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DONNA ISABELLA GLINNI

- Romanzo -

Rachele Zaza Padula
 

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PARTE III

Don Filippo Glinni tornò dalla riunione del Capitolo tenutasi nella Cattedrale, cui aveva partecipato anche don Canio. In verità si era affaticato. Trovò ancora Isabella in biblioteca, assorta, lontana, rapita dai ricordi.
-Ancora qui, mia cara?
-Aspettavo che tornaste. Ho bisogno di voi, della vostra saggezza. Mi avete letto nel cuore: i miei desideri, i miei pensieri sono, ormai, rivolti ad una sola persona, a Mario Pagano.
-E’ ciò che temevo. Non perché non stimi e non apprezzi il nostro amico…Ma temo che sarà motivo di sofferenza per te. E’ uno spirito libero, che si è prefisso alti ideali, purtroppo rischiosi per questi tempi. La sua causa è giusta, sacrosanta, ma è il sogno di poeti, di intellettuali, di nobiluomini, ignoto al popolo, ai più, che non sono nelle condizioni di comprenderlo, di aderirvi. Certo è degna l’opera dei profeti, degli innovatori perché sono loro a tracciare il nuovo cammino della civiltà. E’ un uomo dalle grandi passioni e sicuramente per te prova un sentimento molto forte; ma consapevole del suo compito, conquistato dai nuovi fermenti, potrà mai coltivare un legame così delicato e speciale come l’amore, che esige anche sacrifici e rinunzie? E tu sarai capace di accettare un vincolo anomalo, diverso da quelli consueti per cui due innamorati desiderano vedersi, parlarsi, progettare insieme il loro futuro? Ti mancherà spesso la sua presenza. D’altronde, non è giusto accettare la proposta di don Antonio Pipoli giacché il tuo cuore non è libero. Sarebbe un errore imperdonabile. E’ un giovane molto legato alla famiglia, alle tradizioni, al consueto. Non è persona di grandi slanci, di forti tensioni, ti avrebbe dato, però, la certezza di una unione duratura, senza scosse e senza sorprese. Egli saprà accettare il rifiuto; è necessario, però, trovare un motivo che non lo ferisca, anzi esalti le sue qualità.
-Zio Filippo, vi ringrazio. Senza di voi mi sentirei perduta. Sappiate che il legame che sento per Mario è tanto intenso che mi basta leggere le sue lettere per essere appagata. Scelgo pochi giorni con lui, forse poche ore, piuttosto che anni con un altro, che stimo, apprezzo, ma non amo. Io mai a don Antonio, che pur con un corteggiamento discreto mi palesava le sue intenzioni, ho dato segni di contraccambiare la sua simpatia. Non sarà molto sorpreso che io respinga la sua proposta. Forse, se non avessi conosciuto Mario… Io, invece, sento il peso e la responsabilità di dirlo ai nonni. So che per loro sarà una delusione, anzi essi sperano ardentemente che io accetti. Il giovane è serio, ha un buon patrimonio ed è anche di bell’aspetto. ”Nulla manca-essi pensano- perché Isabella sia felice”. Mi sono accorta che ultimamente sono preoccupati per il mio atteggiamento distaccato verso tutto quello che ammalia le ragazze della mia età. Mi considerano diversa dalle altre e non mi capiscono.
-So bene quanto mi dici. Non credo che io possa farti desistere dalla tua decisione. Deduco dalle tue parole che Mario ti ha preso il cuore. Di ciò mi sento anch’io un po’ responsabile. Forse se avessi impedito che tu presenziassi ai nostri incontri, alle nostre discussioni, forse se non lo avessi permesso... Ma, era così piacevole averti con noi, scoprire nei tuoi occhi la curiosità di sapere, di conoscere, la gratitudine nei nostri riguardi per ammetterti al nostro piccolo cenacolo, tanto che riuscivi a stimolarci ancor più con la tua presenza deliziosa e devota. Un pensiero mi assilla ” Mario avrà il tempo e le opportunità di coltivare la vostra storia d’amore? Certo ti adora; ricordo come si straniava quando era al tuo cospetto. Questo farà sì che egli rinunci ai suoi viaggi, ai continui spostamenti, ai suoi contatti pericolosi? I suoi molteplici interessi intellettuali, giuridici, politici, sono più forti dell’attrazione che prova per te, o viceversa?
-Oh!, zio, non vorrei mai che egli fosse diverso da quello che è e che rinunciasse, per causa mia, ai suoi ideali. Io condivido la sua lotta, amo le stesse cause e nutro le sue stesse speranze. Zio Filippo, se volete che io viva, aiutatemi. Voi siete stato il mio educatore e siete ancora di esempio per il mio comportamento; trovate, vi prego, le giuste argomentazioni per convincere i nonni, sì che scelgano la mia felicità. Non mi impongano il loro volere, non mi costringano; sono tanto buoni e sono sicura che non arriveranno a tanto. Vi affido questo compito gravoso, che solo voi potete assolvere. Ora io mi allontano. Sono stanca, durante la vostra assenza sono stata assalita da ricordi che mi hanno emozionata e turbata.
