Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."
Maria Schirone

 

 

Partenze Il mio viaggio all’estero alla ricerca di un futuro migliore Non ancora diciottenne misi la vita in una valigia… Una lucana emigrata in Svizzera

Partenze

 (Premio per la sezione Paesi europei)

di Anna Picardi
(da Accettura a Stoccarda-Stuttgart, Germania)

 

 

Motivazione del premio:

<< C’è tutto nel racconto: il passato, il paese, la festa, le gioie, le mortificazioni. Uno scontro di mondi stranieri l’uno all’altro. Spicca come un filo conduttore il dramma ‘in più’ dell’adattamento in una società che vorrebbe impedire alla donna di volare alto. Ma, alla fine, pure in una Germania spesso ostile, lo spazio chiuso si dissolve... >

 

Non sono una madre e neanche una nonna perché non ho avuto figli, un po’ per scelta un po’ per destino – parola magica e importante dalle nostre parti. Sono una figlia (come potrei non esserlo?) e soprattutto sono una donna. Una donna lucana. Alle soglie della cinquantina sono finalmente cosciente di quanto questo dato di fatto sia stato determinante.

Ho trascorso i primi dieci anni della mia vita ad Accettura, dove sono nata. Il paese, che contava allora circa cinquemila abitanti – ridotti oggi a milleottocento mentre gli edifici ne potrebbero ospitare diecimila –, rimane per me il giardino dell’Eden, il punto fisso, il luogo del ritorno per passarci la vecchiaia e morirvi.

La festa del ‘Maggio’[1] non era stata ancora scoperta, interpretata, pubblicizzata ed esaltata da studiosi e curiosi. Per noi “indigeni” e per me bambina era un evento ciclico che scandiva il ritmo del tempo e delle stagioni come la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, la fiera nostra, la rapposcin’ di Santa Lucia, i fuochi di Sant’Antun’, l’ammazzare il maiale, le maschere, u’ cupa-cupa, la rafanata nel periodo di Carnevale, le comunelle e le altalene appese agli alberi o nei sottani per Pasquetta e i canti delle varie ricorrenze che riempivano le campagne e le strettoie. Eppure no. C’erano alcuni elementi di novità a renderla la festa delle feste: la banda che suonava per tre giorni per le strade del paese, seguita da noi bambini, rivissuta e imitata poi con coperchi e pifferi falsi nei nostri concerti-ricordo per il resto dell’anno, le bancarelle, le fantasiose illuminazioni con archi magici e il padiglione per l’orchestra, la lunga processione delle cente seguita da quella di San Giuliano miracoloso. In nessun altro posto e in nessun altro momento ho percepito con altrettanta intensità gli avvenimenti della vita e la morte come parte integrante di essa.

Nel 1960, quando stavo per finire la scuola elementare con la quale a quei tempi si assolveva l’obbligo scolastico, si pose il problema del che fare. La mia carissima maestra cercò di convincere mio padre a farmi studiare. Incominciò così una grande incertezza per lui più che per me. Gli amici e le persone che ne sapevano di più, alle quali si rivolgeva per chiedere consiglio, espressero la loro opinione. Il gestore di un bar gli disse chiaro e tondo che aveva speso un milione per fare studiare la figlia e ne avrebbe dato volentieri un altro a chi le facesse avere un posto da maestra. Mia nonna, donna energica e pratica, mamma di sei figli (tra i quali lui era il primo), che aveva mandato avanti casa e terra, tirò fuori lo spauracchio della figlia del ‘cafone’ che aveva fatto vendere tutto al padre e che non ce l’aveva fatta a concludere gli studi. Mia nonna materna, che non veniva interpellata per conflitti interpersonali, aveva frequentato la quinta elementare, cosa rara per una donna della sua generazione, e delle nostre parti, e della sua estrazione sociale (il papà era emigrato in Argentina): sarebbe voluta diventare maestra se non avesse dovuto, come primogenita, accudire la mamma ammalata e non so quanti fratelli più piccoli. Insistette perché almeno io, che non portavo il suo nome ma avevo preso tutto da lei, realizzassi il suo sogno. Mia madre non aveva voce in capitolo. In quel momento aveva problemi a tenermi a bada e forse vedeva con un occhio piangente e l’altro ridente la mia partenza da casa. E sì perché in fondo questo era il problema: al paese non c’erano scuole superiori.

