<< precedente INDICE successivo >>
.

.

ALBERTO JACOVIELLO

 


Qualche intellettuale ripensò ai fatti d'Ungheria, quando si sbriciolò il muro di Berlino, e andò a rileggersi gli articoli che l'Unità aveva pubblicato nel '56. Alberto Jacoviello, comunista "puro" e "duro", aveva intuito, con grande anticipo, gli scricchiolii del sistema, le contraddizioni, i prodromi di una delle cadute più rovinose del Novecento.
Il "vecchio artigliere comunista", l'autore di polemiche implacabili contro la stampa "borghese" e "filoamericana", il giovane rivoluzionario che piacque a Palmiro Togliatti, il giornalista con un braccio solo, capace di invettive memorabili contro chi metteva in discussione l'intelligenza della sua gente e dei suoi contadini, aveva colto, rapidamente, prima di altri illustri colleghi inviati in Ungheria: egli aveva visto i carri dell'Armata Rossa andare contro gli operai e il popolo, scesi in piazza a Budapest; aveva sentito i proclami per la resistenza di massa. Nagy non mentiva, ne era certo: aveva con sé un paese intero che voleva battersi contro il regime. Qualcosa non andava, qualcosa non quadrava in quel dispiegamento di forze, voluto dal Politburo. Era un'invasione armata. Quella fu un'occasione racconta lo stesso Alberto nella quale capii che ]'impero sovietico non funzionava. Intanto cera un impero sovietico e l'Ungheria era un paese occupato e in una condizione di grande disuguaglianza, cioè i sovietici prendevano quanto potevano e davano in cambio molto poco. Nella sua mente, nel suo comunismo, questo era ingiustificabile.
L'Unità non pubblicò che stralci di quegli articoli: i passi meno dissacranti per il sistema sovietico. Ma Alberto aveva scritto la verità, era a posto con la sua coscienza e con la sua morale. Era partigiano, giornalista e intransigente comunista, ne era fiero, amava tuttavia raccontare senza altri filtri quanto osservava. Si fidava, nella professione, soltanto di se stesso, della sua lucidità. Sceverava i fatti, senza indulgere al folclore e alla benevolenza ideologica. Venticinque anni dopo l'Ungheria, al giovane cronista, suo nipote, che si apprestava a lavorare per "Repubblica", come corrispondente e informatore dalla Basilicata, disse, con modi gentili e perentori insieme: Taccuino e matita in tasca, e non ti fidare di nessuno, soltanto dei tuoi occhi e delle tue orecchie. Il "vecchio" aveva esperienza da vendere, ma non amava insegnare.
Alberto Jacoviello, il mitico Jac nell'ambiente politico e giornalistico italiano, nacque a diciassette anni. Prima, la sua vita era quella d'un contadino, ultimo di sedici figli, con la licenza elementare. Il destino l'aspettava lì, e lì doveva compiersi: nel Bosco delle Rose, a Lavello, in Lucania. Nella masseria fortificata dei genitori e degli zii, grandi affittuari di latifondisti residenti a Napoli e a Roma.
Durante un'estate che volgeva all'agosto, fra gli odori e i profumi emanati dai covoni e dai grani che la trebbia liberava dalle spighe, proprio in quelle stanze, al riparo dall'implacabile sole, Alberto scherzava con un suo coetaneo, figlio di un bracciante che lavorava per il papà Vitantonio. Alberto aveva una cintura nuova, l'altro la voleva: "Dammela". "Prenditela, se sei capace". E si rincorrevano lungo le scale, infilavano una camera dopo l'altra. "Dammela o ti sparo" insistette il ragazzo, indicando una doppietta appesa al muro. L'altro celiava, sorrideva, motteggiava. Sapeva che quel vecchio fucile era sempre scarico. Il ragazzo, di cui Alberto non ha mai rivelato il nome, staccò la doppietta dal muro e gliela appoggiò al braccio destro. Premette il grilletto. Uno sparo echeggiò. Il colpo partì. Alberto urlò di dolore. La doppietta cadde per terra. Il ragazzo scappò.
Non c'erano antibiotici, allora. La ferita perdeva sangue. Alberto rischiava la cancrena. Dovettero amputargli il braccio. Il braccio destro. "Da quel momento" raccontò in una mirabile intervista rilasciata a Gaetano Cappelli, scrittore e regista programmista della Rai, "la mia famiglia si pose il problema se potessi continuare o meno l'attività di contadino; mio padre e mia madre, assieme ai miei fratelli maggiori, rendendomi grande servigio, decisero di farmi studiare. Pertanto ho cominciato a quell'età a frequentare il ginnasio e il liceo, prima privatamente, poi presso le scuole pubbliche".
Tutta la vita di Alberto Jacoviello è nell'intervista di Cappelli, bravo a scavare nell'animo di un uomo dal carattere difficile, reso ancor più complicato da una intelligenza non comune e da una lucidità di ragionamento che a volte mozzava il fiato agli interlocutori. E si deve proprio al brillante Cappelli, e alla casa editrice Calice, che l'intervista ha pubblicato assieme ad alcuni articoli sulla Fiat scritti da Alberto per "Repubblica", se la storia di Jacoviello comincia ad essere divulgata e nota ai Lucani. Ma non basta, come non bastarono gli articoli, i reportage da ogni parte del mondo, i commenti, sull'Unità prima e su Repubblica poi. Ancora oggi, Alberto Jacoviello, nella sua regione, è una stella lontana, osservata e un po' esplorata soltanto a Lavello, il suo paese. Politici e giornalisti lucani sembra infatti non gradiscano molto parlarne, raccontare di un conterraneo, di un intellettuale fra i più originali della seconda metà del Novecento. I primi perché di fatto non lo conoscono, almeno nella grande maggioranza; gli altri, i "colleghi", per semplice invidia, o perché Alberto non ha mai fatto parte di un certo sottobosco democristiano cui si è formatala parte più arrogante della classe giornalistica lucana attuale. Ma rimangono gli scritti, i contributi perla comprensione dei fatti che attraversavano la politica estera mondiale, lasciati da Jacoviello. Materiale che, se rivisto e riletto oggi, conserva intatto un notevole spessore, storico e culturale, riconosciuto da tutti.
 


