, chiudere una grossa
fenditura che si era aperta nel Coro, intonacare l'interno,
ripavimentare la navata centrale e consolidare le volte delle tre
sepolture sottostanti. Il Comune, non essendo in grado di sostenere la
spesa prevista in 310 ducati, adottò come primo provvedimento la
chiusura del forno.
I lavori più urgenti, per 100 ducati, vennero finanziati dalla Curia
Vescovile, altri 100 furono presi in prestito dalla Beneficenza. Di
vitale importanza era la soluzione del problema relativo
all'approvvigionamento idrico del paese; in tutto il territorio comunale
c'erano numerose sorgenti, ma lontane dall'abitato, raggiungibili solo
attraverso sentieri impraticabili d'inverno a causa delle frane. La
cittadinanza quotidianamente attingeva acqua dalla fonte Pozzo dei
Preti, in contrada Paschiere che però aveva una portata limitata.
L'Amministrazione Comunale nel 1846 per venire incontro alle esigenze
dei cittadini decise di utilizzare una sorgente sita in località
Infrascata distante mezzo miglio dal paese. Con una spesa di 53 ducati
venne costruita una fontana con annesso un abbeveratoio, uno spiazzo e
un argine al vallone sottostante (22). Nel 1856 cercò di aumentare la
portata dell'acqua della fonte Pozzo dei Preti con una più efficiente
captazione delle risorse idriche e con la costruzione di un
abbeveratoio, ritenendo tale lavoro vantaggioso non solo per gli
abitanti, ma anche per i numerosi forestieri presenti con il bestiame
nella fiera dell'1 e 2 settembre.
Anche la viabilità costituiva per l'Amministrazione Comunale un annoso
problema da risolvere; le strade interne erano tutte disselciate e
fangose, le mulattiere esterne erano sentieri appena tracciati,
impraticabili d'inverno; mancava inoltre un ponte per guadare il
Basento, questo creava un grave disagio a coloro che andavano a
coltivare le terre in contrada Serra del Ponte e impediva un
collegamento più agevole con la costruenda strada provinciale
Potenza-Matera (il Comune per essa erogava un consistente contributo)
(23) penalizzando il commercio dei prodotti agricoli. La salute pubblica
non era tutelata; soltanto nel 1839 le Autorità comunali stanziarono 20
ducati da corrispondere al medico per assicurare ai non abbienti un
minimo di assistenza sanitaria e 4 ducati per la vaccinazione
antivaiolosa, in seguito tale spesa fu abolita. Ridussero gli stipendi
dei pubblici dipendenti pur continuando a trattenere il 2,50% (al
regolatore dell'orologio il compenso era passato da 6 a 4 ducati,
all'organista a 3 ducati, successivamente tale voce di spesa non fu più
menzionata). La scuola pubblica era tale solo di nome, essendo
frequentata da pochissimi allievi del ceto medio e ubicata nella stessa
casa del maestro (parroco) a cui venivano corrisposti 12 ducati; in
alcuni bilanci comunali (1831-1832) venne prevista la spesa di 6 ducati
per l'insegnante delle alunne. Questo fu un espediente amministrativo
per stornare la somma preventivata da destinare ad altre spese, in
realtà solo le ragazze appartenenti a famiglie abbienti apprendevano i
primi rudimenti del sapere in casa. Vennero ridotte tutte le spese
relative al culto, come la festa patronale, l'olio per la lampada del
SS. Sacramento; per il predicatore quaresimale si dispose che l'impegno
fosse assolto dal parroco. Nonostante tali ristrettezze economiche
l'Amministrazione Comunale riuscì a stanziare per molti anni tre ducati
per il fitto di un locale sito in piazza adibito a teatro.
2. Il 1848
Le forze liberali in Basilicata si riorganizzarono nella Vendita carbonara
Giovine Italia sorta a Potenza nel 1832 ad opera di Vincenzo D'Enrico. A
questo Circolo, d'impostazione moderata, potevano partecipare i
professionisti appartenenti alla ricca borghesia, erano esclusi gli
elementi della media borghesia, gli artigiani e i contadini (24).
