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rivigno - Dal Medioevo all'età Contemporanea
Raffaella Brindisi Setari
 

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3. Revisioni demaniali

Con il ritorno dei Borboni gli ex Baroni sperarono in una revisione della legge a loro favore; la Corona per non scontentare la nuova classe emergente confermò l'abolizione della feudalità (Legge 11 dicembre 1816, art. 9) e affidò la revisione della riforma ad una commissione che riconobbe e confermò quanto già disposto con la Legge del 20 settembre 1817 (41). Il governo per le situazioni contingenti non poté non seguire un indirizzo liberale, però i continui mutamenti delle direttive, le deficienze normative e le lentezze procedurali portarono ad una stasi nel lavoro di ripartizione e di assegnazione delle terre demaniali determinando una situazione di confusione e di illegalità.
Il Principe Carafa nel 1818 preferì vendere la sua quota del bosco Torricelle per 3000 ducati al Sig. Antonio Fittipaldi di Anzi (42); alcuni dei sei quotisti a cui erano state assegnate le terre, non avendo i mezzi necessari per coltivarle, furono costretti a cederle; ne approfittarono i più facoltosi che mediante continue usurpazioni finirono con acquisire anche terreni non ancora quotizzati (43).
Nel 1850 il sindaco, Don Domenico Antonio Sassano, constatando che le proprietà comunali erano ridotte a nulla, chiese all'Intendente di Basilicata che fosse verificato il reale stato di fatto (44).
L'accertamento fu affidato al consigliere delegato, Raffaele Cassitto, affiancato dai decurioni, Basileo Zito, Giuseppe Coppola e altri indicatori e conoscitori dei luoghi. Dinanzi al Commissario Regio per la divisione dei demani il 23-25 agosto 1857 si svolse la causa tra il Comune di Trivigno, rappresentato dall'avvocato Antonio Sarli, e gli oltre sessanta usurpatori rappresentati, in gran parte, dagli avvocati Ottavio Berni e Francesco Guarini. Il Commissario Regio letti gli atti relativi alla verifica, valutate e argomentazioni delle parti, decise:
1) di approvare le operazioni di verifica;
2) di accogliere le rinunzie presentate da alcuni usurpatori;
3) di riconoscere (ai sensi dell'art. 30 delle istruzioni del Dec. del 10 marzo del 1810), quali quotisti i circa trenta possessori di terre occupate e migliorate con vigneti, orti alborati e siepati, casamenti, come tali soggetti solo al versamento di un annuo canone al Comune;
4) il rilascio da parte di tutti gli altri usurpatori delle terre illegittimamente occupate e la reintegra delle stesse nel Demanio Comunale;
5) il pagamento dei frutti indebitamente percepiti dal giorno dell'usurpazione, e delle spese di giudizio da parte degli occupanti in proporzione all'estensione da ciascuno posseduta.
Al consigliere Cassitto venne affidato il compito di immettere il Comune nel possesso delle terre reintegrate, di fare apporre i titoli lapidei corrispondenti e di stabilire il canone sulle terre migliorate come prescritto dalla legge.
Alcuni usurpatori condannati al rilascio, chiesero e ottennero (Regio Decreto 25 settembre 1857) la concessione in enfiteusi delle terre occupate. Le usurpazioni, malgrado questi provvedimenti, non cessarono e le contestazioni continuarono (45).
Per risolvere la questione demaniale e fare godere alle popolazioni quei benefici materiali e morali che l'eversione della feudalità aveva fatto sperare, lo Stato avrebbe dovuto mettere a disposizione dei coltivatori notevoli risorse economiche, sostenere le amministrazioni locali senza gravarle di ulteriori oneri, con leggi adeguate favorire ogni iniziativa permettendo in tale modo la formazione della piccola proprietà capace di creare reddito e di allontanare lo spettro della fame; né i Francesi né i Borboni però intesero affrontare economicamente tale problema.