Trascorsero alcuni giorni senza che accadesse nulla di nuovo. Al nonno che la sollecitava Isabella rispose che aveva bisogno di riflettere ancora un po’ per non essere avventata e promise che la domenica prossima, dopo la messa, gli avrebbe comunicato la sua decisione. Ella aspettò di parlare con l’arcidiacono, ma questi si era ammalato. L’inverno era stato particolarmente rigido e fin dal mese di novembre erano cominciate intermittenti abbondanti nevicate. Don Filippo aveva sofferto più degli altri il freddo ed era stato di nuovo colpito dalla bronchite; questa volta più lunga e debilitante. Una grande spossatezza lo fiaccava nel fisico e nel morale. La sua elegante figura sempre così diritta, quasi a sfidare gli eventi, si andava curvando per quanti sforzi facesse per evitarlo, spinto dall’orgoglio e da un forte senso di dignità. Dal giorno in cui aveva parlato con Isabella era rimasto a letto curato da Maddalena con decotti che ella stessa preparava con le erbe raccolte nei campi e con i fumenti in cui il medico faceva aggiungere essenza di menta e di eucalipto. Quando l’arcidiacono era malato, tutti avvertivano la sua assenza, dai più grandi ai più piccoli cui, in special modo, mancavano le fiabe che egli era solito raccontare loro insieme con le storie del ”munaciedd”, la cui credenza era molto diffusa. Quando nelle case mancava qualcosa o si trovavano lenzuola intrecciate si attribuiva la colpa al folletto burlone che agli avi della famiglia Glinni ricordava il mondo delle creature magiche dei Celti. Si era soliti lasciare delle pietanze in un piatto per” lu munaciedd” la vigilia di Natale, il giorno dei morti, il lunedì santo e in tante altre ricorrenze e non si riusciva a sapere se a mangiarle fosse il genietto misterioso o qualcun altro, persona o animale.
L’arcidiacono, finalmente, mandò a chiamare Isabella, che entrò nella stanza dello zio con un battito al cuore tanto forte che le toglieva il respiro. L’aria nella camera era pesante, pregna dell’umidità causata dai fumenti e dell’odore delle erbe aromatiche. S’accorse subito che lo zio era sofferente, stanco e provò rammarico di avergli procurato affanno e apprensione.
-Vieni, Isabella, il mio male quest’anno è più pernicioso, non mi lascia tranquillo. Ho pensato molto a te e ho deciso il da farsi. L’amore tra due persone va rispettato, è un dono di Dio.
La lunga pausa che seguì a queste parole spinse Isabella a spiare il volto dell’arcidiacono che le apparve visibilmente commosso e con gli occhi umidi di pianto.
-Ma, zio, voi…
-Non pensare a me, io sto per completare il mio cammino terreno. Spero che il mio approdo mi dia la pace tanto desiderata. Parlerò io con i nonni perché informino i tuoi genitori e si convincano tutti ad accettare la tua scelta. La nostra famiglia ha una lunga tradizione di libertà e questa mi fa sperare nel loro assenso. Mi guarderò bene dal nominare Mario. Gli sarebbe d’ora in poi preclusa l’ospitalità in questa casa, mentre consiglierò di dire al giovane Pipoli che sia tu che noi siamo profondamente onorati della sua proposta; ma che, pur apprezzando la sua persona così ricca di doti, tu non ti senti pronta per un legame sentimentale, né il prendere tempo potrebbe farti cambiare idea.
-Le vostre parole e il vostro intervento hanno su di me l’effetto del sereno dopo la tempesta, del balsamo su di una ferita, dell’acqua fresca su di un prato arso d’estate. Vi prego ancora di un’ultima cosa, poi, vi lascio riposare. Credo sia miglior partito che sia voi che i nonni non diciate nulla ai miei genitori, almeno per il momento. Significherebbe preoccuparli e togliere loro la serenità che provano nel sapermi qui con voi protetta e guidata. Vi ringrazio di cuore per quello che farete per me; ora, vi prego, permettetemi che insieme con Maddalena mi dedichi a voi. Posso fare qualcosa per alleviare le vostre sofferenze? La fama di Mario cresce per i suoi scritti di diritto. Ha promesso che presto verrà.
-Voglia Iddio che io riveda Mario. Puoi recarmi sollievo venendomi a trovare; la tua giovinezza e la tua grazia illuminano la stanza e i miei pensieri. Ora, va e prega i nonni di venire da me.
Isabella uscì dalla stanza oppressa da molteplici sentimenti: la speranza che don Nicola e donna Anna non avrebbero ostacolato i suoi propositi; la dolorosa certezza che, in caso contrario, non avrebbe avuto il coraggio di disobbedire e di farli soffrire; infine, una tristezza profonda nel vedere l’arcidiacono tanto indebolito. Provava, inoltre, il rimorso di non essersi mai chiesta se anch’egli avesse nutrito sogni di una famiglia propria, se mai avesse amato e chi. Rimproverava a se stessa di avere troppo spesso ed egoisticamente richiesto il suo aiuto, la sua presenza, e non solo lei. Forse lo zio Giuseppe avrebbe potuto aiutarlo a superare il suo male, bisognava avvertirlo. Appena risolto il suo problema, ella sperava positivamente, avrebbe provveduto a farlo. Incontrò la nonna nel lungo corridoio che portava nella zona notte della casa e le disse:
-Nonna, lo zio Filippo desidera al più presto parlare con voi e il signor nonno.
-Va bene. Come sta? E tu, Isabella perché sei tanto pallida?
-Vedere lo zio così debole mi angustia, mi provoca un acuto dispiacere.
La nonna, come sempre indaffarata, si contentò della risposta, non indagò oltre e s’allontanò. Don Nicola e donna Anna parlarono a lungo con l’arcidiacono.
-Caro Filippo,- disse don Nicola- bisogna vincere la resistenza di Isabella. E’ un’occasione da non perdere. Il giovane Pipoli appartiene ad un’ottima famiglia, ben costituita economicamente, e potrà assicurarle una vita felice e serena. Non mi pare che Isabella abbia le idee chiare sul suo futuro; noi dobbiamo sostituirci a lei nella decisione. Per il suo bene. Anche donna Anna è del mio parere.