A Trivigno l'Arciprete Don Giuseppe Passarella nel 1841 con l'appoggio
dell'avvocato Giovanni Coronati diede vita ad un'associazione segreta a
cui aderirono i vecchi carbonari e i nuovi adepti (25). Essi, con il
pretesto di giocare a carte, si riunivano in casa del parroco
Passarella, da Don Giovanni Coronati e presso la famiglia Miraglia.
Facevano parte della Vendita non solo professionisti e piccoli
proprietari terrieri, ma anche artigiani, contadini, non si sa quanto
spontaneamente e con quale consapevolezza. Gli affiliati erano in
stretta corrispondenza con i liberali di Potenza tramite il trivignese
Don Francesco Paolo Coronati, rettore del Regio Collegio del capoluogo,
con i liberali di Napoli attraverso Ferdinando Petruccelli di Muro, con
i patrioti del Cilento per mezzo dell'avvocato Giovanni Miraglia. Questi
ai primi di dicembre del 1847 si recò a Polla, ove risiedeva la sorella
Clementina sposata al Capourbano Gerardo Concer, per instaurare rapporti
più concreti con i liberali del paese e attingere notizie sull'azione
rivoluzionaria che in quella zona svolgeva l'energico patriota Costabile
Carducci. Una fitta rete di amici e di parenti rendeva possibile la
diffusione delle idee e la circolazione delle informazioni; Don Giovanni
Miraglia da Polla faceva pervenire le notizie al rettore Coronati;
questi le trasmetteva ai familiari a Trivigno e teneva i contatti con il
Circolo potentino. Don Gaetano Miraglia aveva rapporti epistolari con il
noto liberale Ferdinando Petruccelli che premeva sulla media e piccola
borghesia locale perché assumesse atteggiamenti più decisi per ottenere
reali garanzie costituzionali.
Ai primi di febbraio del 1848 giunse in paese la notizia che il Re il 29
gennaio aveva concesso la Costituzione; grande fu il giubilo, i liberali
al suono di tamburo e con grida di gioia percorsero le vie, in Chiesa fu
cantato il Te Deum dal Cantore Giovanni Sarli che benedì anche la
bandiera tricolore, fatta preparare in precedenza da Don Federico
Volini.
L'avvocato Vincenzo D'Errico, uomo autorevole per censo e cultura, capo
della Giovine Italia non vedendo pubblicata la legge elettorale, né
organizzata la Guardia Nazionale, indirizzò il 19 febbraio 1848 ai
Ministri una memoria di Voti e Ricordi a nome della Lucania dichiarando
che questa: "tradirebbbe la buona causa, se tacesse alcune apprensioni
sue". Pochi giorni dopo lo stesso D'Errico divulgò altra stampa in cui,
enumerando i paesi che più si erano distinti per amore di libertà,
affermava che: "Potenza, a dispetto dell'assolutismo, conservossi sempre
devota ai principi di libertà civile. Trivigno, Genzano, Albano, Anzi,
Spinoso, Montemurro, Viggiano, Marsico, Saponara, Tramutola erano con
noi nel concerto", facendo intravedere le segrete relazioni con la
Giovine Italia da lui diretta (26). Scoppiata (23 marzo 1848) la I
guerra d'Indipendenza fra l'Austria e il Piemonte Ferdinando II non poté
esimersi d'inviare in aiuto del Piemonte circa sedicimila uomini,
comandati dal Generale Guglielmo Pepe. Un appello a stampa rivolto ai
giovani della Basilicata per sollecitarli ad accorrere sui campi della
Lombardia dove si decidevano le sorti dell'Italo rimase inascoltato, si
mossero solo pochi volontari fra cui alcuni potentini (27). I liberali
erano insoddisfatti della Costituzione concessa per l'indirizzo
conservatore a cui essa s'ispirava, in quanto i principi enunciati
garantivano pieni poteri al Sovrano che con le due Camere, una elettiva
con limitato suffragio, e l'altra di nomina regia, esercitava il potere
legislativo i cui provvedimenti divenivano operanti solo dopo
l'approvazione regia.