Il ceto dei nullatenenti vedendo vanificata ogni possibile rivendicazione, non potendo neppure più contare su quel poco che in passato ricavava dagli usi civici, divenne sempre più inquieto. Risultava quasi impossibile provvedere agli elementari bisogni della famiglia; anche gli artigiani, pur esercitando quasi sempre due mestieri, non riuscivano a vivere; un rancore sordo e profondo rendeva tutti più disperati e pronti a dare ascolto a qualsiasi promessa. Questo, purtroppo, sarebbe accaduto dopo pochi anni.


4. Il terremoto del 1857

La Basilicata, essendo una terra altamente sismica nella prima metà del XIX sec. registrò numerosi movimenti tellurici; il più catastrofico si abbatté sul Potentino, nella valle dell'Agri e nel Salernitano. Secondo l'accertamento del direttore dell'Osservatorio astronomico di Capodimonte, Leopoldo Re, mercoledì 16 dicembre 1857 alle ore 22,10 due violentissime scosse, con movimento ondulatorio e sussultorio, la prima di quattro secondi (preceduta e accompagnata da spaventevole rombo, mentre il cielo era perfettamente sereno e calmo), la seconda dopo due minuti della durata di venticinque secondi, colpirono duramente le province del Principato Citeriore e di Basilicata (46).
Altre due scosse della durata di qualche secondo furono avvertite alle ore tre e alle cinque del mattino, tutte ondulatorie nella direzione da mezzogiorno a settentrione (47). All'alba quando divennero più evidenti i segni di quello scuotimento rotatorio, pulsante e turbinoso la popolazione inebetita cominciò a riversarsi nella campagna in cerca di capanne e pagliai (48); una vera catastrofe (49).
A Trivigno i danni furono gravi (50); particolarmente fu colpita la parte alta del paese ed anche la più antica che comprendeva la Chiesa Madre, le fatiscenti casupole circostanti e l'edificio in cui era alloggiata la gendarmeria. La Commissione preposta alla ricognizione dei danni, iniziò il 24 dicembre successivo ad eseguire le perizie degli edifici per verificare la stabilità; accertò che le poche case rimaste indenni non potevano dare alloggio a tutti coloro che avevano avuto l'abitazione distrutta, decise che fossero puntellate quelle pericolanti e abbattute le irrecuperabili. Risultarono molto danneggiati l'edificio in cui era alloggiata la gendarmeria (ex palazzo Carafa), la Chiesa Madre nel coro, nelle cappelle della Madonna del Rosario, del Crocifisso, nella copertura del tetto e nel pavimento.
La chiesa di Sant'Antuono subì il crollo parziale della facciata, pertanto, fu necessario trasferire le statue dei santi nella Chiesa Madre. La Commissione per dare un primo aiuto alle dieci famiglie più colpite dal sisma e per la ricostruzione degli edifici pubblici dispose che fossero utilizzati i modesti fondi pubblici e quelli della Beneficenza (51). Per venire incontro ai terremotati il Re concesse di creare un nuovo centro agricolo nelle terre demaniali del bacino del fiume Sele; sessantatre nuclei familiari trivignesi, per un totale di duecentoquarantasette persone (centoventotto uomini, centodiciannove donne), chiesero di trasferirsi in quella sede; questa possibilità venne vanificata perché furono preferite le popolazioni provenienti dai Comuni limitrofi.


5. Trivigno e la Basilicata nel processo di unificazione nazionale

a) In tutti i centri della Basilicata, dopo un primo momento di sbandamento, riprese il lavorio segreto dei liberali. I galantuomini, superando le diverse posizioni assunte nel 1848, rinsaldando i vincoli d'amicizia e di parentela, si adoperarono per attuare una nuova politica in difesa di ciò che erano riusciti a realizzare e che vedevano in costante pericolo. Essi avevano preso il posto dell'antico padrone ed esercitavano il potere con la stessa durezza essendo in gioco la loro sopravvivenza.