Mio padre a quel tempo lavorava come manovale nella cava per la costruzione della strada nella foresta di Gallipoli per raggiungere la quale doveva fare un’ora di cammino all’andata e una al ritorno, per sentieri irti e scoscesi come sono quelli delle nostre belle montagne. Una volta avevo dovuto intervistarlo per fare un tema sul suo lavoro. Lui mi impose: <<Scrivi: mio padre lavora per la ditta Ballott’, ‘a matin’ di nott’ ‘a ser’ a nott’ e cu pagament’ s’adda fà  a cazzott’>>. Viveva molto male questa condizione di manovale mal pagato, lui che sin da piccolo aveva sbacchettato in lungo e in largo per la regione come cocchiere alla guida di uno dei traini del padre gestore di una ditta di trasporti con muli, cavalli e ciucci che negli anni cinquanta vennero rimpiazzati dalle macchine. Quando mise su famiglia si tenne un cavallo. Non riusciva a vedersi a fare il contadino sia pure nelle proprie terre che erano state mandate avanti dalla madre con i braccianti agricoli, né il massaro con i cognati a cui erano toccati terra e bestiame, mentre la moglie aveva avuto in dote la casa. Fece un po’ di tutto e alla fine vendette anche il cavallo che gli costava più di quanto riuscisse a ricavarne come bestia da soma. Lo sostituì la bicicletta, che non era certo il mezzo di trasporto più adatto nelle nostre montagne!, e poi era sempre rotta. Più il tempo che perdeva a riparare quel marchingegno buttato per terra, che prendeva mezza casa fra viti, cerchi smontati e camere d’aria bucate, che quello che guadagnava. Non gli si poteva passare davanti o dietro quand’era all’opera fra bestemmie e imprecazioni. Alla fine vendette anche la bicicletta e dovette rassegnarsi a farsela a piedi la strada, col tascapane addosso, dal paese alla cava e viceversa. E mò ci voleva anche il problema della figlia, se farla studiare o meno. Intervenne allora il mio padrino, marito della zia, che faceva il poliziotto a Potenza. Assumendosi in pieno la responsabilità di padrino s’impegnò a prendermi in casa loro come una figlia e farmi studiare. Sulla mia intelligenza non aveva dubbi: da sua figlioccia avevo preso tutto da lui, no?

E fu così che mi accinsi a fare gli esami d’ammissione alla scuola media femminile “Francesco Torraca”. E… ops, venni rimandata in italiano. Chissà quante sfasature di tempi e di modi c’erano nel mio tema dalla traccia fantasiosa: “Se vincessi alla lotteria…”. Incominciamo bene, fu la reazione degli scettici in famiglia. Ma i miei zii non si lasciarono impressionare. Il dialetto e la scuola del paese erano state la causa dell’insuccesso! Quindi subito a ripetizione da un’insegnante potentina purosangue, disoccupata…

L’agosto del ’60 lo passai così in una Potenza deserta a studiare per riparare, mentre mio padre partiva per la Germania. A nulla erano servite le implorazioni, i presagi funesti degli amici: “Se te ne vai tu, che pure hai casa e terra, allora deve emigrare mezzo paese”. La sua scusa era buona. Era pur vero che la prima figlia da far studiare era stata sistemata, ma ce n’erano altri due e se anche quelli avevano la testa buona, non si poteva certo contare sempre sulla generosità dei parenti.

Ritornò per Natale e ci incontrammo ad Accettura. Mi aveva portato un libretto dizionario con frasi fatte in tedesco, per varie occasioni. “Studia anche questo”, mi disse. Alla Befana ripartì dalla stazione di Potenza inferiore. Valigie di cartone legate con lo spago venivano caricate dai finestrini sul treno superaffollato. Quando il treno  ripartì vidi un uomo disperato corrergli dietro e cadere bocconi a braccia aperte alla vista dei fanalini di coda che si portavano i suoi bagagli, ma avevano dimenticato lui. La scena mi colpì più del fatto che mio padre, bianco come un lenzuolo, avesse chiuso il finestrino prima che il treno s’avviasse per non cedere al sentimentalismo del commiato.

Scopiazzando dalla guida-vocabolario incominciai a scrivergli lettere in tedesco. Chissà con quanti strafalcioni, mi son chiesta dopo, quando ho cominciato a studiare seriamente quella lingua complicatissima.