Il Re conservava il potere esecutivo, la nomina dei membri del Consiglio
di Stato, il comando delle forze armate e della Guardia Nazionale i cui
ufficiali erano elettivi fino al grado di Capitano. Non erano garantiti
i diritti politici dei cittadini, la libertà di riunione, d'associazione
e quella religiosa (28). La legge elettorale prescriveva per gli
elettori una rendita annua non inferiore a 24 ducati e per gli
eleggibili di 240 ducati; in tale modo la Nazione sarebbe stata
rappresentata solo dalla ricca borghesia terriera con l'esclusione dei
meno abbienti, penalizzando la Basilicata in quanto i grandi proprietari
terrieri e i nobili risiedevano quasi tutti nella capitale del Regno.
In seguito alla pressione della corrente radicale con la legge del 5
aprile vennero inclusi tra gli elettori, senza tenere conto del censo, i
liberi professionisti, i laureati, gli insegnanti, coloro che avevano
compiuti studi liceali e coloro che esercitavano un'attività autonoma.
Per concordare e preparare la lista dei candidati da eleggere giunsero a
Trivigno, sede del Circondario, molti galantuomini e professionisti da
Albano, Castelmezzano, Brindisi di Montagna e si riunirono nella Chiesa
Madre (29).
Seguì un periodo denso di avvenimenti: il 18 aprile in ogni comune si
tennero le elezioni e il 30 dello stesso mese a Potenza; tutto si svolse
con ordine e regolarità. Nel capoluogo il 29 aprile si era costituito il
Circolo Costituzionale Lucano sotto la presidenza di Vincenzo D'Errico;
i Comuni della Provincia furono invitati a istituire Circoli secondari,
che dovevano essere sempre in contatto con quello del capoluogo (30).
A Napoli la Camera dei Deputati si riunì il 15 maggio 1848; sorse tra i
presenti una discussione accesa e tempestosa sulla formula di giuramento
che avrebbe dovuto prestare il Re. Fuori del palazzo si innalzarono
barricate per difendere i Deputati e la Costituzione; partì un colpo, si
disse fortuito, ma dalle terribili conseguenze. I mercenari svizzeri e i
lazzaroni, istigati dai filoborbonici spararono sulla Guardia Nazionale
e su quanti erano presenti sulle barricate; ogni resistenza fu travolta
e la strage fu terribile e inevitabile.
Il Re Ferdinando II non si lasciò sfuggire l'occasione per sciogliere il
Parlamento, reprimere nel sangue il movimento liberale e ritirare le
truppe dalla guerra.
Nelle Province e nei Comuni si riorganizzarono i Circoli Costituzionali
con l'intento di esercitare un controllo diretto sugli Amministratori di
nomina regia preposti agli Enti locali.
Il 17 maggio a Napoli, nell'Hotel Genéve, s'incontrarono alcuni deputati
tra cui il lucano Ferdinando Petruccelli (31), il cilentano Costabile
Carducci (32) e altri radicali calabresi. In tale riunione si decise che
sarebbe stato più opportuno promuovere l'insurrezione nelle Province,
occupare le strade di collegamento con la Capitale dove gli insorti
avrebbero convocato un'Assemblea Costituente. Nello stesso giorno a
Potenza, sotto la spinta dei fatti accaduti a Napoli, si riunì il
Circolo Costituzionale Lucano; il presidente moderato Vincenzo D'Errico,
deputato al Parlamento, propose un'opposizione disciplinata nel rispetto
della Costituzione, mentre i Radicali chiesero che fosse disarmata la
gendarmeria, inviati a Napoli cinquecento militi della Guardia Nazionale
e i corrieri in ogni Comune con l'ordine di tenere pronto un terzo della
Guardia Nazionale per andare a difendere i Deputati e la Costituzione;
dopo una vivace discussione prevalsero i Moderati e si stabilì di
attendere le decisioni del Re.