I LIBRI
Dopo Appuntamento a Suez, testo ormai introvabile, il libro che rese all'attenzione nazionale, comunista e non, Alberto Jacoviello fu "La coesistenza difficile", scritto per i tipi di Feltrinelli. Il giornalista, inviato dell'Unità, racconta otto anni di viaggi attraverso le diplomazie dell'Est e dell'Ovest. Erano gli anni della guerra fredda, quando i due blocchi, l'occidentale e l'orientale, Nato e Patto di Varsavia, si armavano continuamente, terrorizzavano il mondo con l'incubo del conflitto totale, la guerra atomica, sempre possibile, a volte sfiorata. Jacoviello apre il libro con le parole di J. E Kennedy, pronunciate alle Nazioni Unite il 25 settembre del 1961: Gli avvenimenti e le decisioni dei prossimi dieci mesi potranno forse determinare il destino dell'uomo per i prossimi diecimila anni. Queste decisioni saranno senza appello. Noi saremo ricordati o come la generazione che ha trasformato questo pianeta in un rogo fiammeggiante o come la generazione che ha realizzato il suo voto di salvare le generazioni future dal flagello della guerra.
"Capire la Cina" diede a Jacoviello una certa fama. La Cina era quella di Mao, della post-rivoluzione culturale, dove Alberto si recò nel 1970, invitato dal governo di Pechino. Viaggiava lungo la grande muraglia insieme con la prima moglie, Maria Antonietta Macciocchi, a sua volta invitata perché giornalista e scrittrice (futura insegnante alla Sorbonne), perché donna impegnata e promettente intellettuale nella sinistra di allora.
Di questo suo viaggio Alberto non scrisse subito un libro. Girò la Cina in lungo e in largo per due mesi. Ne trasse tredici articoli, pubblicati sull'Unità, una volta tornato in Italia. Il libro prese forma quando cominciò ad essere chiamato dappertutto, università, fabbriche, circoli culturali, centri sociali, comunità di base. Gli ponevano domande sul partito, l'esercito, le fabbriche, le Comuni, il potere delle masse, il ruolo di Mao, la politica estera, la vicenda di Lin Piao, la figura di Ciu En Lai, il dramma dell'Ussuri, il viaggio di Nixon, la successione di Mao. Ed eccolo il libro, Capire la Cina, compendio di tutti i quesiti posti a Jacoviello in questo lungo giro e le discussioni sorte in seguito alle sue risposte. Un libro straordinariamente accessibile ma non superficiale. Conteneva spunti che spingevano ad approfondire ancora la storia cinese del Novecento. Il PCI però non sopportava che Alberto facesse tanto clamore per la Cina a spese della Russia, Paese sempre nel cuore del Partito Comunista Italiano. Ancora alle strette, dunque con i "compagni". Ma questa volta Alberto non subì. Pretese che i "pezzi" fossero pubblicati altrimenti li avrebbe fatti pubblicare da un altro giornale. L'Ungheria insegnava. L'Unità pubblicò.
Alla morte di Mao, qualche anno dopo, L'Unità e gli altri giornali comunisti europei, tutti filosovietici, scrissero elogi per il Grande Timoniere. Allora Alberto chiamò Le Monde e chiese di pubblicare un articolo nel quale rimproverava i comunisti italiani e francesi di versare lacrime di coccodrillo: E lo potevate dire prima che Mao era un grande uomo, non ora che è morto, scrisse sul giornale francese.
Alberto non sopportava il freddo. La sua stagione preferita era l'estate. A luglio amava starsene al mare, nella sua isola, Panarea, che assieme alla prima moglie, Maria Antonietta Macciocchi, e all'amico Mauro Colombo, aveva scoperto nel 1960 e mai più abbandonato. Quando Eugenio Scalfari gli propose di andare a Mosca, come corrispondente di Repubblica, di andare a raccontare la "glasnost" e la "perestrojka", ebbe voglia di dire no al suo direttore. Non lo fece, ma quel freddo proprio non lo sopportava. Non accettò subito. Come al solito cominciò a tempestare di telefonate gli amici più fidati; chiamò più volte, il nipote Franco, lo invitò a Roma. Voleva sfogarsi, parlare, raccontarsi, discutere, "incazzarsi". Dopo alcuni giorni di ansia e rovelli, sbottò: A 60 anni non aggiungo e tolgo alcunché alla mia carriera di giornalista, anche se vado a fare il corrispondente dalla Russia. Si sbagliava.
