Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."
Maria Schirone

 

 

Senza lamenti, senza lacrime: La storia di Rosina Mamma contadina, mamma cittadina… Esperienze e sentimenti di una discendente di Lucani Una Visita a Montemurro

Esperienze e sentimenti di una discendente di Lucani

di Elena Pucciarelli Di Romano
(originaria di Savoia di Lucania e Sant’Angelo Le Fratte; n. a Montevideo, Uruguay)

 

Una figlia e moglie scrive quello che sente perché ha avuto la fortuna di vivere insieme a parenti venuti dalla Lucania. La parola ‘emigrante’ ci fa pensare moltissimo. Per me essa racchiude molte cose: dolori, solitudine e anche allegria.

Nel mio caso, sono figlia di due persone meravigliose e sacrificate dalla vita. Inoltre, mi sono sposata a diciotto anni con un giovane italiano; lui ne aveva ventuno. Purtroppo è morto precocemente di cancro a quarantatrè anni. Il nostro desiderio era di andare a vivere al suo paese, ma questo non è avvenuto.

Mia madre e mio marito sono nati a Sant’Angelo Le Fratte; mio padre a Savoia di Lucania, due paesini di non più di 1500 abitanti, in provincia di Potenza. Mio padre, dopo aver subìto la terribile prima guerra mondiale, tornò al paese, distrutto interiormente e senza risorse. Imparò a leggere e scrivere un po’ mentre prestava il servizio militare.

Mia madre è potuta andare alla scuola del suo paese. La maestra voleva che continuasse gli studi, ma non fu possibile: c’erano dieci fratelli e non ha potuto fare quello che desiderava, nonostante le sue capacità. Dopo, conobbe mio padre e si sposarono in Italia.

Più tardi, mio padre decise di emigrare in America per migliorare la situazione e superare le privazioni.

Col denaro che riuscì a recuperare in prestito, andò in Brasile, ma vi rimase poco tempo, non si adattò e decise di tentare ancora in Uruguay. Immaginiamo lo sforzo che comportò la realizzazione di questo viaggio, a quei tempi.

In questo nuovo paese trovò alcuni compaesani che lo aiutarono e subito si mise a lavorare. Era un contadino senza risorse né preparazione. Ma non si è mai tirato indietro per svolgere un qualunque lavoro: il suo scopo era quello di pagare i debiti di viaggio e mettere insieme denaro sufficiente per far venire mia madre, e poter stare insieme.

Il suo primo lavoro è stato quello di vendere frutta che portava in un cestino appeso a un bastone poggiato sulle spalle.

L’anno seguente, con molte difficoltà, arrivò mia madre e così, lontano dai parenti e dal paese, cominciarono la grande lotta.

L’anno ancora successivo nacqui io: era il 1924. Poi riuscirono a comprarsi un piccolo pezzo di terra nel quartiere La Comercial, strada Cufré. Qui misero su una casetta, anche con l’aiuto dei compaesani.

Anche mia madre ebbe l’opportunità di trovare lavoro e, a casa sua, faceva la sarta. Comprarono una macchina da cucire, una ‘Singer’ usata, che ancora conservo e che cuce alla perfezione. Col tempo vendettero la casa e cominciarono a costruirne un’altra non distante dalla prima e lì abbiamo vissuto molti anni. In quella casa sono nati i miei figli.

Mio padre aveva comprato un carro e un cavallo e ora vendeva frutta e verdura più comodamente. Dopo alcuni anni di lavoro nel Mercato Agricolo raggiunse la possibilità di aprire un locale di fronte al Mercato, dove si vendeva ogni specie di frutta e fornito di stufe con cui far maturare le banane. Intanto era nato mio fratello. Ricordo con emozione lo sforzo, la volontà e lo spirito di lotta che c’era in famiglia per superare ogni difficoltà e andare avanti. I miei genitori erano molto affettuosi, non ci hanno mai trattato con durezza.

Si riunivano continuamente con i paesani, stavano insieme nel dolore e nell’allegria, e insieme conservavano le tradizioni del luogo d’origine. Si ballava la tarantella al suono di una fisarmonica. Quello che cucinavano era fatto in casa. Ricordo quei pani grandi e rotondi, le ciambelle, le paste, le salse e i lavori quando si facevano gli ‘imbottiti’. Sapevano fare di tutto e io ancora conservo alcune vecchie ricette e abitudini. Pensiamo un momento con quali scarsi attrezzi lavoravano: la tecnologia non era quella che c’è oggi.

I miei ricordi sono belli, i miei genitori mi hanno dato tutto: affetto, esempi di vita. Lottarono perché studiassi. Si preoccupavano che io avessi tutto quello di cui avevo bisogno, anche giochi, distrazioni. Quando era necessario davo a mio padre la lista dei libri di cui avevo bisogno e lui me li comprava. Sono stati sempre con me finché hanno chiuso gli occhi per sempre.