In Basilicata il patriota Giacinto Albini nel 1856 riordinò l'associazione Unità d'Italia e raccolse intorno a sé i liberali. Dopo il terremoto del 1857 che distrusse quasi completamente Montemurro (suo paese di origine) e la sua casa, si spostò a Corleto, dove costituì un Comitato Centrale Lucano che intendeva promuovere la caduta dell'assolutismo borbonico e, abbandonando qualsiasi rivendicazione repubblicana, proclamare l'unità e l'indipendenza d'Italia con a capo il Re Vittorio Emanuele II di Savoia. In questo contesto s'inserì la sfortunata spedizione di Sapri (52), pertanto la vigilanza della polizia si fece più attenta. Un'informazione segreta segnalò che presso l'avvocato trivignese Francesco Guarini, residente a Potenza, si trovavano alcune stampe sovversive e altri elementi di corrispondenza criminosa (53).
L'11 ottobre del 1859 fu effettuata la perquisizione della casa ed esaminati meticolosamente i libri, le carte ed altri effetti; furono rinvenute composizioni poetiche relative all'indipendenza italiana fra cui l'inno di Manzoni All'Italia e vari indizi che lo indicavano come uno dei collettori delle offerte volontarie per i feriti di Palestro e San Martino.
L'avvocato Guarini fu arrestato con l'accusa di cospirazione, anche se alla polizia risultava che forse le carte appartenevano al fratello Gaetano, a sua volta invitato a rimanere a disposizione della legge. Di tutto il segreto lavorio dei liberali trivignesi non è rimasta alcuna traccia nelle carte private; il timore delle perquisizioni domiciliari, minuziose e attente da parte della polizia, spinse gli interessati a distruggere qualsiasi scritto compromettente. La morte di Ferdinando II di Borbone, avvenuta a Caserta il 22 maggio 1859, portò sul trono il figlio Francesco II che continuo a regnare seguendo le orme paterne.
I liberali vedevano alimentate le loro speranze dalle notizie delle vittorie di San Martino e di Solferino (24 giugno 1859) e dalla conclusione della II guerra d'Indipendenza (11 luglio 1859).
Conseguenza di questi successi fu l'annessione al Piemonte della Lombardia, anche le popolazioni della Toscana, Romagna e Marche con un Plebiscito espressero la loro volontà di essere aggregate al Piemonte. Mancava il Regno delle Due Sicilie; Garibaldi, rompendo ogni indugio il 5 maggio 1860 salpò da Quarto, sbarcato in Sicilia con una campagna fulminea la conquistò (54) Lo Stato borbonico si stava disgregando, lo stesso esercito fu abbandonato da molti ufficiali, che non esitarono a disertare; Francesco II con una serie di provvedimenti tentò di salvare il trono concedendo il 24 giugno 1860 l'amnistia per i reati politici, l'adozione del vessillo tricolore e lo Statuto.
Tutto ciò fu respinto dai liberali con la più tremenda delle cospirazioni, quella del silenzio; era troppo tardi, il processo innovatore era già iniziato (55).
I patrioti lucani manifestarono apertamente il loro consenso per le vittorie di Garibaldi; incoraggiati e sostenuti da Giacinto Albini costituirono i Comitati Liberali in tutti i paesi; ai primi di luglio del 1860 Corleto divenne sede del Comitato Insurrezionale Lucano.