Al paese mia madre, con mio fratello che non ne voleva sapere di scuola e mia sorella piccola, aspettava settimanalmente le sue lettere. Ma le notizie arrivavano giornalmente perché gli uomini che si trovavano nella stessa zona a Friedrichshafen sul lago di Costanza avevano stabilito un ritmo che permetteva appunto l’arrivo di notizie fresche. Così un giorno si andava a chiedere a zia Francesca, un giorno a zia Maria… Poi arrivò anche un morto nella cassa zincata. Le lettere di mio padre cominciavano a denunciare il peso della solitudine e quelle di mia madre l’impossibilità di tenere a bada mio fratello di undici anni, svogliato e sfrenato. Fu così che nel gennaio ’63 vidi partire anche lei, che pure vedevo solo nelle vacanze, da Potenza inferiore insieme a mio fratello, mentre mia sorella di sei anni venne lasciata al paese dai nonni paterni.

Quanto a me, a Potenza mi trovavo molto male. Lì le ragazze per bene, a detta di mia zia, per esempio non giocavano in mezzo alla strada.  E così io che avevo percorso in lungo e in largo il paese e partecipato a scorribande come un maschiaccio per le campagne, mi ritrovai prigioniera al terzo piano di una palazzina, nuova e sterile. Come un leone in gabbia facevo la spola fra il balcone della cucina, da dove potevo seguire con invidia i giochi delle ragazze ‘popolane’ che schiamazzavano nel cortile, e la finestra del bagno, quando sentivo fischiare un treno che partiva da Potenza superiore. A scuola poi un altro disastro. Il mio rendimento calò di colpo. Grazie all’intervento di mio zio, amico del segretario della scuola, mi ero ritrovata nell’unica sezione in cui si studiava l’inglese. La scelta di questa lingua era il trucco per poter accedere al corso con i migliori professori e frequentato da figlie di professionisti. Da essere una delle prime della classe, qui mi ritrovai ad essere fra le ultime. E non solo in italiano, cosa normale per chi veniva da un ambiente dialettofono e da una scuola di paese, ma anche in matematica, in cui avevo sempre primeggiato. Mi vergognavo tremendamente di raccontare di mio padre in Germania fino a quando il professore d’italiano non ci disse di essere nato in Argentina da genitori emigrati.

“Se ce l’ha fatta lui, ce la posso fare anch’io”. Questo pensiero, insieme a un sogno in cui mi ero vista fra le colonne di un tempio greco e che avevo interpretato come un buon augurio, e la paura di dare un grande dolore ai miei genitori, mi trattennero dalla ricorrente tentazione di saltare dal mio balcone-osservatorio. O fu anche lo spauracchio tirato in ballo da mia zia, quasi mi avesse letto nel pensiero, di una ragazza che qualche anno prima per una delusione d’amore si era buttata dal ponte di Montereale. Non era morta, ma non poteva più camminare.

Alla figlia del ferroviere, l’unica con la quale cominciai a prendere confidenza e che mi fu poi compagna di banco per tre anni, raccontavo della masseria della nonna materna con maneggio… – quando mai! La masseria c’era veramente, ma non c’erano più né pecore, né capre, né mucche, né porci, né tacchini e galline e né le persone che l’avevano affollata. Per primi se ne erano andati i due fratelli di mia madre, uno in Francia e l’altro in Germania, e poi a fare i vaccari (sic!) in Svizzera i figli maschi della cognata di nonna, comproprietaria della masseria. Erano rimasti i vecchi e alcune ragazze da sposare. Ci avevo trascorso gran parte delle vacanze estive in quella masseria a un’ora di strada – impervia – dal paese. Accolta come una signorinella, seguivo i lavoro femminili che consistevano nel quagliare ricotta e formaggio, fare il pane, sistemare l’orto, andare a lavare alla pila, preparare la minestra per gli uomini addetti ad altre mansioni. Mi divertivo a fare la maestra nell’aula vera della scuola rurale ai miei cugini molto più grandi di me ma poco scolarizzati. La sera poi ci si riuniva a fare grandi tavolate davanti alla masseria con tutti quelli che avevano dato – molti a r’tenna, pochi a pagamento – una mano a trebbiare, seguite da canti e balli al suono dell’organetto e alla luce della luna - mezza o sana – o dalle storie avvincenti e comiche di zio Antonio.