Dopo un paio di settimane Alberto partì per Mosca, ma prima -quasi un gesto di fiducia e affetto- affidò al nipote la sua vecchia Volvo, un'auto che guidava spericolatamente, con un braccio solo, per le strade di Roma e per le autostrade. L'avrebbe ripresa al ritorno dalle steppe.
Rimase in Russia quasi due anni. Il primo articolo fu pubblicato il 24 maggio 1986. Parlava di disgelo, quello meteorologico. Al termine della sua avventura professionale scrisse un altro libro: Lettere dalla nuova Russia. Comprende 60 articoli, una prefazione ("Queste lettere°) e una postfazione ("Mal d'anima"). Leggiamo da quest'ultima, scritta il 21 settembre 1987, le righe di chiusura: Il mondo ha bisogno di una Russia capace di rappresentare un'alternativa al sistema e non un tardivo surrogato dell'Occidente.
Ma un'alternativa accettabile. Se questo non avverrà, anche Gorbaciov sarà "consumato". Come Lenin, come Stalin, come Mao. Come lo stesso Marx. E allora anche queste "lettere" che tentano di descrivere una "nuova Russia" diventerebbero lettere da un'ex nuova Russia.
C'è oggi la nuova Russia? No. C'è un Paese che cerca di rinverdire, per alcuni versi, un passato zarista, del tutto anacronistico. C'é un Paese che in qualche modo scopiazza un liberismo inarrivabile come quello americano. C'è un Paese e un mercato confuso e rachitico nel quale la mafia russa ha già affondato le mani. E Gorbaciov? "Consumato".
Aveva intuito anche questa volta, il mitico Jac.
Dopo la Russia, Alberto andò in pensione. Ma continuò a fare il giornalista. Scalfari non volle privarsi del tutto del suo amato Jacoviello, il collega cui si rivolgeva per primo, nelle riunioni di redazione che in piazza Indipendenza si svolgevano (e si svolgono) al mattino per impostare il giornale. Avrebbe continuato a scrivere, Alberto, nella pagina dei commenti. E proprio su questa pagina furono pubblicati gli articoli contenuti nel libro "Il futuro ha un cuore antico", della Calice editori.
L'ultimo libro. Fortemente voluto da Nino Calice, suo amico e suo profondo estimatore, pubblicato dopo la morte di Alberto. Il libro, centododici pagine, contiene l'intervista autobiografica rilasciata a Gaetano Cappelli della quale abbiamo detto, e sei articoli. L'argomento di questi ultimi è uno solo: l'insediamento Fiat a San Nicola di Melfi che in quegli anni stava diventando realtà, e stava stravolgendo il paesaggio contadino tanto caro all'autore.
C'è un "pezzo", nel libro, che colpisce per i passaggi lirici e di autentica passione civile e umana in esso contenuti. "La Repubblica" del 21 marzo 1991 lo intitolò "Ma i contadini non guardano le stelle...". Alberto scriveva: Quell'angolo di Basilicata dove si produrranno automobili io lo conosco. È a pochi chilometri dal mio paese e fa parte della mia memoria storica. (...) Era una bella valle coltivata a grano e appena più in alto cominciavano pascoli per le pecore e le poche vacche che dai paesi più a sud vi venivano trasferite, all'inizio dell'estate, dai pastori, passo dopo passo, incitando gli animali, che seguivano una capofila al cui collo pendeva un grosso campanone. (...) Le vacche avevano un nome, e rispondevano con un breve muggito alla chiamata. Mio padre ne aveva cinque o sei e una si chiamava Basilicata. D'inverno ci davano un po' di latte e se ne facevano, a mano, mozzarelle, che uno dei miei fratelli, Antonino, portava a casa la sera avvolte in fasci d'erba lunga e stretta che chiamava "porrazzo". (...) Questo è il luogo scelto dalla Fiat. Tutti i paesi attorno, Melfi, Lavello, Barile, Rionero, Venosa, che dovranno fornire gli operai, son paesi di vecchia cultura contadina. Son lontani l'uno dall'altro. Nella mia infanzia, nelle sere d'estate, le luci dei paesi vicini non facevano né sognare né vincere la solitudine: erano troppo distanti, e non rimanevano che le stelle, che del resto i contadini non hanno mai tempo di guardare. Guardavamo il cielo solo il giorno, per capire se sarebbe venuta la pioggia o il bel tempo.
Prima della pubblicazione del libro, Alberto morì, trascinato via dalle cinquanta sigarette che ogni giorno fumava, da oltre mezzo secolo. Il futuro ha un cuore antico è un omaggio a lui, voluto da Nino Calice. Il senatore gliene aveva parlato in vita, durante una memorabile estate a Panarea, ospite per qualche giorno di Alberto. Alberto aveva accettato.
 