Il 16 dello stesso mese si riunì il Consiglio Comunale di Trivigno sotto la presidenza del secondo eletto, Giovanni Antonio Sodo (il sindaco Domenico Antonio Sassano era in congedo dal 26 giugno) che, in ottemperanza a quanto disposto dal Decreto Reale del 5 luglio, deliberò all'unanimità le terne per la scelta dei quadri della Guardia Nazionale avendo cura di indicare uomini quasi tutti liberali, arruolando, inoltre, una quarantina di militi (56). Il 16 agosto in seguito alle incoraggianti notizie che provenivano dai centri limitrofi, dopo avere abbattuto le insegne borboniche e innalzate quelle nazionali si riunì sotto la presidenza del sindaco pro-tempore, Giovanni Miraglia, il Consiglio Comunale provvisorio composto dai decurioni: Gaetano Sodo, Giovanni Coronati, Saverio del Giudice, Antonio Petrone, Nicola Calabrese, Michele Padula. Erano assenti i decurioni Arcangelo Passarella, Camillo Sassano e Saverio Sarli che insieme a molti altri si erano recati a Corleto dove quattro ufficiali, disertori dell'esercito borbonico, avevano iniziato a organizzare i volontari che giungevano da tutti i comuni lucani.
Nello stesso giorno a Corleto in casa di Carmine Senise, i liberali nominarono un governo provvisorio formato dal democratico Giacinto Albini, dal garibaldino Nicola Mignogna e dal colonnello Camillo Boldoni, rappresentante del ministro Cavour, che ebbe il comando delle forze rivoluzionarie.
"Alle ore 5 p. m. - ha scritto con dovizia di particolari il Sign. Michele Lacava - erano presenti nella vasta piazza Plebiscito (allora denominata del Castello) 400 militi della Guardia Nazionale e del drappello degli Insorti, oltre circa 80 disertori, il Comitato Lucano, il Prodittatore Albini ed il Colonnello Boldoni proclamarono solennemente il Governo Nazionale, innalzando la gloriosa bandiera della Patria .... Assistevano più migliaia di persone .... e quando fu proclamato il Governo Nazionale, i militi della Guardia Nazionale e degli Insorti presentarono le armi al sacro vessillo d'Italia, mentre le bande suonavano inni patriottici del 1848 e il popolo acclamava il nuovo governo con evviva e segni di gioia, impossibili a descriversi... " (57).
Da Trivigno all'alba del 18 agosto partirono una sessantina di uomini guidati dal medico Federico Volini e dal notaio Arcangelo Passarella che, unitisi alla colonna del Boldoni, mossero per Potenza dove erano confluiti gli insorti da tutti i centri della Basilicata (58). Nel capoluogo nello stesso giorno, dopo un rapido, confuso e sanguinoso conflitto tra la gendarmeria borbonica e i militi del popolo, i rivoltosi trionfarono. Venne proclamato il governo provvisorio in nome di Vittorio Emanuele II, Re d'Italia, e del generale Giuseppe Garibaldi, dittatore delle due Sicilie; furono nominati prodittatori Giacinto Albini e Nicola Mignogna. La notizia degli eventi accaduti in Basilicata infuse nuove energie ai patrioti calabresi e pugliesi; lo stesso Garibaldi rompendo ogni indugio passò lo stretto di Messina; dopo avere attraversato la Calabria il 2 settembre si fermò in Basilicata, a Rotonda, successivamente al Fortino di Lagonegro dove il 4 incontrò Nicola Mignogna che, a nome della provincia di Basilicata, gli dette il benvenuto e gli consegnò seimila ducati raccolti con una sottoscrizione fra i lucani (il Comune di Trivigno aveva offerto un contributo di 72,80 ducati) (59).
Circa trenta volontari trivignesi vennero aggregati all'VIII colonna (al comando del maggiore Francesco Pomarici di Anzi) che successivamente confluì nella Brigata Lucana, denominata in seguito Brigata Basilicata. Il 6 settembre Francesco II abbandonò Napoli, veleggiando verso Gaeta, il giorno successivo Garibaldi entrò a Napoli accolto da una folla osannante (60). Le popolazioni lucane con il Plebiscito del 21 ottobre riconobbero Vittorio Emanuele II Re d'Italia. Tale evento a Trivigno fu solennizzato con tre giorni di festeggiamenti con musica e fuochi d'artificio; nella Chiesa Madre, parata a festa, fu celebrata la messa solenne con l'esposizione del SS. Sacramento e il canto ambrosiano; per l'occasione venne offerto un pranzo ai detenuti (61). Non tutti in Basilicata parteciparono alle manifestazioni di giubilo per l'acquistata libertà; i cafoni già in contrasto con la borghesia, istigati e sorretti dai nostalgici del vecchio regime si abbandonarono a manifestazioni di protesta, anche violente, contro i notabili e galantuomini rinnovando la richiesta della quotizzazione delle terre demaniali.