Don Filippo era a conoscenza dei sentimenti della nipote, ma non poteva rivelarli. A lui spettava il compito di piegare la volontà del fratello e della cognata. Ci sarebbe riuscito? Come convincerli? Quali argomenti addurre? Avrebbe fatto leva sull’affetto che nutrivano per Isabella e sulla sensibilità di due sposi che avevano fondato la loro unione sulla passione reciproca. Non senza perplessità, rispose:
-Non ho esperienza in merito, ma so che un matrimonio non può essere felice senza l’amore di entrambi i coniugi e senza l’intento condiviso di dar vita ad una famiglia. Voi due siete l’esempio più bello di quanto affermo. Isabella ha confessato a me e a te, Nicola, di non provare per don Antonio Pipoli alcuna attrazione, pur stimandolo.
Don Nicola lo interruppe, dicendo:
-Non è conveniente che i giovani facciano valere le loro scelte senza tener conto del consiglio degli anziani.
-Allora, sulla base di un principio che esige obbedienza cieca da chi ci deve rispetto, noi dovremmo assumerci la responsabilità di imporre ad Isabella un marito che ella non desidera. Faremmo, così, il bene di nostra nipote? Non ne sono convinto.
L’arcidiacono, con vero sollievo, s’accorse che le ultime avevano molto aiutato la sua opera di persuasione. Parlò, quindi, di matrimoni sbagliati, ricordando storie di parenti e amici. Alla fine concluse:
-Lasciamo che i tempi siano più maturi. Non le mancheranno altri incontri, altre proposte. La vita, a volte, ci chiede di aspettare. E’ così bella!
Discussero ancora…poi, don Nicola disse:
-Va bene, Filippo, va bene. Faremo come vuoi tu. E’ tardi e non vogliamo stancarti oltre. Buona notte.
Anche donna Anna salutò il cognato, dopo essersi assicurata che non aveva bisogno di nulla.
Uscirono dalla sua stanza. Erano addolorati per le condizioni di salute dell’arcidiacono e perplessi per la decisione della nipote.
- Nicola, ho timore che la nostra Isabella sia una giovane strana; già ti ho confessato che non la capisco, anche se ammiro molto le sue qualità, tra le tante il coraggio delle scelte. La vedrò mai sposa?
-Isabella è nostra nipote e, forse, la mia prediletta. Noi che siamo i suoi nonni non dobbiamo giudicarla, ma soltanto amarla e rispettare la sua volontà. Ha ragione Filippo. Sarebbe ingiusto e irragionevole forzarla ad unirsi ad un uomo che non vuole. Le voglio troppo bene per sottoporla ad una pena così grande per tutta la vita. Anna cara, tu e tutti i ragazzi siete il mio mondo, il mio respiro, la ragione della mia esistenza e non vi procurerei mai del male; perciò, sono pronto ad affrontare qualsiasi sacrificio per la vostra felicità. Isabella è tanto assennata e sa quello che fa.
-E sia! E’, però, mio dovere indagare se mai ha qualcun altro nel cuore, non per curiosità, non per impormi, ma per darle, ove fosse opportuno, il mio conforto e il mio appoggio. Ora andiamo; raggiungiamo gli altri che sono già a tavola e ci aspettano per la cena.
Isabella era in un’ansia indicibile pensando che in quelle ore si sarebbe deciso il suo destino.
I nonni erano da tempo ormai dall’arcidiacono e niente trapelava ancora, nessun segno. Eccoli, finalmente!, entrare nella sala mentre tutti si stavano disponendo intorno al larghissimo tavolo rotondo fatto fare da un artigiano di Avigliano, famoso per la sua bravura ed il suo estro. Don Nicola si avvicinò ad Isabella, le carezzò dolcemente i capelli e, poi, le poggiò le mani sugli omeri per rassicurarla. Donna Anna, dal canto suo, la guardò intensamente negli occhi e le sorrise. Un senso di gratitudine profonda, immensa, la invase. Con solerzia aiutò Maddalena a servire e accudì con maggiore cura del solito i più piccoli. Era libera! Era libera! Nulla e nessuno le avrebbe impedito di pensare a Mario, di fingersi un destino comune, di pensare alla loro intesa spirituale, di vivere nell’attesa di rivederlo.
Rimasta sola, ricordò quando, durante la prima permanenza di Mario ad Acerenza, lei, i nonni, lo zio Giuseppe, lo zio Filippo andarono, su insistenza del loro amico, a visitare la sua natale Brienza, il paese che appare all’improvviso con il suo castello imponente e maestoso. La sua visione le prese il cuore perché le riportava alla mente le antiche leggende irlandesi. La lunga storia dell’inseguimento di Diarmaid e di Grainne l’aveva affascinata. Molte notti si svegliava e pensava a Diarmaid, l’eroe mitico del Ciclo di Finn, che in una pausa della fuga avventurosa aveva preparato il giaciglio alla sua sposa con cimette di betulla.

*

Trascorsero quasi due anni.
L’arcidiacono, colpito nuovamente dal suo solito male, peggiorava di giorno in giorno e a nulla valevano le cure prestategli da tutti di casa e dal medico che aveva provato ogni rimedio possibile. Si sentiva impotente di fronte al progredire della malattia. Non lo lasciavano mai solo e si avvicendavano nel tenergli compagnia, cercando, però, di non affaticarlo. Egli era commosso dalla dedizione di cui era oggetto. Quasi l’intero paese era in pena per lui, ognuno si informava e metteva a disposizione se stesso e la sua opera per aiutarlo; nessuno dimenticava quanto fosse stato importante il suo sostegno come amabile e saggio consigliere e amico impareggiabile.