L'AMERICA
Non ci sono libri suoi, scritti dopo l'esperienza americana. Andò a Washington come corrispondente de "L'Unità", primo giornalista comunista occidentale, cui veniva concesso il visto d'ingresso negli U.S.A.
L'America lo conquistò. Ma non lo cambiò. Come tutti gli amori che visse. Quello per gli Stati Uniti fu però più sottile e forse più importante degli altri. Era comunque una grande novità per lui. Non più Cina, URSS, regimi dell'est, ingessati e severi. Incontrava adesso una società del tutto diversa. Sfrenata e ricca, chiassosa e ordinata, pigra e stacanovista. Un po' gli somigliava.
Da Washington Alberto scriveva i "Taccuini". Sul giornale, organo ufficiale del Partito Comunista Italiano -schierato, com'è noto, con Mosca- non si vergognava affatto di far trasparire il suo entusiasmo per l'America. Una novità, del tutto imprevista e imprevedibile, anche per i fedeli lettori dell'Unità. Notazioni acutissime, scriveva Alberto, piene i curiosità e di colore, in rise, a volte, di colta ingenuità verso un paese diabolicamente disegnato e raccontato dalla stampa di sinistra di allora. Qui tutto funziona, scriveva, mi hanno installato il telefono in mezz'ora. Rimaneva candidamente sorpreso che in Virginia la sede della mitica CIA fosse segnalata da cartelli stradali. Raccontava nei "Taccuini" un'America domestica e quotidiana, ma scriveva anche - col solito piglio e la consueta autonomia di giudizio dei fatti politici internazionali visti da Washington, e delle aspettative di una società che aveva chiuso da poco tempo con il Vietnam. Negli ambienti più vicini a Jimmy Carter, il presidente americano, c'era ammirazione per il comunista con un braccio solo, per quel giornalista italiano pragmatico e scevro da preconcette posizioni ideologiche, quando raccontava l'America.
 