Ma l’ultima estate, quella prima che io partissi per Potenza, fu nera. Piovve per otto giorni di seguito mentre le gregne[2] coperte da tendoni aspettavano. “Per la Madonna – sentii lo zio imprecare una mattina, con la sua voce nasale, mentre si affacciava a spiare il cielo – quest’anno il grano ci nasce nell’aia”. Alla fine non ci ricavarono neanche la semente. Si ritirarono allora tutti in paese, lasciando la masseria a far la guardia ai fertili oliveti di San Mauro, che nelle giornate chiare sembrava a un tiro di schioppo, alle Coste la Raja misteriosamente inaccessibili, alle terre ormai incolte e alla vigna. “Quella non la posso far perdere”, diceva la nonna. E l’unico equino che mi aveva fatto inventare la balla del maneggio, era la ciucciarella che si era tenuta per fare avanti e indietro dal paese. È vero che l’avevo spesso cavalcata in groppa, attaccata alla vita della nonna e una volta persino alla mascolina, senza sella, avvinghiata a un mio cugino più grande, con la gola stretta dalla paura di cadere nelle stoppie dalle quali vedevo innalzarsi migliaia di teste di serpenti neri nella danza dell’amore.

La sognavo spesso, la masseria, a Potenza. E un giorno, io che ero una schiappa in disegno, me la disegnai a occhi chiusi. Quando li riaprii me la trovai a rimirare dalla vecchia quercia di fronte. Avevo fatto persino il forno! Me la appesi sulla scrivania e un senso di felicità indicibile mi riempiva il cuore quando alzavo lo sguardo dai libri che erano diventati la mia unica compagnia e che placavano la nostalgia delle sere invernali passate davanti al camino, con mamma, la bisnonna e altre vecchiette del vicinato a raccontarci storie. A scuola incominciai a migliorare e guadagnarmi la stima delle compagne passando loro la copia dei compiti in classe di matematica. I miei genitori li vedevo una volta l’anno quando venivano per la festa del ‘Maggio’.

Nell’estate del 1966 mi portarono con loro in Germania. Mia sorella non volle partire. Lei non voleva neanche sentirla nominare la Germania. “Ricorda che mi hai lasciata che avevo appena imparato a scrivere il tuo nome”, rimproverò una volta a nostra mamma, lei che aveva vinto un premio regionale per la migliore letterina a Gesù Bambino: in essa non chiedeva giocattoli, ma lavoro per i nostri genitori perché potessero tornare a casa.

Il viaggio mi sembrò interminabile. Il mal d’auto mi rovinò il piacere della vista di luoghi che conoscevo dalla carta geografica. La Puglia, le lunghe code dietro ai camion in Abruzzo, la sosta notturna presso parenti a Riccione, la valle Padana, le montagne della Svizzera e poi un pezzo d’Austria con le sue case da fiaba, dalle finestrelle e i balconcini in legno traboccanti di vermigli gerani pendenti, petunie viola e margherite bianche. E alla fine il lago di Costanza. Erano le nove di sera passate e il sole tramontava. Una luce e un’atmosfera uniche. “È proprio un altro mondo”, pensai.

Lasciato il lungolago e attraversata la città con le case nuove, passato il cimitero, entrammo da un cancello che portava in un enorme piazzale circondato e occupato da cataste di blocchi in cemento, montacarichi e cumuli di lunghi torciglioni di ferro arrugginito. Dopo un breve percorso la macchina si fermò davanti a una lunga costruzione in legno scuro. Eccoci arrivati alle famose baracche. Mia mamma mi ci aveva preparata raccontandomi che lei aveva pianto per tre giorni quando si era ritrovata in quel posto. Vi era arrivata d’inverno, l’anno in cui il lago era completamente ghiacciato, fatto che accade raramente, due volte in un secolo, tanto che viene festeggiato con una Madonna portata in processione sul ghiaccio dalla riva svizzera a quella tedesca o viceversa, a seconda di dove si trova.