La nipote, più degli altri, gli era vicina, sia perché nutriva per lui un affetto particolare, sia perché, da quando gli aveva confidato di Mario, era l’unica persona con cui poteva parlare di lui. E di questo provava un cruccio sottile, perché le sembrava di essere fondamentalmente egoista, cioè di recarsi dallo zio spinta principalmente dal desiderio di nominare l’uomo che occupava i suoi pensieri, di lodarne le virtù e i pregi. In realtà, era anche in apprensione per la sua salute.
-Zio Filippo, vi do una bella notizia. Gerardo Salicone, nostro lontano parente, ci ha riferito che Giuseppe arriverà domani. Ha saputo della vostra malattia e ha deciso di venire al più presto. La sua presenza vi gioverà, sono certa che migliorerete.
-Perché affrontare un viaggio così faticoso? Perché esporsi ai soliti pericoli che minacciano l’incolumità di chi si mette in cammino nelle nostre terre e in quelle che si estendono ai nostri confini? La miseria, l’abbandono, la soggezione a regole e a sistemi inconcepibili ai nostri giorni, spingono i più diseredati ad una ribellione che, anche se nasce dalla sacrosanta aspirazione ad una vita dignitosa dei singoli e delle famiglie, diventa, poi, brigantaggio e sopruso, poiché l’ignoranza e la disperazione li convincono a servirsi di mezzi illeciti e violenti. Così oltrepassano il limite del giusto e diventano banditi. Sono forze che vanno educate e guidate. Solo allora sarà possibile il riscatto. Ma io ti tedio, cara Isabella, non voglio che ti sacrifichi tanto. Sono diventato un vecchio brontolone, poco adatto a tener compagnia ad una giovane fanciulla.
-Che dite mai, zio! Lo stare con voi appaga in maggior misura me: mi piace ciò che dite, mi piacciono le parole di cui vi servite, la vostra voce, i vostri racconti. E, poi, a voi posso aprire il cuore, dire delle mie ansie, cosa impossibile con gli altri.
-Il tuo è un amore sublime: non hai bisogno della vicinanza dell’amato. Ti basta sapere che egli esiste, pensa, sorride e il suo ricordo ti riempie l’animo. Sappi che a pochi è concesso vivere una gioia così intima, propria, segreta; io ritengo che sia uno stato di grazia straordinario. Conosco bene i segni dell’ amore che provi… La mia esperienza, però, è stata ed è più dolorosa. Ho amato ed amo tuttora una donna che non avrebbe potuto né mai potrà essere mia; il solo pensarla m’era e m’è negato. Nessuno mai ha saputo, perché è stato impensabile rivelarlo ad alcuno; la sua immagine è nascosta nel mio cuore e la porterò con me quando mi presenterò al Signore con questa mia colpa. Colpa, condanna o unico conforto? Scelta inesorabile o bene prezioso che ha riempito la mia vita senza rimpianti, senza lamentazioni? Tu, Isabella, mi riporti indietro nel tempo, a turbamenti antichi, a lontani conflitti.
-Zio, io non sapevo…non immaginavo. Ciò che mi avete detto vi rende a me ancora più caro e mi fa comprendere come sia indispensabile la vostra presenza nella mia vita. Vi prego, annullate il male che vi ha colpito, sconfiggetelo. Abbiamo bisogno di voi, io in particolar modo. E’ ora di cena, tra poco sarà qui Maddalena. Devo lasciarvi, ma sappiate che custodirò sempre il vostro dolcissimo segreto, esso ci vincola ancor più.
Isabella uscì dalla stanza dell’arcidiacono pensierosa, triste addirittura al pensiero che lo zio avesse tanto sofferto per un amore ed ancora palpitasse per esso. Chi era la misteriosa donna che lo aveva irretito, che aveva annullato la sua volontà, la sua forza, tanto da tenerlo legato a sé ogni giorno della sua esistenza, senza possibilità di tessere progetti autonomamente, schiavo del suo sguardo e del suo fascino? Qualcuna che non aveva corrisposto al suo amore? Forse le era stato proibito? Forse era tuttora inconsapevole? Isabella era sempre più presa dalla rivelazione fattale dallo zio: era sorpresa e sconcertata. Aveva sempre considerato l’arcidiacono un essere superiore, non soggetto a debolezze, rapimenti, fragilità. Ora non era il momento adatto, ma avrebbe voluto saperne di più e questo suo proposito non era dettato dalla curiosità, ma da un desiderio profondamente sentito di consolazione.