Certo, non hanno raggiunto le vette di qualche carriera, quello che sapevano lo hanno imparato vivendo e osservando, guardando quello che succedeva intorno a loro. Il cuore aperto, la mente attenta e il mutuo aiuto hanno loro permesso di vivere con dignità, pur lontani dal sostegno delle famiglie e dalla loro amata Italia che non dimenticarono mai. 

I giovani dovrebbero conoscere e imparare da storie come questa. La tecnologia è importante, ma non dimentichiamo gli aspetti umani della nostra storia. Mantenere un equilibrio tra la macchina e l’umano significa non permettere l’invadenza al punto da soffocare il dialogo e la conoscenza. Ci sembra importante conoscere il dolore che hanno affrontato gli emigranti e la dignità con cui l’hanno sopportato. Essi sono andati verso l’avventura senza sapere quello che il futuro avrebbe riservato loro, ma con speranza. Imparavano vivendo, non con rassegnazione ma facendo uso delle opportunità e delle circostanze che man mano si presentavano. Hanno avuto coraggio, forza, perseveranza. Ci hanno lasciato esempi da seguire. Come l’idea che bisogna lottare anche se lungo il nostro cammino incontriamo montagne da scalare: questo hanno fatto gli emigranti in quell’epoca superando le difficoltà dell’arrivo.

Adesso emigrare è diverso; le difficoltà ci sono ma sono altre. Per esempio, manca quella semplice solidarietà che si riceveva dai compaesani; invece, per poter sopravvivere lontano da quella rete di protezione del luogo d’origine è tanto importante poter comunicare e non affrontare tutto in solitudine. Il peggio è proprio essere isolati in un paese che non è il nostro.

Allora, si sapeva socializzare, con semplicità. Mancavano tante cose, ma c’era la gioia di godere di una semplice riunione tra amici, condita con la nostalgia dell’Italia. Quando un compaesano si ammalava c’erano molti ad occuparsene e a curarlo; pochi restavano indifferenti. Non tutti hanno avuto lo stesso destino, non a tutti è andata bene, questo si sa. Io ho vissuto quell’esperienza cogliendo gli aspetti positivi che mi offriva, quei ricordi sono dentro di me nonostante il passar del tempo, anche se sono disposta ad imparare continuamente e accogliere i cambiamenti che ritengo validi. Ad esempio, la mia casa è stata un punto di riferimento per amici e parenti che rimanevano finché potevano diventare indipendenti. Condividevamo tutto.

 

Riflessioni a margine.

 

Innanzitutto le mie riflessioni sono rispetto al coraggio che i miei genitori hanno avuto al momento di decidere per la partenza, lontano da chi li amava, senza niente e senza sapere cosa avrebbero potuto trovare. Era faticoso perfino far arrivare le notizie da e per la famiglia, con quei primitivi mezzi di comunicazione. Bello era vedere con quale tenacia costruivano un futuro per la propria famiglia e come si adoperavano perché gli altri italiani che arrivavano avessero un posto dove stare mentre cercavano di inserirsi nella nuova situazione.

Ci hanno insegnato ad apprezzare il paese dove loro sono nati e a conoscerne le tradizioni. E questo non potrà essere soffocato né dalle novità tecnologiche né dalla ‘globalizzazione’.

Senza titoli di studio, senza beni materiali hanno iniziato una diversa vita in un paese sconosciuto, con volontà, molti sforzi e senza troppo lagnarsi, garantendo alla famiglia tutto ciò che hanno potuto.

Non si sono mai dimenticati dell’Italia, però sempre hanno ringraziato la sorte per aver trovato in questo pezzo d’America la possibilità di vivere con dignità. Anche l’Uruguay ci è cara, per la maggior parte siamo figli di emigranti. Per noi, viva l’Italia e viva l’Uruguay.

Sono orgogliosa di essere figlia di questi lucani tanto umili d’origini, che con amore mi hanno dato tutto. Ho ereditato la loro forza, lo spirito battagliero e la gioia dell’aiuto e della solidarietà.

Oggi sono una semplice maestra in pensione.

Ho avuto due figli. Mia figlia è maestra e psicologa, laureata in Barcellona. Vive con me, ha anche lei due figli: un maschio, ingegnere civile, che conosce l’inglese, il tedesco e l’italiano; e una femmina, docente di filosofia. A Buenos Aires ho un figlio con quattro nipoti e due bis-nipoti. Quelli che sono a Montevideo sono cittadini italiani. Nessuno ha dimenticato la propria origine. Mia figlia, che è molto giovane, è vissuta un anno in Italia col marito, anch’egli italiano, medico veterinario.

Ringrazio ancora i miei genitori, se possono sentirmi.

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