LE AMICIZIE
Una delle persone più importanti nella vita di Alberto fu Mario Pirani. Si conobbero all'Unità, nei primi anni cinquanta. Riflessivo e razionale Mario, quanto passionale e irruento Alberto. Gli scontri fra i due non si contavano, come racconta lo stesso Pirani su "Repubblica del 3 marzo 1996: Abbiamo politicamente litigato innumerevoli volte, eppure ci siamo voluti bene per tutta una vita. Vale la pena riflettere sul perché, non fosse altro per ritrovarvi una delle chiavi di lettura della crisi di una generazione venuta al PCI sull'onda della lotta antifascista e della Liberazione e, almeno in una sua corposa componente, allontanandosene, a destra (verso il revisionismo alla Giolitti) o a sinistra (verso il Manifesto) a partire dalla repressione sovietica della rivoluzione ungherese e, via via, negli anni a seguire.
Con Jacoviello si poteva non andare d'accordo, e spesso era proprio così. Si litigava fino a sfiorare l'offesa personale. Ma chi lo leggeva o discuteva con lui era preso di petto, era costretto a tener conto di un altro punto di vista. "Ne usciva arricchito" ammette lo stesso Pirani.
A Sabaudia, nella casa al mare del cosiddetto villaggio dei Giornalisti, poco distante dalla villa di Moravia, memorabile fu la litigata con Ugo Baduel, alla presenza dei nipoti Elena e Franco che gli tenevano compagnia in quel periodo, e della donna di Ugo, Laura Lilli. La mattina seguente tutto era dimenticato e l'amicizia ritornò, più forte di prima.
Con Miriam Mafai il rapporto era di stima e di complicità. Non c'erano scontri fra i due che, in qualche modo, si rispettavano e si temevano. Miriam lo accompagnò a Matera, durante la campagna elettorale e tenne degli incontri per l'amico Alberto, che diedero buoni frutti sul piano del consenso.
Giovanni Russo, un'amicizia antica. Risale all'adolescenza, trascorsa in Basilicata da entrambi, prima che Alberto cominciasse a scrivere per il Gazzettino, giornale che si stampava a Potenza.
Indro Montanelli lo conobbe in Ungheria. A Nello Aiello di Repubblica così ha raccontato l'incontro: Ero a Budapest per il Corriere. Ci trovammo assiepati nello stesso albergo, noi giornalisti e il Quartier generale della rivolta. Lui, l'inviato dell'Unità era un personaggio brusco. Non risparmiava il sarcasmo nei riguardi di chi, come me, incarnava ai suoi occhi la "reazione ". II primo approccio fu perciò difficile. Ma io capii che, se forzava i toni, lo faceva per proteggersi. Era lacerato e non voleva riconoscerlo. II che mi spinse ad apprezzarlo. Soprattutto a non infierire con battute importune, su ciò che doveva passargli nell'animo. (..). In quel clima di disperazione Jacoviello si mostrò d altronde un eccellente collega: non profittò mai della posizione di privilegio che, almeno in teoria, doveva venir riconosciuta a un comunista in un paese comunista. Montanelli scrisse poi "I sogni muoiono all'alba", un dramma che prende spunto dai fatti d'Ungheria. Due sono gli interpreti: uno è lo stesso Montanelli, l'altro è Alberto, sia pure sotto un velo d'anonimato.
Alberto era anche un uomo assai tenero. Per la seconda moglie, la russa Nadia, trent'anni più giovane, conosciuta a Mosca e, dopo una assidua corte, lì sposata, nutriva grande amore. Ne parlava con entusiasmo agli amici, ai nipoti. La condusse a Lavello dalla sua famiglia. Ma negli ultimi tre anni questo rapporto si frantumò. Alberto se ne dolse molto. Con se stesso - così sembrava di capire, in qualche circostanza, a chi gli stava intorno - a causa del carattere difficile che aveva e che si riconosceva, a causa delle abitudini cui non sapeva rinunciare, della libertà, della indipendenza da tutto e da tutti che si portava dietro come un patrimonio di valore assoluto.