Si soffermò dietro l’ampia vetrata sul pianerottolo che si slargava dopo la prima rampa delle scale che portavano dal salone di ricevimento e dalle camere da letto a piano terra, dove si trovavano varie stanze tra cui quella da pranzo e, quindi, l’ala dei servizi e la cucina. Isabella guardò fuori e non notò alcun segno che la sollevasse dal suo affanno. Era l’imbrunire di una uggiosa serata invernale: una luce grigia toglieva colore alle cose, rendeva indistinto il contorno delle alture che chiudevano la vallata immersa nel silenzio. L’inverno in Lucania era lungo e ingeneroso e spesso durava anche nei mesi della primavera, che sembrava non esserci in questa regione se non fosse per l’eccezione di alcune giornate di sole terso, tiepido che rincuoravano e per lo sbocciare delle primule e delle mammole tra l’erba dei colli, dove, però, soffiava un vento gelido che dissuadeva dal trattenersi a lungo all’aperto. L’oscurità avanzava lentamente e andava coprendo i tetti delle case di fronte e una profonda tristezza invase l’animo di Isabella. Sempre, la visione della luce che si spegneva le arrecava un senso di pace e di serenità. Come se, finito il tumulto del giorno, dei suoi rumori, le ombre calassero a smorzare la tensione delle opere. Non così quella sera. Portavano un brutto presagio; erano foriere di ore dolorose per Isabella alla quale tutto appariva lontano, inconsistente, assorta com’era nei suoi pensieri che la turbavano e le procuravano affanno. Zio Filippo stava male e presto li avrebbe lasciati inconsolabili per la sua perdita. La rivelazione di poco prima la opprimeva e la confortava insieme. Da un lato il sapere che lo zio aveva amato, che un forte sentimento aveva illuminato la sua solitudine la rincuorava; d’altro canto il considerare che il suo era stato un amore vissuto nel chiuso del suo cuore, negli smarrimenti della sua fantasia, esclusivamente nei suoi sogni, le dava una pena che la feriva intensamente perché pensava che anch’ella, forse, era destinata ad un amore impossibile, che difficilmente avrebbe trovato realizzazione in una tranquilla vita domestica. Donna Anna la vide e le si accostò.
-Isabella, tu piangi. Cosa o chi ti procura questo tormento?
-O nonna, che dispiacere, che angoscia! Lo zio Filippo è alla fine.
-Cara, è vero, sulla nostra casa sta per abbattersi un infausto avvenimento. Ti conforti il pensare che ciò che sta per accadere è inevitabile; ti conforti il sapere che di noi nessuno mai dimenticherà la sua amabile sollecitudine, la sua solerzia nell’aiutarci a risolvere i problemi. Ti conforti, infine, l’idea che il Signore, innamorato della sua anima la vuole accanto a Sé. Mancherà molto anche a me; impareggiabile è stato il modo con cui si è preso cura di voi, così numerosi, così diversi, eppure a lui egualmente cari come figli. Senza di lui meno serena e meno efficace sarebbe stata la nostra opera di genitori.
-Penso allo zio Giuseppe. A lui verrà meno il sostegno spirituale, la guida illuminante, il maestro.
-Non solo Giuseppe, anche tu soffrirai molto e questo mi rattrista. Tra voi tre c’è sempre stata un’intesa di cui talvolta ho provato invidia, anche se non capivo. Quel vostro cercarvi, i vostri discorsi molto più interessanti dei miei riguardanti le verdure da cucinare, le conserve da preparare, le numerose occupazioni che richiede la cura della casa; voi, invece, parlavate di poesia, di libertà… Questo per te è il primo grande dolore: tutta la vita è intessuta di gioie e di amarezze, di rimpianti e di affetti appaganti. Ora scendiamo. E’ ora di cena e bisogna mandare Maddalena su dallo zio Filippo. Mangia a stento una mela cotta e beve un bicchiere di latte caldo.

*

Uscita Isabella, l’arcidiacono fu preso dai ricordi. Spesso, in passato, erano affiorati alla sua mente; ma egli, forte delle sue energie, era riuscito a dominarne il potere evocativo che lo portava al rimpianto e ad un sottile e insinuante struggimento. Quella sera, però, la sua tempra, diventata così fragile, non riuscì ad opporsi alle visioni, alle voci che insistevano nella sua memoria. Vi si abbandonò, forse anche desideroso di farlo; per troppo tempo li aveva soffocati per timore che il risvegliarli, oltre a incrudelire la sua sofferenza, rendessero più difficile la rinunzia, il sacrificio.
Come in un sogno rivide il giorno, di tanti anni prima, in cui la sua vita cambiò.
In casa Glinni c’era un gran da fare: la servitù era in fermento perché tutti gli ordini dei padroni fossero eseguiti alla perfezione. Era in corso un ricevimento e tutta la casa era illuminata; l’argenteria, lucidata, splendeva sui mobili e nelle cantoniere. Il signorino Nicola presentava la sua promessa sposa ai parenti e agli amici. Era stato convenuto così dopo che i genitori si erano riuniti giorni prima per fissare i capitolari matrimoniali dinanzi al notaio e ai testimoni. Era d’uso che nulla dovesse essere omesso per quanto riguardava le sostanze e il corredo, e per quanto riguardava l’educazione dei figli e l’andamento della famiglia che stava per formarsi: tutto questo per la serenità della coppia e per proteggerla da eventuali malintesi. Tra il popolo, invece, l’unione era più immediata e spontanea, non veniva preceduta da patti e accordi perché, nella quasi totalità dei casi, i promessi sposi erano privi di beni e chiedevano solo la benedizione dei genitori e della Chiesa di Dio.
Don Filippo era tornato dalla terra di Capitanata dove si era recato per affari di famiglia ed aveva trovato la splendida novità.
Il padre, Don Domenico, gli aveva detto che Nicola aveva incontrato una giovane donna molto bella e di ottima famiglia, con cui desiderava accasarsi. C’era da entrambe le parti piena soddisfazione.
Don Filippo espresse il suo compiacimento e propose di parlargli di affari subito dopo la gioiosa circostanza. Indossò l’abito nero dal cui panciotto fuoriusciva una candida camicia chiusa al collo da una ruche di pizzo pregiato, lo stesso che ne orlava i polsini. Appena fu pronto si diresse nella grande sala. Il suo ingresso non passò inosservato: la sua figura era così elegante e il suo incedere così aristocratico che creavano intorno a lui un alone indiscusso di ammirazione.