Le baracche erano state alloggi per una cinquantina di uomini soli, e prima ancora, durante la seconda guerra mondiale, avevano ospitato prigionieri. Quando, molti anni dopo, visitai il campo di concentramento di Dachau, notai la grande somiglianza con le nostre baracche, che intanto avevano ceduto il posto ad enormi grattacieli, e avrei voluto fare ricerche, ma desistetti, forse per paura. Il lungo corridoio buio era occupato in gran parte da armadi in metallo e a sinistra erano dislocate sei camerate di una quarantina di metri quadrati l’una. La prima fungeva da refettorio, le altre da dormitorio con otto letti a castello ciascuna. La cucina, in muratura, si trovava fuori a una ventina di metri dalle baracche a fianco alle docce non funzionanti e ai gabinetti maleodoranti, uno dei quali riservato alle donne. Ulteriori costruzioni presenti sul campo erano i capannoni con i macchinari per forgiare i blocchi in cemento, la casa del guardiano dello stabilimento – unico tedesco-, e una casetta in un prato con alcuni alberi da frutta, recintata, in cui il padrone con la moglie e un figlio ragazzo veniva a cambiare aria le sere d’estate o nei fine settimana. Prima che arrivasse mia madre, mio padre lavorava a metà giornata sul cantiere e poi preparava da mangiare insieme a un veneto, per gli altri operai. I turchi, pochi a quel tempo, facevano in ogni caso gruppo a sé, mentre gli italiani si erano divisi in terroni e polentoni. Questi ultimi, per lo più veneti, avevano votato per due cuochi. Mio padre era stato ai fornelli già da militare e si vantava di saper fare uno spezzatino da leccarsi i baffi. I resti raccolti dalla marmittona con una vecchia calza, chissà quanto pulita, servivano ad insaporire quello del collega polentone.

Quando gli operai vennero destinati ad altri cantieri e ad altri alloggi si liberò una camerata e mio padre pensò di far venire mia madre con mio fratello, perché quella vita da solo non la poteva più fare. Le donne tedesche che venivano portate il fine settimana alle baracche, a pagamento, gli facevano schifo. Ne aveva vista una accovacciata su un catino per nettarsi fra una prestazione e l’altra che gli aveva fatto venire l’…anoressia sessuale.

Pianse per tre giorni mia madre, quando si trovò in quel mondo. Era pur vero che mio padre aveva una personalità tale che nessuno si sarebbe azzardato a mancare di rispetto alla moglie, ma lei veniva da un paese dove le donne  non attraversavano la piazza quando gli uomini la occupavano a crocchi o seduti a chiacchierare davanti ai caffè. Serietà e riservatezza che le erano consoni per educazione e abitudini, diventarono la sua arma di difesa in un mondo maschile abbrutito dalle pessime condizioni di vita e di lavoro. E poi, poco tempo dopo arrivò la manna dal cielo. Don Aurelio, missionario bresciano ormai di casa alle baracche per celebrare messa o per giocare a carte o per proiettare un film o solo per mangiare la gustosissima pastasciutta di mio padre, la accompagnò in una fabbrica poco distante, una filanda. La assunsero subito e grazie alla sua alta statura e al fatto che fosse alfabetizzata, cosa non ovvia per molte donne straniere,  fu messa a lavorare a una macchina, mentre la maggior parte delle donne non tedesche erano occupate in mansioni di pulizia o in lavori di bassa manovalanza.

Nelle altre camerate arrivarono poi due famiglie, una abruzzese e una barese che non erano riuscite a trovare altra sistemazione a causa dei numerosi figli. Le baracche, disprezzate da chi abitava in topaie, soffitte, cantine, vecchie stalle, ma pur sempre in muratura, nel fine settimana diventavano il luogo di ritrovo della comunità italiana. La scusa era il film che don Aurelio proiettava il sabato sera per farsi promettere di andare alla messa che ormai si celebrava in una vera chiesa, tedesca, moderna. Ma d’estate i pomeriggi del sabato, mentre mamma era intenta a fare il bucato, a mano naturalmente, fra gli stufoni e i marmittoni e le vasche della cucina, arrivavano a frotte le famiglie. E mentre gli uomini si accingevano a giocare chi a carte chi a bocce, per i bambini le cataste dei blocchi di cemento diventavano nascondigli, fortini, giungla per spaziare nell’avventura. Le donne si sedevano in cerchio all’ombra a chiacchierare, proprio come al paese. La presenza femminile, fino a poco prima limitata a qualche interprete o assistente sociale o alle ‘donnine disponibili’, ora, grazie anche al coraggio di mio padre e di mia madre, occupava uno spazio e lo trasformava in una dimensione umana, lontana sia dai divieti di fiatare, sia dal ricevere visite nei buchi delle case tedesche, e fuori dall’abbrutimento delle fabbriche. Al calar della sera, poi, spuntava una fisarmonica e tutti a cantare e ballare e far festa.