Seguì da parte dello Stato il difficile compito del riordinamento amministrativo delle Province. Il Consiglio dei Ministri volendo centralizzare il sistema di governo estese, con intransigente applicazione, a tutto il Paese le leggi Sardo-Piemontesi non valutando la disparità esistente tra il nord più progredito e ricco, e il sud costituito dall'ex Regno delle Due Sicilie lasciato dai Borboni nel più completo abbandono, privo di strade, di scuole, di assistenza medica, di case, di cimiteri. I soldati del disciolto esercito borbonico furono richiamati alle armi (Dec. del 20 dicembre 1860), molti non si presentarono, preferirono divenire fuori bando aggregandosi a quella massa di diseredati costituita da delinquenti comuni, da ex soldati borbonici e da cafoni disperati (62). Nei Comuni era stato già predisposto, con l'ordine prodittatoriale del 19 agosto 1860, l'inquadramento dei cittadini nella Guardia Nazionale; i giovani, dai 18 ai 30 anni, potevano essere impiegati fuori del Comune, dai 30 ai 40 anni, avevano il compito di guardia attiva nell'ambito del Comune, dai 40 ai 60 anni, gli idonei alle armi formavano la guardia sedentaria (63).
Nel mese di luglio del 1861 furono emanate le nuove disposizioni fiscali, quali la riscossione delle imposte da parte di un agente che ebbe il compito di compilare i ruoli sulla ricchezza mobile, sul Registro e Bollo, sul dazio, sui fabbricati, sulle finestre, sugli affitti e in seguito sul macinato. Tali tasse colpirono soprattutto i più deboli che già a stento vivevano con un misero salario, pur lavorando dieci-dodici ore al giorno.
Vennero incamerati i beni ecclesiastici (leggi 7 luglio 1866; 15 agosto 1867) e fu istituito dallo Stato il Fondo Culto; l'anno successivo furono soppresse le Chiese Ricettizie, istituzioni che erano state per secoli il fulcro della vita religiosa, economica e sociale dei Comuni meridionali, alienandosi in tal modo il consenso del Clero (64). Tra il parroco di Trivigno e l'istituto del Fondo Culto iniziò un fitto carteggio per definire l'assegnazione della congrua e per il supplemento di congrua (65).
In ogni capoluogo di Provincia le Intendenze furono sostituite dalle Prefetture, il Ministro degli Interni provvedeva alla nomina dei Prefetti scelti per lo più tra i generali e gli ufficiali superiori dell'esercito piemontese. Questi uomini destinati al governo delle province meridionali, considerate terre di conquista, ignoravano di esse la situazione economica, gli usi e i costumi. A Potenza fu inviato come Prefetto il savoiardo Giulio De Rolland che parlava solo il francese e capiva a stento qualche parola d'italiano; non conosceva quali fossero le urgenti necessità del popolo e dell'ambiente in cui si trovava ad operare, ciò creò con i locali profonde incomprensioni (66).
La Provincia di Basilicata fu divisa in quattro Circondari: Potenza, capoluogo, Lagonegro, Matera e Melfi e questi in Mandamenti. Gli Uffici Giudiziari furono riordinati (Decreto del 17 febbraio 1861), furono abolite le Corti Civili e le Gran Corti Criminali, istituiti a Potenza la Sezione della Corte d'Appello, i Tribunali nei Distretti, le Preture nei Mandamenti; a Trivigno, già sede di Regio Giudicato, fu istituita la Pretura e nominato pretore il dott. Vincenzo di Pietro.