A Trivigno, in aperto contrasto con il giudice, Nicola Marotta,
funzionario di nomina regia e responsabile dell'ordine pubblico il 18
maggio si riunì il Circolo Costituzionale nominando il Cantore don
Giovanni Sarli, presidente e segretario, Vincenzo de Gloria.
I bracciali e i proletari sempre più irrequieti e minacciosi, armati di
scure sostavano in piazza, restii ad andare a lavorare, pronti ad
invadere la proprietà altrui così come era avvenuto in alcuni centri
della provincia. Con il pretesto di evitare un'eventuale sommossa
popolare dai benpensanti, come si disse, venne aperto un secondo Corpo
di guardia provvisorio in un piccolo terraneo disabitato sito nel largo
della Chiesa Madre; in esso si riunivano sotto gli occhi di tutti, a
porta aperta, galantuomini, sacerdoti, artigiani, massari e proletari
(33).
II presidente del Circolo secondo le disposizioni inviate da Potenza aveva
arruolato nella Guardia Nazionale una cinquantina di uomini e il loro
addestramento era stato affidato a Don Francesco Coronati, esperto di
cose militari; in paese correva voce che per incoraggiare i proletari ad
arruolarsi nella Guardia Nazionale fossero corrisposti 4 carlini al
giorno.
Il 13 giugno, benché fosse la festa di Sant'Antonio di Padova, il Coronati
riunì gli uomini al piano della taverna, al Casale, per la consueta
esercitazione e disse loro che si sarebbero dovuti recare a Potenza e
con altri armati, raggiungere Napoli per combattere contro le truppe
regie. Il milite Francesco di Grazia, detto Cacoscia, manifestò con
parole irriguardose la ferma intenzione i non partire, a lui si
associarono altri, suscitando l'irata reazione di Don Francesco Coronati
che colpì con lo staffile il di Grazia al viso. Questi, risentito per
l'offesa ricevuta, spianò l'arma pronto a tirargli una fucilata, ma fu
trattenuto dai presenti, così i colpi partiti andarono a vuoto e tutto
si risolse in un nulla di fatto.
I liberali di Trivigno continuarono ad essere in contatto con il Circolo
Costituzionale di Potenza che il 25 giugno 1848 compilò un Memorandum in
cui si disapprovava l'operato del Re che aveva fatto sciogliere dalla
polizia la Camera dei Deputati, si segnalava la violenza dei mercenari
contro quanti erano accorsi a difendere le barricate e si chiedeva di
mantenere lealmente il regime costituzionale. Questo documento, letto in
paese, fu da tutti condiviso e si colse anche l'occasione per esaltare
l'opera dei liberali calabresi in aiuto dei quali era accorso il lucano
Ferdinando Petruccelli. Questi fin dal 15 maggio ritenendo inutile
l'opposizione parlamentare aveva deciso d'adoperarsi affinché le
province si sollevassero con l'intento di proclamare un'Assemblea
Costituente, che avrebbe dovuto decidere delle sorti dello Stato. La
corrente radicale a tale scopo intensificò l'azione di propaganda per
spingere le popolazioni lucane a sollevarsi contro la Monarchia (34). Da
Trivigno, Albano di Lucania, Anzi, Bella, Corleto, Montemurro,
Pietragalla, San Fele si guardava con simpatia all'insurrezione
calabrese e si sollecitava la lotta contro la monarchia borbonica,
svolgendo una febbrile azione per organizzare le forze.