Per me, in quel luogo, la festa era quella di essere con i miei genitori e mio fratello, festa era la sensazione di avere di nuovo una famiglia della quale ero parte integrante e non ospite. Tiravo a lucido il nostro stanzone come voleva mia madre per risparmiarle la fatica, quando tornava stanca dal lavoro. E poi avevo tanto tempo per leggere, sdraiata sul prato del padrone quando loro non c’erano. In costume, come avevo visto fare alle donne tedesche nei propri giardini, preoccupata di non farmi vedere dagli operai del cantiere in una posizione dalla quale – fannullona – potevo osservarli all’opera.

La sera mio padre, dopo il lavoro, andava a vendere il pane che faceva un panettiere italiano in un forno tedesco, agli operai alloggiati in miniroulotte sui vari cantieri, lontani dal mondo. Una volta insistetti per accompagnarlo. Al nostro arrivo decine di uomini, giovani e non, uscirono dai loro buchi come topi e circondarono la nostra macchina. Ma poi, turbati dalla mia presenza, si misero in fila taciturni, per prendere il loro filone di pane. Era chiaro che dovevo rimanere seduta al mio posto e non scambiare parola con nessuno. Il cuore mi si strinse e un nodo alla gola mi avrebbe impedito di parlare anche se avessi potuto farlo. Che vita era questa? Qualcuno consegnò a mio padre una lettera da imbucare. Al ritorno non avevo più occhi per il paesaggio idilliaco, per i ricchi boschi di conifere che attraversavamo, per i paesini lindi con i giardini in fiore e i campanili affusolati che svettavano gareggiando in altezza con le dolci colline verdeggianti sui cui pascolavano grasse e bianche mucche. Mi sembrava tutto finto, tutto falso, il prodotto della fantasia di un pittore che voleva nascondere realtà crudeli. E cominciai a odiare quel pittore, chiunque egli fosse.

Mai come in quei tre mesi di vacanza ebbi così forte la sensazione di essere una privilegiata, quando andavo in fabbrica a trovare mia madre e vedevo ragazze della mia età lavorare duramente insieme alle loro madri per farsi il corredo. “Non voglio niente!”, dicevo a mia madre delusa, che aveva cominciato già al paese a prepararmelo. “Come, papà sgobba in Germania e tu sciupi i soldi per queste porcherie”, le avevo gridato una volta, mentre mi faceva vedere le meraviglie di coperte e tovaglie che aveva acquistato da un commesso viaggiatore. “Figlia ingrata”, gridò lei, che metteva alla posta centomila lire delle centodieci che mio padre mandava mensilmente, mentre come una furia mi si avventava addosso pronta a picchiarmi. Me l’ero data a gambe giù per la strettoia vedendomi sorpassare da una scopa di saggina che andò a schiantarsi contro un muro. “La mamma le ha spezzato la scopa sulla schiena - e chi l’avrebbe detto con la sua aria da madonnina, ma la figlia è proprio una diavola, non vuole neanche il corredo!”, fu la versione che circolò in famiglia e nel vicinato.

“Qui la fiandra è buona, – mi annunciò mamma alle baracche – l’ha detto la moglie di Peppe che l’ha comprata per le figlie”.

“Ma che me ne importa - le risposi - ma non vedi che qui è tutto diverso, non tengono manco il letto come noi e poi che ne so se mi sposerò”.

“Ti sposerai, ti sposerai! Anzi… avrai due mariti”, disse abbassando la voce e assumendo un’aria contrita. Questo lo sapevo già da piccola, dalle profezie della nonna materna che nel pettinarmi i capelli non sapeva da dove far partire la scrima per farmi le trecce perché avevo due cimise[3].

“Ma come si fa, mamà[4], ad avere due mariti?”