Fu confermata la divisione dei Comuni in classi in base al numero della popolazione; Trivigno, avendo meno di 4.000 abitanti, rimase Comune di III classe e compreso nel Circondario di Potenza.
Si dispose che il Consiglio Comunale fosse votato dagli elettori residenti nel Comune già presenti nelle liste per censo e cultura; il sindaco nei Comuni con una popolazione inferiore a 4.000 abitanti, come prescritto dalla legge, era designato dal Re.
Il Consiglio Comunale provvisorio di Trivigno e il sindaco protempore Giovanni Miraglia, in carica dopo gli eventi del 18 agosto 1860, cominciarono a lavorare per dare risposte concrete alle esigenze della popolazione. Il 7 ottobre fu deliberata la sistemazione della fonte Pozzo dei Preti, la nomina del Giudice Conciliatore nella persona del sacerdote Vincenzo Passarella e di un guardaboschi per prevenire eventuali usurpazioni nel bosco comunale. L'Amministrazione Provinciale per fare fronte alle prime e più urgenti necessità dei Comuni contrasse un mutuo di circa 25 milioni di lire da erogare per opere di pubblica utilità.
Il sindaco il 18 dicembre convocato il Consiglio Comunale invitò tutti cittadini a partecipare per deliberare quali fossero le opere più utili alla collettività e stabilire l'ammontare del prestito. Dopo una lunga discussione si stabilì di costruire il cimitero e un ponte sul fiume Basento, per limitare il prestito a solo 2.000 ducati da restituire in 20 anni, cifra già considerevole per le scarse risorse comunali. L'avvocato Miraglia ritenne opportuno segnalare alle Autorità competenti lo stato di estremo degrado in cui versava il paese e sottolineò che era indispensabile, per il decoro di tutti, rendere decente e adatta al culto la Chiesa Madre, alla Diocesi di Acerenza chiese di contribuire alla spesa, essendo tenuta, per Legge Canoni e Concordato, a sopperire ai bisogni dei luoghi di culto con un terzo delle rendite all'uopo destinate. Era, inoltre, indispensabile riparare le strade interne all'abitato e riattare quelle esterne con l'aiuto economico anche dei centri limitrofi che facevano capo a Trivigno, quale capoluogo di Mandamento; congiungere il paese con una rotabile alla strada Lucana Potenza-Matera con spesa a carico della Provincia; costruire una pubblica fontana captando l'acqua d' Russ, più leggera e salubre e portarla con una condotta fino all'abitato (67). A seguito delle nuove normative venne confermato sindaco, l'avvocato Giovanni Miraglia ed eletto il Consiglio Comunale nelle persone dei Sigg. Nicola Abbate, Leonardo Abbate Francesco Antonio Beneventi, Francesco Coronati, Antonio de Marco, Giovanni Battista Guarini, Arcangelo Passarella, Giovanni Antonio Petrone, Giuseppe Sarli, Camillo Sassano, Rocco Sassano, Gaetano Sodo, Vito Volpe e Federico Volini (68).


