<< precedente INDICE successivo >>
.

.

Gen. FRANCESCO FINIGUERRA

 

da "la Basilicata nel Mondo" (1924 -1927)

 

 


Lavello, memore e patriottica, nel settembre del 1919, con una nobile orazione commemorativa dell’avvocato Giuseppe Solimene, scopriva una mirabile targa, opera eletta di Mario Sabatelli, al suo grande concittadino tenente generale comm. Francesco Finiguerra, spentosi l’anno innanzi a Montecatini. L’epigrafe, dettata dal prof. Guido di Roma, dice:

IN QUESTA CASA NACQUE IL TENENTE GENERALE DEI BR. CC. FRANCESCO FINICUERRA CHE FECE ARDENTE FEDE DEL DOVERE — O OGNI DISCIPLINA DI CITTADINO E DI SOLDATO.

IL LIBERO COMUNE SULLE PASSIONI CONSACRA QUESTO ESEMPIO DI RETTITUDINE — ALLA VITA CHE NON MUORE.


Sintesi scultorea di una vita fiera e intemerata, che alle fedi più alte e più ardenti attinse la ragioni della sua lotta e ad esse informò sempre le sue azioni quotidiane.
Una di quelle vite aspre e faticose, che sembrano inesauribili tanto è l'ardore onde prodigano sé stesso nelle battaglie e nel quotidiano servizio delle grandi idee di rettitudine e di elevazione morale. Vite, che bruciano, sino all’ ultima stilla del proprio sangue, per elevare sulla cima più alta delle loro anime, il loro amore e la loro fede, siano essi Dio o la Patria, la scienza o l’arte, o la religione umana della giustizia e della verità. Vite, che rimangono come simbolo.
Francesco Finiguerra nacque in Lavello il 13 febbraio 1853, nei pieno tumulto della riscossa nazionale italiana, da famiglia che alla causa italiana aveva dedicato non cure transitorie, ma i palpiti migliori e i più duri travagli, e padre gli fu quell’Attanasio Finiguerra che, accanto alla Giunta insurrezionale, aveva saputo far emergere la sua salda fibra e l'animo invitto; e che, scoppiata la rivoluzione, vinto ma non domo, fu costretto a fuoriuscire dal suo paese, e a battere le dure vie dell’esilio.
Il piccolo traeva dunque le prime mire di vita in un ambiente che doveva aver grande influenza sulla sua vita, che doveva plasmare l’anima sua nobilissima ai più alti sentimenti di italianità.
Messo a scuola privata presso un prete liberale lavellese, egli segui nei primi anni di sua esistenza le vicende della Patria. Nel 57 vi era stata l’eroica spedizione di Pisacane, e, dopo Pisacane, era apparso sull’orizzonte un astro più fulgido: Garibaldi.

"È la sua Voce come tuon di maggio"