Le dame, che si contendevano le sue attenzioni, dicevano di lui che era un perfetto irlandese dal fascino nordico. Il suo gusto, il suo portamento così naturalmente conformi ad uno stile personale, senza forzature o atteggiamenti volutamente dettati dalla moda imperante, attiravano, avevano un che di stupefacente, addirittura di sensuale. Non era facile, però, conquistare il suo cuore; si mormorava che avesse una fiamma altrove, dove spesso si recava6 per studio e per curare alcuni interessi di famiglia.
-Voi siete don Filippo, il fratello di Nicola. Dalla descrizione che mi ha fatto della vostra persona sono certa di avere indovinato. Io sono donna Anna, la promessa sposa di vostro fratello.
Egli si girò. Ahimè! Era la giovane, che aveva conosciuto in casa di amici alcuni mesi prima, e che lo aveva colpito per la bellezza, per i suoi occhi blu e la grazia dei movimenti. L’aveva rivista ed aveva provato quasi un senso di appartenenza.”Sarà la mia donna”- s’era detto. - Durante la sua permanenza lontano da Acerenza l’aveva pensata intensamente ed aveva deciso che, al suo ritorno, le avrebbe proposto di frequentarsi per un progetto di vita comune.
Sempre pronto e galante, egli non riuscì a rispondere, ma si limitò a sfiorarle appena con le labbra la mano che ella gli tendeva affabilmente. Da quel momento per tutta la vita egli avrebbe desiderato essere carezzato da quelle mani sottili e bianchissime. Lasciò la sala piena di ospiti. L’emozione era forte, non aveva mai provato un turbamento così intenso da temere di perdere i sensi. Preferì mettersi a letto; il riposo lo avrebbe ritemprato. Passò una notte insonne e agitata e soltanto verso l’alba si addormentò. Al risveglio fu assalito da una sensazione amara, dovuta ad un indefinibile senso di vuoto e alla colpa di desiderare la donna del fratello che egli amava più di tutti, con cui era cresciuto, con cui aveva un passato di giorni spensierati, i giorni irrevocabili della giovinezza. Aveva la sensazione che nella sua vita si fosse spenta una luce. Lo stesso smarrimento di quando si è in una stanza illuminata e d’improvviso si resta al buio. Era triste. Aveva perduto un sogno.Un pensiero confortante si fece strada tra gli altri: certamente al rivederla non avrebbe provato gli stessi brividi e lo stesso sconcerto. Era sempre riuscito a dominare i suoi impulsi e le circostanze, anche le più sgradevoli e difficili: questa volta era inevitabile che lo facesse. Doveva rassegnarsi! Poiché ella e i suoi si sarebbero trattenuti ad Acerenza alcuni giorni, egli avrebbe avuto modo di verificare l’effetto che la sua presenza aveva su di lui. Si era preoccupato oltremisura; forse, anche la stanchezza del viaggio e il ritrovare tutti dopo una lunga assenza avevano contribuito allo stordimento e allo strano malessere della sera precedente.
Era sicuro che avrebbe riso di se stesso e della sua debolezza. Non fu così. La vide in giardino dopo la colazione e fu di nuovo vinto da un sentimento di ammirazione, misto ad un desiderio di stringerla fra le sue braccia, di avvolgerla col suo calore, di confessarle la sua infatuazione.
- Don Filippo, sembrate colto da malore - gli disse donna Anna con sollecitudine, volete che chiami qualcuno?
- No, vi ringrazio - rispose rapito dall’incanto della voce che lo aveva già ammaliato al loro primo incontro.-Vi sono grato della vostra premura, non è nulla di allarmante. Devo lasciarvi perché un impegno urgente mi attende. Vi auguro ore serene e piacevoli di cui possiate conservare un dolce ricordo. Tutti noi e l’eccelsa Acerenza siamo lieti di avervi qui.
Si accomiatò sfiorandole la mano che ella gli tese con garbo e con un sorriso disarmante. Si allontanò e, appena poté, si appoggiò ad un albero. Il fresco del mattino non bastava ad alleviare il caldo che gli arrossava le gote e lo sfinimento che si insinuava in tutta la sua persona. ”Dio mio, in questa occasione ho bisogno del tuo aiuto. Mai, e questo è a mia condanna, ti ho cercato e pregato e, perciò, non merito che tu mi ascolti. La mia sicurezza e la mia intraprendenza sono in pericolo. Mi sento vulnerabile e terribilmente colpevole nei confronti di Nicola e di tutta la famiglia. Guidami a prendere una decisione. E’ certo che dovrò allontanarmi.”
Nel pomeriggio, a colloquio con il padre, apprese con sollievo che questi aveva apprezzato molto la sua opera nei possedimenti in terra di Capitanata, tanto che gli chiedeva di tornarvi poiché gli sembrava necessaria la sua presenza. Accettò di buon grado. La richiesta del padre gli sembrò un segno divino. La sera evitò di cenare con gli altri, adducendo la scusa di un appuntamento di lavoro. Partì l’indomani mattina, di buonora, lasciando i saluti per tutti. Era salvo. La lontananza avrebbe dissolto la visione di Anna e il suo ricordo.
Furono anni di lavoro, di viaggi, quasi peregrinazioni, di studio intensissimo. La sua solitudine fu interrotta da un breve soggiorno in casa in occasione del matrimonio di Nicola. Tutti notarono il suo cambiamento. Il volto scavato e lo sguardo serio e assorto facevano pensare che una pena intima lo struggesse. La rivide: era una bellissima sposa. I capelli intrecciati in un nodo all’altezza della nuca addolcivano i suoi lineamenti, il bianco vestito scendeva morbido e lasciava indovinare fattezze perfette. La sua apparizione al braccio del padre, la musica che si levava alta tra le navate della cattedrale gli procurarono una profonda commozione. Decise che sarebbe ripartito l’indomani: la sua sofferenza era insopportabile. Il padre, rammaricato, lo invitò a rimanere ad Acerenza.