6. Il brigantaggio post-unitario

Spenti i facili entusiasmi che ogni nuovo evento comporta, deluse le aspettative di concrete riforme, la popolazione mostrò sempre più apertamente il dissenso verso l'autorità costituita; questo era dovuto, più che a una reale opposizione politica, a un profondo malessere sociale determinato dall'eccessivo fiscalismo a danno soprattutto dei più deboli, alla formazione della Guardia Nazionale, alla leva obbligatoria che spinse molti giovani a disertare e aggregarsi a quella massa di diseredati pronti a tutto. La distribuzione dei vari uffici municipali fu motivo d'invidia e di risentimento; gli esclusi dal potere, sentendosi vinti, abbracciarono la causa borbonica e si adoperarono per attrarre nella propria orbita i braccianti che covavano un sordo rancore contro i galantuomini; un solco sempre più incolmabile divise i benestanti dai contadini che si sentivano beffati dalle infinite e inutili dispute relative alla quotizzazione delle terre ex feudali quasi del tutto usurpate. L'opportunità d'impossessarsi di tutto ciò che era stato a lungo negato fu offerta dal brigantaggio che faceva sperare ancora in possibili mutamenti; si vociferava che il Re Borbone era ancora forte e il suo ritorno imminente. Nel basso potentino circolavano voci sediziose; emblematico fu il comportamento di un certo Antonio, muratore di Trivigno che lavorando in una fornace di calce nel bosco di Castelmezzano il 12 giugno 1861 disse a un giovane contadino di avere sentito dei colpi, questo era il segnale che di lì a pochi giorni Francesco II sarebbe rientrato a Napoli. Aggiunse di avere un figlio sbandato, pur di sottrarlo alla leva lo avrebbe portato con sé intendendo egli stesso mettersi alla testa di una trentina di giovani dei paesi limitrofi (69).
Nel melfese già negli ultimi mesi del 1860 si erano costituite le prime bande brigantesche, formate da ricercati, da ex soldati borbonici disertori e da tutti coloro che erano desiderosi di modificare il proprio stato, comandate da uomini che divennero tristemente famosi per l'efferatezza e la ferocia delle loro gesta, per l'astuzia, per una naturale capacità di comando e tattica di guerriglia, per la conoscenza di ogni anfratto, sentiero e rifugio sicuro nei boschi. Questo permetteva loro di muoversi liberamente, spostarsi a piedi e a cavallo con grande rapidità giungendo a percorrere fino a 50 miglia al giorno con qualsiasi tempo, dormendo all'addiaccio senza accendere, se necessario, neppure un fuoco, senza cibo, né acqua, mostrando in tale modo una vigoria fisica e una sopportazione non comune dei disagi e delle fatiche. I più noti furono Carmine Donatelli, detto Crocco (70), di Rionero, Carmine de Biase di Ripacandida, Vincenzo d'Amato, detto Stancone, di Ferrandina, Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco, di Avigliano e il calabrese Paolo Serravalle a cui si unì in seguito il fratello Angelo.
Questo primo nucleo brigantesco crebbe a mano a mano di numero e si segnalò per le atrocità commesse. Nel melfese i ricchi proprietari, per tradizione e interesse fedeli alla Casa Borbonica volendo favorire la restaurazione di Francesco II, cercarono di approfittare di costoro.
Crocco fu chiamato, in gran segreto, da persone di cui non fece mai il nome che gli prospettarono la possibilità di prendere parte con un ruolo non marginale ad una controrivoluzione già organizzata. A marzo del 1861 gli furono consegnati 800 fucili e le munizioni; ad aprile fu raggiunto dal francese De Langlais (71). A Crocco si aggregarono tutti i soldati sbandati creando un contingente di circa 500 uomini; ebbe inizio la reazione armata. Il Governo sottovalutò quanto stava accadendo; solo nel luglio del '61 inviò in Basilicata il generale della Chiesa per organizzare e dirigere la repressione delle bande armate, colpire i briganti nei loro rifugi e impaurire i sostenitori. Fu emanato un bando che prometteva un più mite trattamento sanzionatorio a coloro che si fossero spontaneamente costituiti (72). Crocco, non credendo a tali promesse, rispose alla sua maniera assalendo il 10 agosto 1861 Ruvo del Monte, saccheggiando, incendiando e trucidando 13 inermi cittadini. In località Toppacivita le bande, capeggiate da Crocco si scontrarono con le truppe regolari costringendole a ripiegare (73). Questo successo dimostrò che i briganti erano capaci non solo di azioni di guerriglia, ma di sostenere uno scontro frontale con le forze regolari (74). A est di Potenza il brigante Paolo Serravalle (75), presente da tempo nei boschi Salandra, Tricarico, San Chirico, Anzi, Calvello e Pignola, ebbe il covo più sicuro nella grancia di San Demetrio di Brindisi di Montagna, il cui territorio conosceva palmo a palmo perchè era stato in questa zona in qualità di guardiano della proprietà dei Sigg. Materi di Grassano. Il luogo, per la particolare ubicazione, facilitava gli incontri con i suoi uomini e con gli altri capibanda e gli consentiva di operare assalti improvvisi e facili fughe. Egli nei boschi di Trivigno, Anzi, Castelmezzano e Brindisi, dove il fratello Angelo aveva moglie e figli, riuscì a formare una fitta rete di connivenze con massari e pastori che, per potere continuare a lavorare, salvare gli armenti, i raccolti, le masserie da saccheggi, dagli incendi e da uccisioni, divennero suoi fiancheggiatori, fornendogli tutto quello di cui potesse avere bisogno.