“Se ti muore il primo; cosa che non ti auguro, perché è vero che hai preso tutto da me, ma non devi avere la mia sorte tinta”. Il marito bello e forte se n’era andato a ventinove anni lasciandole due figli piccoli e uno nella pancia e una mula ‘mpama[5]. “Che mi ha fatto Cristo”, diceva lei, mancata maestra, con le mani della signorina di paese. Si ritrovò a fare l’uomo e la donna nelle chiappe del Caruso con la suocera e la cognata che sfornava un figlio all’anno. Non solo Cristo, ma forse tutti i Santi subirono una qualche imprecazione quando una volta d’inverno non si ritirò che al mattino dal mulino di San Mauro, dove la farina veniva più buona, con la mula che aveva vagato tutta la notte intontita dalla nebbia alla ricerca della via di casa fra boschi e burroni.

“Che mi ha fatto Cristo”, imprecò ancora piangendo, con mia mamma di quattro anni attaccata alle sottane, quando l’aitante guardaboschi forestiero le chiese di sposarlo, ritenendo la proposta quasi un affronto. Come poteva tradire il ricordo del bel giovane che se n’era andato in una settimana a ventinove anni per una bronchite coperta, curata col ghiaccio sulla pancia, mandato a prendere a caro prezzo nella nevaia delle Manche!

No, non potevo, non dovevo avere la sua sorte. E poi il sogno della Maddalena parlava chiaro. Nel sogno erano apparsi tanti porci che stavano per galantuomini. Avrei avuto tanti corteggiatori di buon partito. Ma avrò o non avrò due mariti?, insistevo io che conoscevo uomini che facevano la spola fra la casa con moglie e figli legittimi e quella dell’amante con figli bastardi, ma nessuna donna che facesse altrettanto. Non me lo poteva dire perché il sogno a un certo punto non parlava più chiaro.

Nel 1967, non ancora diciottenne, finii le scuole. “Mi sono diplomata”, comunicai ai miei genitori. Il telegramma raggiunse mio padre sul lavoro. Il mal di pancia che gli venne assunse la forma di una colite cronica.

Nell’agosto dello stesso anno ritornai in Germania. Non sapevo cosa fare. Il piano di continuare gli studi era stato messo in discussione da una richiesta di fidanzamento fatta all’antica a mio padre da un tipo che costituiva un buon partito, proprio durante la festa di San Giuliano, poco prima che mi diplomassi. L’idea di sposarmi così presto non mi entusiasmava e non convinceva neanche mio padre che, sotto sotto, avrebbe preferito vedermi continuare gli studi, mentre mia madre optava per il matrimonio. Mi ritrovai alle baracche - che in attesa di essere abbattute erano tutte per noi – a cercare di capire cosa volessi dalla vita.

E un giorno arrivò don Aurelio, il missionario, tutto agitato. Aveva ricevuto una telefonata dal Consolato: stavano per chiudere l’unica classe italiana della sua circoscrizione perché era rimasta senza insegnante. Lo stesso pomeriggio montai in macchina con lui alla volta di Stoccarda a duecento chilometri. Dopo un esame sommario il direttore didattico mi mise in mano un registro e altre carte e mi ingiunse di prendere servizio il giorno dopo. La classe era alloggiata in una scuola tedesca di un paese di montagna a sessanta chilometri. Il direttore, un signore anziano premuroso e gentile che non capivo, mi concesse ancora qualche giorno per sistemarmi. Non senza le proteste di mio padre che avrebbe preferito una famiglia tedesca perché imparassi presto la lingua, tramite il proprietario di una gelateria italiana trovai alloggio presso una famiglia calabrese. La stanza era disadorna e fredda, come d’altronde tutto l’appartamento seppur nuovo della ditta dove lavoravano i miei affittuari. Lei era una ragazza della mia età che aveva avuto già due figli. Il primo era nato morto; la seconda, di un anno e mezzo, era tenuta tutta la settimana da una famiglia tedesca. Molte donne che lavoravano avevano scelto questa soluzione. Intanto ne aspettava un altro di figlio, e andò a partorire in Calabria. Rimasi sola nel gelido appartamento con una sola stufa centrale a legna che facevo fatica ad alimentare, presa com’ero dal lavoro.