Capì che tutto era finito, lo capì un giorno, a Panarea. Attendeva Nadia nella casa dell'artista Matta, regolarmente fittata ogni anno per tutto il mese di luglio. Come un'adolescente, innamorato per la prima volta, aspettava la bionda moglie, ascoltando una cassetta di canzoni napoletane. Quando Nadia (Nadezhda) Costantinovna giunse, le incomprensioni fra i due riaffiorarono subito, sommergendo ciò che rimaneva del limpido sentimento d'una volta. Quel mese a Panarea si fece più malinconico, Alberto. Si chiuse in se stesso. Andava a letto presto, nella casa di fronte a Basiluzzo, e non guardava più, come faceva nelle sere lucenti, il riverbero della luna sul mare, una striscia d'argento che pareva indicasse la direzione per Lipari. Interruppe la vacanza diversi giorni prima del solito.
La delusione per il rapporto che s'era ormai spento, fu pari soltanto a quella subìta dopo le elezioni politiche del 1992. Alberto si presentava, nella sua Basilicata, con il PDS, circoscrizione di Potenza e Matera.
In quella campagna elettorale conobbe Nino Calice, che lo sostenne fortemente. I Lucani lo votarono. Mise insieme circa settemila suffragi. Molti. Non bastarono. Il grande Jac arrivò secondo, e tutto fu vano. I Lucani persero l'occasione di vederlo al Parlamento Nazionale, come avrebbe meritato. Gli preferirono la mediocrità. II Partito gli preferì la mediocrità di un altro candidato.
Sarebbe stata una degna un uomo della sua età, chiusura per un uomo che disse a chi gli stava vicino, aveva sempre difeso la sua come parlando a se stesso: terra e il suo Mezzogiorno Io ho vissuto intensamente, dai denigratori. Per un uomo, come disse Eugenio Scalfari, moderno e arcaico, antico, con un forte senso dell'onore, della parola data, legato alla cultura meridionale, alla sua terra, a quel mondo rurale nel quale era cresciuto, mai allineato, sempre critico, eppure, a differenza di altri, non disponibile alle giravolte, agli opportunismi dell'ultim'ora, fedele alle sue idee, a se stesso, alla sua concezione etica della politica. Quando comprese che il male l'avrebbe costretto a insostenibili terapie per un uomo della sua età disse a chi gli stava vicino come parlando a se stesso: Io ho vissuto intensamente, e se devo continuare a vivere altri tre quattro anni nella sofferenza, preferisco morire.
Accese l'ultima sigaretta. E riprese a viaggiare. Andò a Panarea, (paradiso terrestre diceva e urlava al mare in uno di quei suoi scatti imprevedibili). Attraversò i trent'anni all'Unità, i sedici a Repubblica. Percorse il mondo: l'URSS, la Cina, Mao, Gorbaciov, l'America, l'Egitto, Suez, Israele, Carter, la Fiat di San Nicola e infiniti altri posti dove la curiosità e il lavoro l'avevano spinto. Si fermò a Lavello. Rivide i suoi contadini, suo padre, sua madre, i suoi fratelli. Ripensò a quel braccio perso per un gioco da ragazzi.
Aveva viaggiato abbastanza. Aveva raggiunto i 76 anni, con una forma invidiabile, fino alla scoperta del tumore. Aveva amato intensamente. E aveva odiato, con lealtà.
Chiuse gli occhi. Desiderava tornarsene A casa? Sorrise, con suo sorriso raro che gli illuminava il volto scolpito nell'ulivo. Aprì la macchina elettronica e scrisse il "pezzo" finale: "Ho girato per il mondo/attaccato a un aquilone/mai troppo alto/ per non vedere/mai abbastanza basso/per capire/e adesso approdo/da dove son partito/in un paese che non è più/il mio".
 

 

Testo di Francesco Sernia                 
tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1998


 

[ Home ]  [ Scrivici ]