Gli stessi gli facevano pervenire le notizie sui movimenti di truppe, sull'uscita in perlustrazione della Guardia Nazionale, sulla situazione dei vari paesi, diffondevano false notizie allo scopo di allarmare le popolazioni, e di attrarre nell'orbita brigantesca i delusi e gli scontenti. Angelo Serravalle quando fu in carcere a Trivigno, così come riferì il carceriere Rocco losca, visitato da Luigi Orga gli ricordò che avrebbe dovuto dare al fratello Paolo le 20 piastre di cui sapeva; un altro detenuto, Pietro di Milva di Spinoso, confermò di avere sentito dire da Angelo Serravalle che Luigi Orga avrebbe dovuto sborsare 800 ducati (76). I fratelli Serravalle avevano in paese molte conoscenze e appoggi non solo tra il popolo ma anche tra i massari, gli artigiani e i galantuomini.
Francesco II, nel contempo, approfittando del grave malcontento delle popolazioni cercò di utilizzare le orde brigantesche per giungere alla restaurazione borbonica. Tale impresa fu affidata, il 5 luglio 1861, dal generale Clery, fedele realista, al guerrigliero spagnolo Josè Borjes al quale fece credere che la Calabria e le Province Meridionali erano pronte a sollevarsi, e che egli avrebbe dovuto assumere il comando delle forze brigantesche.
Borjes sbarcato in Calabria, il 13 settembre 1861, non trovò tra la popolazione il consenso promesso, pertanto fu costretto ad unirsi e servirsi di uomini della peggiore specie. Tra mille pericoli e disagi l'11 ottobre giunse a Terranova del Pollino, risali attraverso i boschi della Basilicata tenendosi sempre alla larga dai paesi, perché braccato dalle Guardie Nazionali italo-albanesi; trovò realisti solo fra i contadini lucani che definì paurosi e avidi al pari dei calabresi (78). Stanco, sfiduciato, dopo avere attraversato i boschi di Salandra, Grottole, Grassano e Tricarico, il 19 ottobre giunse nella foresta di Lagopesole; sotto la pioggia battente si aggirò in quei luoghi impervi, il 22 ottobre incontrò Crocco a cui mostrò le istruzioni ricevute. Il capobanda, temendo di perdere il titolo e la potestà di generale che si era autonomamente assunti, diffidando per esperienza dell'effettivo aiuto dei reazionari, sapendo che i suoi, abituati alla vita libera e al saccheggio, male si sarebbero adattati alla disciplina militare, addusse vari pretesti per non ottemperare ai comandi dicendo di dover attendere l'arrivo da Potenza di un generale francese (79). La mattina del 23 ottobre giunse De Langlais che alla richiesta di Borjes di mostrare gli ordini scritti rispose di averli avuti oralmente (80). Crocco, dopo lunghe trattative sulla paga da corrispondere agli uomini e accordi verbali sull'ordinamento del comando, concesse allo spagnolo di avere mano libera per sé e i suoi e gli affidò il comando di circa mille uomini. Aveva inizio la fase politica del brigantaggio post-unitario.

 

 

 

 

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