- Filippo, non ti capisco più. Non puoi rimanere ancora lontano da noi, abbiamo bisogno di te. La mia salute è malferma e presto non sarò più in grado di badare ai nostri interessi e tu sai che Nicola ha sempre bisogno di aiuto e Canio è del tutto dedito al suo impegno pastorale. E’ nobile la tua passione per gli studi, ma noi ti rivogliamo tra noi e non solo perché abbiamo bisogno di te. Ormai hai sistemato nel miglior modo possibile le proprietà che abbiamo in Capitanata. Nulla ti trattiene.

*

-Don Filippo, sono qui a servirvi. Sollevatevi piano e fate in modo che non vi prenda l’affanno o la tosse- disse Maddalena entrando dopo aver bussato.
Don Filippo alla sua voce si riscosse e svanirono le immagini che lo avevano portato ad un passato tanto lontano. Maddalena con delicatezza, conservando sempre un atteggiamento di grande rispetto, gli accostò il vassoio e cominciò ad imboccarlo. Solo a Maddalena era permesso conoscere gli estremi effetti del suo male che lo facevano dipendere da lei per tante necessità. Egli la apprezzava perché custodiva gelosamente il suo doloroso segreto; a lei appariva un privilegio essere ammessa a servire l’arcidiacono Glinni, amato e apprezzato da tutti per la sua cultura e la sua saggezza, e mai avrebbe tradito la sua fiducia. Lo ricordava alto, asciutto nel fisico, virile nell’aspetto e nei modi e, poi, tanto amabile con tutti, anche con la servitù. Era vissuta in casa Glinni dall’età di otto anni, da quando era morta la nonna con cui viveva, poiché era orfana di padre e di madre. La prese con sé Don Domenico in una sera fredda e ventosa di novembre e la fece salire sulla carrozza. La strada era bagnata e cosparsa di ricci caduti dai castagni che la costeggiavano. Maddalena aveva il cuore in gola e gli occhi umidi di pianto, ma, appena entrò in casa e fu avvolta dal caldo di un grande camino, si sentì rinfrancata e provò un senso di gratitudine che sarebbe durato tutta la vita. Isabella, che era molto legata a Maddalena, un giorno le chiese se mai avesse desiderato vivere con la figlia e i nipoti; ed ella prontamente rispose ”Perché mai?”. Riteneva, infatti, naturale che, dopo la morte del marito, fosse tornata a vivere in seno alla famiglia che l’aveva accolta bambina. Aveva accettato la sua condizione senza rimpianti; anzi sentiva di essere fortunata perché tutti le volevano bene.
Con cura estrema accostava il cucchiaio alle labbra di don Filippo e pensava che Donna Anna, nell’allevare ed educare i suoi figlioli, aveva trovato nell’arcidiacono un sostegno impagabile. Don Nicola era un brav’uomo, ma era incapace di decisioni tempestive e, perciò, era solito affidare agli altri il compito di farlo.
-Su, don Filippo, un altro piccolo sforzo e la cena sarà finita. Domani arriva il signorino Giuseppe, il vostro pupillo, e dovrete farvi trovare in forze. Non vorrete certo dargli un dispiacere. Viene per voi.
Quindi, dopo averlo sistemato per la notte e dopo avergli augurato un buon riposo, uscì dalla stanza con grande sollievo dell’ammalato.
-Che se anche avessi voluto non pensarla, il ricordo del suo volto, dei suoi occhi, delle sue fattezze così armoniose mi tornava in mente come una ossessione- aveva detto un giorno a don Canio, il quale aveva conosciuto così il suo segreto, in confessione.-Ora puoi capire perché scelsi di stare lontano per tanto tempo.
Don Canio, accolta in cuore la sua pena come fratello e come sacerdote, gli disse:
-Filippo, tutto questo appartiene al passato. Hai vinto una battaglia contro la tentazione con una forza non comune e il Signore ti ha ricompensato, dandoti una vita ricca di soddisfazioni. Hai ottenuto la dignità dell’arcidiaconato per i tuoi meriti ecclesiali, i tuoi nipoti ti adorano come zio e come maestro e Nicola ti è grato per tutto quello che fai per lui e la sua famiglia. Io ti sarò sempre vicino con la mia comprensione e con il mio appoggio sacramentale.
Oh Canio! Quanto gli mancavano la sua dolce presenza e la sua fede serena senza conflitti! Era morto l’anno prima silenziosamente, com’era vissuto: era in chiesa e un lancinante dolore al petto lo aveva fatto piegare in due sulla panca di fronte al Crocifisso. Lo trovarono dopo alcune ore così, nel freddo delle arcate con una smorfia di acuta sofferenza sul viso. Aveva lasciato un vuoto nella casa e non tutti si rassegnarono alla sua perdita. Per lui e per Nicola era stato un duro colpo, sembrava loro che il Paradiso, dopo la sua scomparsa, fosse più lontano per le loro anime.
Da quando l’arcidiacono aveva parlato con Isabella, i ricordi si accavallavano prepotentemente nella sua mente. Figure, parole, memorie confuse, ma anche episodi chiari, nitidi, come presenti.