Fallito il movimento in Calabria, a Laurenzana il 4 luglio convennero i
radicali di Anzi, Armento, Missanello, Pietrapertosa; dichiarata
decaduta la monarchia borbonica costituirono un governo provvisorio
affidando la presidenza a Domenico Asselta. I Radicali potentini,
capeggiati dal sacerdote don Emilio Maffei l'8 luglio erano pronti a
proclamare il governo provvisorio; i Moderati per evitare che l'intera
Provincia fosse travolta da questa tragica avventura fecero intervenire
la Guardia Nazionale che sventò qualsiasi tentativo rivoluzionario. Non
cessarono i Radicali di riorganizzare le forze repubblicane, avendo come
punto di riferimento il Petruccelli contro cui da tempo era stato emesso
un mandato di cattura. Egli, per sfuggire alla polizia, si rifugiò
dapprima a Laurenzana presso la famiglia Asselta, scoperto si spostò ad
Anzi dove risiedeva una sorella sposata con Francesco Paolo Pomarici;
per non destare sospetti, con il pretesto di andare a caccia prese
alloggio nella masseria di Francesco Antonio di Roma. Di qui continuò a
tessere la trama dei rapporti con i Circoli del basso potentino,
appoggiato anche dai liberali di Trivigno che gli fornirono, per mezzo
di corrieri fidati, tutto ciò di cui avrebbe potuto avere bisogno.
Dopo i fatti di Potenza il Petruccelli, impossibilitato ad agire, per
sottrarsi alla cattura decise di recarsi a Tricarico ospite del
fidatissimo amico, Carmine Ferri. Come era stato segretamente concordato
(35) il 15 luglio passò per Trivigno in compagnia di due o tre amici,
non incontrò alcuno, in piazza chiese al vaticale Giuseppe Iovine dove
avrebbe potuto comprare dei sigari e poi prese la strada per Tricarico
fermandosi prima a Laurenzana.
Quel giorno il paese era stranamente deserto, il capitano della Guardia
Nazionale, Tommaso Brindisi, si disse ammalato, la famiglia Coronati era
riunita in casa con Don Domenico Molfese venuto da Albano per
assicurarsi del passaggio, il sindaco Don Giovanni Miraglia e Don
Francesco Benvenuti erano andati a caccia.
Al loro rientro lo Iovine li informò dell'incontro, i due galantuomini
simularono la loro contrarietà per non essersi trovati in paese perché,
a loro dire, avrebbero potuto assicurare il Petruccelli alla giustizia
essendoci contro di lui un mandato d'arresto. Il giorno successivo Don
Saverio Filitti senior, Don Arcangelo Passarella, Don Saverio del
Giudice e Don Francesco Coronati si recarono a Laurenzana dove erano
convenuti anche molti altri liberali dai paesi limitrofi; il Petruccelli
comunicò loro che la rivolta era fallita; dopo essersi fermato a
Tricarico raggiunse la costa ionica per imbarcarsi alla volta di Genova.
In paese coloro che avevano partecipato a questi straordinari eventi,
comprendendo che tutto era perduto ritennero opportuno, per non
alimentare sospetti, di non riunirsi più nel terraneo vicino alla Chiesa
Madre che dal settembre 1848 era stato dato in fitto alla filatrice
Maria Imundi vedova di Luciano Padula, uno dei più pericolosi e
turbolenti proletari, pertanto al di sopra di ogni sospetto di
connivenza con i liberali.
I giudici della Gran Corte Criminale fin dal febbraio del 1849
cominciarono a raccogliere prove per istruire i processi contro quanti
direttamente avevano partecipato alle riunioni sediziose e incitato i
cittadini ad armarsi o pronunziato discorsi contro la Corona. Il timore
per le possibili conseguenze prese un po' tutti; iniziarono i sospetti,
le denunce, le delazioni, le vendette, si vissero giorni di grande
turbamento; tutte le famiglie del ceto medio furono sconvolte, coloro
che avevano ricoperto cariche municipali e impieghi pubblici o solamente
manifestato simpatia per le idee liberali furono inquisiti. Si dettero
alla latitanza dal luglio del '49 Francesco Antonio Beneventi, Francesco
Saverio del Giudice, Francesco Coronati (fu Giovanni), Federico Volini.
Il trivignese Francesco Antonio Lamonea, cancelliere comunale a Brindisi
di Montagna, fu arrestato il 29 novembre 1849 perché ritenuto
responsabile di espressioni e atti ingiuriosi alla Sacra Persona del Re
avendo vestito il busto di gesso del Re con i tipici indumenti da
pastore (cappello a punta, purzone e bastone ad uncino); fu processato
l'8 agosto 1850 e condannato a otto mesi di prigione (36).