Dopo eran venute Marsala, Calemi, Calatafimi, Partenico. Un vento di epopea si era levato su tutto il cielo e per tutta la terra d’Italia, che faceva turbinare gli spiriti in un grande andito di libertà.
Le camicie rosse entravano — viventi — nella leggenda della generazione italiana di allora.
Incalzato dagli eventi, Francesco bandisce la costituzione, ma è tardi, e a nulla vale il pomposo annunzio datone dal Sottointendente Onorato Gaetani ai Comuni del Circondario di Melfi.
A Lavello avvampa la rivolta; e appena si sa che Garibaldi salpa lo stretto, Corleto e Potenza insorgono, e ventiquattro lavellesi, sotto la guida di Giovanni Robbe, corrono nelle file garibaldine.
Francesco Finiguerra ha appena 7 anni, ma tutto questo grande incendio di ideale, che gli brucia intorno, gl’infiamma l’anima bambina, lo esalta, lo tempra, lo plasma.
La sua anima e presa ancora inconsapevole — dalla esaltazione della passione italica, e ne è segnata, come da un destino, per tutta la vita.
La sua passione non lo abbandonerà mai più e sarà la leva potente di tutte le azioni e i cimenti, ai quali la Sua gagliarda tempra virile andrà incontro nelle lotte per il trionfo del suo ideale.
Ma il fanciullo è già pronto a tutto e presente la Sua predestinazione. Di lì a poco, vengono i giorni della passione : la reazione e l’infuriare del brigantaggio. La famiglia Finiguerra è predestinata, con molte altre, alla strage, e nel 24 giugno del 62 un suo congiunto, tal Marco d’Elia, è fatto segno alla vendetta dei briganti, ed un altro congiunto, Antonio d’Elia, è dagli stessi fucilato. Nel 64, Benedetto Finiguerra è pure ammazzato dalle bande.
In tale tragica atmosfera Francesco Finiguerra trascorre l’adolescenza e la sua anima si prepara a divenire anima grande.
Egli sceglie la carriera delle armi, e va a Modena, dalla cui scuola militare, nel 1875, esce col grado di sottotenente nel 322 reggimento di fanteria.
L’occupazione di Roma aveva chiuso già da cinque anni il ciclo epico della unità italiana. Ma se era fatta l’Italia, non erano ancora tatti gli italiani. E, per concorrere con l’opera sua alla formazione della nuova coscienza unitaria degli italiani , Francesco Finiguerra entra nell’arma dei RR. CC. Nel 1883, come tenente dei Carabinieri, va a Nicastro. Da allora, la sua ascesa continua, ma la sua ascensione e ad ogni passo segnata dalle tracce del suo ingegno, del suo valore, della sua abnegazione.
A Monteleone Calabro, a Piedimonte d’Alife, a Sora, a Lagonegro, a Messina, a Firenze, a Cosenza, a Bari, a Cagliari, a Napoli, a Roma, dovunque l’opera sua raccoglie consensi, onori, allori. Per penetrare nei cuori, per conquidere le moltitudini, egli sapeva usare il fascino dolce della bontà profonda,, il monito superbo della coscienza purissima. Più i suoi meriti, la sua cultura, la sua grande preparazione lo portavano in alto, e più egli aveva cura di farsi piccolo, di farsi umile con gli umili.
Contro il brigantaggio delle Calabrie e la delinquenza fu inflessibile come la Giustizia; contro il colera di Sora fu umano e dolce come un messo della carità di Dio; contro le mene antiunitarie dei malcontenti trafficatori politici fece trionfare la idea della Patria una e grande. La sua opera per la formazione della coscienza nazionale italiana fu vasta, complessa, felice.
Lavorò costantemente, audacemente, lietamente con la serena fiducia di chi sa di compiere opera buona ed utile alla Società e alla Patria. Difatti, la sua opera gli sopravvive nel culto e nella memoria dei posteri, ai quali il nome di Francesco Finiguerra comanda e sovrasta come un monito altissimo.
La grande guerra del compimento nazionale lo trovò già molto avanzato negli anni, ma con l’anima sempre forte, aperta a tutti gli entusiasmi, a tutte le bellezze, a tutti i sacrifici, a tutte le abnegazioni. La fibra non più robusta, ma la volontà tenace, capace di vincere la stessa natura. E iniziò quello che doveva essere l’ultimo ciclo della sua vita civica, con animo invitto e coi cuore pronto a ogni più dura fatica.
A capo della Commissione Sanitaria Militare prima, mai stanco, vigila, giudica, organizza, riaccende le fedi nella giustizia delle decisioni, nella garanzia di ogni più scrupoloso esame da parte dei Sanitari. Poi, per circa un anno e mezzo, è destinato al gran campo di concentramento di prigionieri di guerra della storica Certosa di Padula, ch’egli rende, con opera illuminata e infaticabile, con rara competenza ed energia, il campo più importante d’Italia; e organizza quei nuovi reggimenti, che si coprirono di gloria sui campi di battaglia.
La fatica tremenda, senza tregua, sciupò le sue forze. Ma per uomini come Francesco Finiguerra, questo logoramento delle sue forze fisiche non poteva essere ostacolo per nuovi servigi, nuovi doveri verso la Patria.
Ottenne di essere prescelto ad organizzare le legioni cecoslovacche. Ma quest’ultima ardua fatica distrusse la sua fibra, una volta fortissima, e a Montecatini, ove avea dovuto rifugiarsi già stremato dal male, lo colse la morte.
Così, nato in un olocausto di giovinezze, parve che il fato gli avesse di proposito riserbata la ventura di farlo perire quando la vita nazionale, superato il più terribile momento della sua esistenza storica — Caporetto stava per compir 1’ultimo grande ciclo epico della sua storia, e le bandiere d'Italia garrivano come orfane al vento delle battaglie, ed erano alla vigilia di sventolare, in un tripudio di Vittoria, sui vecchi castelli di Absburgo.
Gloria a Francesco Finiguerra, che credè nella Patria e nel suo destino di grandezza. E per la Patria mirabilmente compì la ventura della Sua esistenza.
 

 

 

da "la Basilicata nel Mondo" (1924 -1927)


 

[ Home ]  [ Scrivici ]