Mi fu affidata una pluriclasse con trentanove alunni fra i sei e i quindici anni. Era stata organizzata così dalle autorità tedesche per far fronte all’invasione di ragazzi che arrivavano dall’Italia senza conoscere il tedesco. Capii subito perché il collega calabrese se ne fosse scappato senza alcun preavviso dopo qualche mese. L’istituto magistrale, per quanto severo ancora allora, non mi aveva certo preparato a una situazione del genere. Lo spirito di sacrificio incollato addosso come una seconda pelle, la coccia dura più del calabrese, o forse la forza della nonna massara e il sodalizio che andavo formando con i ragazzi in un mondo estraneo: tutto ciò mi aiutò a non desistere. Passavo ore e ore con loro anche fuori dell’orario scolastico. Dopo poche settimane da che avevo preso servizio compii diciotto anni. Quel giorno vidi aprirsi la porta dell’aula e sfilare, per disporsi in semicerchio, una quarantina di ragazzi tedeschi, seguiti dalla loro insegnante con un cesto pieno di frutti vari. Cantarono in coro una canzone di cui naturalmente non capii le parole e in punta di piedi, come erano venuti, se ne tornarono nella loro classe. Rimasi molto impressionata e commossa. Christel, l’insegnante più giovane della scuola, di dieci anni più vecchia di me e con la quale comunicavo in inglese, divenne non solo la mia insegnante di tedesco, mentre imparava da me l’italiano, ma anche la mia guida nella scuola e nella vita. Potevo assistere alle sue lezioni, partecipavo alle riunioni scolastiche dove avrei voluto tapparmi le orecchie per non sentire quello che non capivo fino a quando lei non mi riassumeva l’essenziale. Mi spiegò le regole del galateo tedesco che mi sembrarono molto rigide (continuammo a darci del ‘lei’ per otto mesi e io non potevo proporle il ‘tu’ perché ero più giovane). Andavamo insieme nella trattoria tipica di un villaggio vicino dove pranzavano in abbonamento tutti gli insegnanti nubili e scapoli del circondario. Io ero l’unica straniera.

E poi la prima festa di Carnevale dei colleghi della scuola. Mi presentai tutta attillata con il mio vestito più elegante dal collettino in pelliccia finta. Mi sentii subito un pesce fuor d’acqua. Feci fatica a riconoscere il direttore vestito da pagliaccio con il naso a ciliegia e la parrucca semicalva, la collega di religione in costume da ballerina da far-west. Christel con le trecce corvine che coprivano i suoi capelli biondo grano, insieme al fidanzato, un pastore protestante, pensò di salvarmi dall’imbarazzo, appioppandomi sul petto una patacca simile a quella che aveva lei. Sulla sua c’era scritto: “Non più vergine…”; sulla mia: “… ma senza legame fisso”. Quando riuscii a decifrare il testo arrossii da morire, io che ero legata a un fidanzato in Italia, al quale comunicavo in lunghe lettere le mie impressioni ed esperienze nel nuovo mondo. Questa volta gli scrissi della mia meraviglia nel vedere l’impegno e la serietà che i tedeschi mettevano anche nel non essere seri. “O te ne vieni o ci lasciamo”, mi rispose nel solito tono laconico dei suoi scritti.

Impacchettai il braccialetto d’oro che mi aveva regalato per Sant’Anna e glielo spedii con tanti auguri di buona fortuna. Avevo deciso di rimanere in Germania.

Sono passati trent’anni da allora, caratterizzati da sacrifici e impegno ma anche da tante soddisfazioni. Una delle più grandi è stata quella di essere riuscita a laurearmi pur lavorando e facendo la spola fra Stoccarda e Torino. La mia tesi, dal titolo “La figura del lavoratore straniero nella letteratura tedesca”, scritta in tedesco e pubblicata in Germania, l’ho dedicata esplicitamente a mamma e papà, a Rocco, mio fratello e a Maria, mia sorella, ma implicitamente a tutti quelli che hanno avuto il coraggio di lasciare la propria terra in cerca di un avvenire migliore per sé e soprattutto per i propri figli, affrontando enormi disagi.

E quando qualcuno, cercando di indovinare le mie origini, si meraviglia nel sentirsi rispondere che sono italiana e aggiunge “Ma del nord, vero?”, rispondo con una punta d’orgoglio: “No, del cuore del sud. Sono lucana”.


 

[1] Tradizionale festa di antichissimo culto arboreo, poi reinterpretata in chiave di religiosità popolare. È stata oggetto di numerosi studi antropologici.

[2] Covoni.

[3] Vortici nei capelli.

[4] appellativo per ‘nonna’.

[5] lett.: infame; nel senso di indomita o cocciuta.

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