Ai primi di settembre dello stesso anno la Gran Corte Criminale, avendo
ricevuto dal giudice del Regio Giudicato di Trivigno, Don Nicola
Marotta, due riservatissime note con precise e dettagliate informazioni
sui fatti politici accaduti in paese nel 1848, istruì il processo a
carico di tredici cittadini di Trivigno:
Beneventi Francesco Antonio, di Gregorio, di anni 30, possidente
Cascinolo Nicola, di Luigi, usciere del Regio Giudicato
Coronati Giovanni, fu Giovanni di anni 71, ex supplente del Regio
Giudicato
Coronati Francesco, fu Giovanni, di anni 33, possidente
Coronati Francesco, di Alessandro, di anni 37, Rettore del Regio Collegio
di Potenza
de Gloria Vincenzo, ex Cancelliere del Regio Giudicato
Filitti Saverio, fu Pietro, di anni 69, possidente
Miraglia Gaetano, fu Saverio, di anni 30, medico
Miraglia Giovanni, fu Saverio, di anni 34, avvocato e ex Sindaco
Passarella Arcangelo, fu Giosué, di anni 35, notaio
Sarli Giovanni, fu Pietro, di anni 67, Cantore
Volini Federico, di Andrea, di anni 34, medico
inquisiti per associazione illecita, discorsi sediziosi, incitamento ad
armarsi contro il Governo, minacce e ingiurie contro il regio giudice,
Nicola Marotta.
I giudici fecero un lavoro attento e minuzioso, vagliarono le azioni di
ognuno, indagarono sulle famiglie, sulle parentele, sulle amicizie,
sullo stato patrimoniale; ascoltarono molti testimoni a carico e a
discarico che in prevalenza smentirono le accuse.
Fu chiesto anche al giudice istruttore di Sala Consilina d'indagare sulle
amicizie e sul comportamento tenuto da Giovanni Miraglia durante il suo
soggiorno a Polla.
Il Procuratore Generale del Tribunale di Potenza, dopo avere analizzato
tutti gli elementi raccolti il 14 maggio 1851 chiese per dodici imputati
il proscioglimento per insufficienza di prove; l'arresto e il rinvio a
giudizio per Francesco Antonio Coronati, accusato di avere incitato il
popolo ad armarsi contro l'Autorità Sovrana. Il 28 novembre 1851 dispose
che l'imputato fosse giudicato in contumacia per il reato di cui era
accusato. La Corte il 16 giugno 1852, presi in esame il rapporto del
giudice istruttore e le conclusioni del pubblico ministero, ritenne
all'unanimità il Coronati colpevole del reato ascrittogli e lo condannò
alla pena di 19 anni di carcere. L'imputato il 28 ottobre 1852 chiese e
ottenne dalla Corte un salvacondotto per 12 giorni per potere sbrigare
alcune faccende personali, previo il pagamento di una cauzione di 100
ducati. Egli si presentò spontaneamente al giudice il 19 novembre avendo
ascoltati i capi d'accusa, li contestò e addusse a suo discarico la
testimonianza di persone bene informate dei fatti.
Ammise di avere riunito il 13 giugno al piano della taverna la Guardia
Nazionale per la consueta esercitazione, precisò di non avere fatto
discorsi sediziosi contro le Reali Autorità, di non avere parlato di
armarsi e partire, per andare a combattere contro le Reali Bandiere, di
avere percosso il milite Francesco di Grazia, perché ubriaco e oltremodo
indisciplinato e irriguardoso. Dichiarò che i suoi accusatori, Francesco
Casella, Giuseppe Casella, Domenico de Marco e Nicola Vignola avevano
mentito, il primo per trarre vantaggio, gli altri per rancori personali.
Il procuratore della Gran Corte Criminale, dopo avere esaminati i nuovi
fatti emersi dalle dichiarazioni dell'imputato, rimise gli atti al
giudice istruttore per disporre ulteriori accertamenti e trarre le
debite conclusioni. Furono ascoltati trentadue testimoni a discarico e
tre a carico; i primi affermarono che Francesco Coronati nel 1848 si era
comportato in maniera moderata, aveva istruito la Guardia Nazionale con
zelo e competenza, e che l'episodio del 13 giugno 1848 era stato
determinato dall'insubordinazione del di Grazia. Dagli interrogatori
emerse anche che Giuseppe Maggio era molto ostile al Coronati perché
temeva che quest'utimo gli subentrasse nella gestione dei beni dei Sigg.
Fittipaldi. I secondi dichiararono di avere nel primo processo deposto
il falso mossi da sentimenti di vendetta; lo stesso Francesco di Grazia
fece pervenire alla Corte per mezzo del parroco Don Giuseppe Passarella
il suo rammarico per avere ingiustamente accusato il Coronati, perché
disse di essere stato indotto da altri. La Gran Corte Criminale di
Basilicata il 20 dicembre 1852 visti gli atti a carico dell'imputato,
poiché nella nuova istruttoria non erano emersi indizi di colpevolezza,
a voti unanimi lo prosciolse dal reato ascrittogli (37). La Gran Corte
Criminale, nel processo istruito a Potenza contro coloro che avevano
preso parte ai movimenti politici svoltisi in Basilicata nel 1848,
inflisse pene severe ai maggiori responsabili; Don Francesco Paolo
Coronati, ex rettore del Regio Collegio, fu condannato a diciannove
annidi carcere (38).
Finiti i processi non solo coloro che erano stati giudicati ma anche
coloro che avevano manifestato sentimenti liberali furono inclusi nelle
liste degli Attendibili politici e sottoposti a sorveglianza di polizia.
Non era loro consentito allontanarsi dal paese pena la carcerazione,
erano spiati di casa in casa, per le vie e ovunque andassero. Tale
persecuzione politica gettò nel terrore e sgomento le famiglie dei
galantuomini quasi tutte rovinate anche economicamente. Le liste degli
Attendibili dalla polizia venivano costantemente aggiornate, accanto ai
nomi figuravano note concernenti non solo la condotta del sorvegliato,
ma anche il carattere e qualsiasi altra notizia utile (39).
Del dott. Gaetano Miraglia si scrisse: "di temperamento non tanto
moderato, storpio nei piedi, ammogliato, senza figli"; per il notaio
Arcangelo Passarella: "di temperamento allegro"; per l'avv Giovanni
Miraglia: "di temperamento elastico e liberale"; per il proprietario
Camillo Sassano: "di temperamento non stabile"; per il dott. Federico
Volini, vedovo con una figlia: "di temperamento elastico e liberale".
Furono destituiti dagli uffici pubblici Don Giuseppe Cascinolo, usciere
del Regio Giudicato, il notaio Arcangelo Passarella, sostituto
cancelliere, esclusi dalle cariche comunali i decurioni Rocco d'Aniello,
Gerardo Allegretti, Saverio del Giudice, Nicola Miraglia e Vincenzo
Passarella.
Gli uomini più intraprendenti e i più colti furono allontanati dalla vita
attiva; i liberi professionisti furono costretti a non esercitare quasi
più la professione e i proprietari ebbero difficoltà a vendere i
prodotti agricoli con grave danno economico per tutta la collettività.
I giovani che studiavano a Potenza furono anch'essi schedati: Giuseppe
Coronati di anni 19 di Alessandro, studente presso i Gesuiti, Francesco
Antonio Passarella di anni 18 di Giuseppe, studente chimico presso Don
Gaetano Demarco, domiciliato in casa di mastro Luigi Aquino, Carlo
Policastro di anni 20 fu Luigi, studente presso i Gesuiti, Luigi Guarini
di anni 21 fu Federico, domiciliato presso il Sig. Fittipaldi negoziante
di coloniali sottoposto a vigilanza di polizia per le sue idee politiche
(40).
La vita del paese fu sconvolta, furono violati gli affetti più profondi,
rinfocolati i rancori antichi, messa in dubbio la parola data, negata la
verità, la menzogna divenne strumento di estrema difesa. |