Era stato richiamato ad Acerenza poiché il padre, don Domenico, era gravemente ammalato ed aveva chiesto di lui. Al suo arrivo corsero ad abbracciarlo Nicola e cinque bambini di varia età. Il più grande aveva sei anni. Non lo conoscevano, ma avevano sempre sentito parlare di lui. Più discosta, tutta presa a coprire il suo ventre gravido donna Anna, che non nascondeva un certo disagio.
-Vostro padre è alla fine, avete fatto bene a venire- e gli tese la mano che egli questa volta non baciò.
-Come state donna Anna?- le chiese. D’un tratto capì che la passione, che lo aveva tormentato, s’era sopita, quasi sublimata; di fronte alla sacralità della maternità una quiete inattesa gli riempì l’animo. I figli di Anna e Nicola furono suoi.
Il padre nel vasto letto di noce dalle spalliere massicce e intagliate ansimava consumato dalla febbre alta. Filippo lo chiamò:
-Padre. Come vi sentite?
- E’ la fine, Filippo. Grazie a Dio sei qui. Non ho molte forze per parlarti a lungo, quanto vorrei. Perciò, tu ascolta e tieni a mente ciò che sto per dirti. Qui hanno bisogno di te. Nicola cerca di portare avanti tutto da solo, ma non ne è capace. Bisogna anche dire che le necessità sono tante. Torna ad Acerenza e guida la nostra casa e la nostra famiglia. Non so chi o cosa ti abbia portato lontano da noi; so, però, che, se lo hai fatto, era giusto che lo facessi. Sei persona di criterio ed io ho sempre apprezzato le tue scelte. Tra poco io non ci sarò più… dovrai sostituirmi. Se hai legato la tua vita a qualcuna, conducila qui ch’io la conosca; e se anche questo dovesse avvenire in seguito resta nella nostra casa. E’ così grande.
-Padre, non è questo, piuttosto io…
-Promettimi che lo farai- insistette don Domenico. E nel dire questo, gli prese la mano e gliela strinse forte.
Come avrebbe potuto negare al padre morente quanto gli chiedeva con tanta apprensione? Lo baciò sulla fronte madida di sudore e assentì con le lacrime agli occhi. Don Domenico morì due giorni dopo.
Nei mesi che seguirono, il dolore per la sua perdita fu in parte alleviato dalla allegria dei nipotini e dalla nascita di Paolina. Questa fu per l’arcidiacono una esperienza del tutto nuova. Nicola era a Matera per lavoro.
- Filippo, parto tranquillo perché ci sei tu- gli aveva detto uscendo di casa con l’espressione dolcissima di chi si fida pienamente dell’altro e vi si abbandona. Donna Anna cominciò ad avere le doglie all’alba di un giorno grigio di nuvole. Era piovuto tutta la notte e l’odore di terra bagnata entrava penetrante dalle finestre e dai balconi. Per fortuna Maddalena e i numerosi inservienti erano preparati all’evento. Uno corse a chiamare la levatrice; degli altri, chi preparava l’acqua calda e chi i panni di lino e la biancheria occorrente. Fu un giorno di ansia insolita per don Filippo: vedeva l’andirivieni dalla camera della cognata e udiva le grida della sua sofferenza. L’attesa gli sembrò interminabile. Per fortuna Nicola sarebbe rientrato l’indomani.
-Don Filippo, è nata! E’ nata una bella bambina!
Maddalena gli consegnò tra le braccia un fagottino rosa e s’allontanò per tornare dalla padrona. Egli scostò con delicatezza i panni che la coprivano e vide un visino perfetto e due occhietti semichiusi dal colore indefinito. Fu preso da un sentimento fortissimo di tenerezza per quella creatura così indifesa.
Vide donna Anna il mattino dopo; lo introdusse Maddalena nella camera nella quale non era mai entrato. Gli parve di violare una intimità che non gli apparteneva e lo fece soffrire la vista del letto dove l’amore univa gli sposi. Tutto gli era estraneo. Né si soffermò su particolari e cose che gli avrebbero, poi, ricordato quel luogo che egli, invece, avrebbe voluto dimenticare al più presto.
-Come state? Avete sofferto molto? Avete bisogno di qualche mio servigio? La bambina è bellissima. Per fortuna, Nicola tra poche ore sarà qui.
Parlò in fretta per nascondere il turbamento che lo aveva preso ed anche la commozione che provava nel vederla così pallida e stremata dai dolori del parto. Avrebbe voluto attirarla a sé e carezzarle i capelli. ”Dio mio, -pregò silenziosamente-aiutami ancora una volta, dammi la forza di smorzare i miei slanci”.
-Don Filippo, sedetevi. Vi ringrazio per la vostra apprensione; voglio sappiate che per noi donne il parto comporta paura, rischio e sofferenza, ma appena abbiamo liberato il nostro grembo ci invade una emozione dolcissima e indescrivibile nel vedere il piccolo appena nato e un grande sollievo nel sapere che è sano. Questa è la gioia della maternità, che annulla di colpo tutto il travaglio che ha preceduto la nascita.
Le parole di donna Anna lo ricondussero alla razionale compostezza di sempre e al suo ruolo di scrupoloso curatore degli interessi della famiglia.
Tante altre nascite seguirono, tanti altri giorni e tanti giorni di attesa, di angoscia e, poi, il pianto del neonato che veniva accolto con grida liberatorie. Piano piano, i ricordi di don Filippo Glinni si dissolsero e fu preso dal sonno.

*

La carrozza in cui viaggiava don Giuseppe Glinni procedeva speditamente, la strada era asciutta e i cavalli erano freschi. L’odore familiare dei lecci e dei castagni gli procurava un benessere che da tempo non provava. La scelta di vivere lontano dalla sua casa cominciava a pesargli, così come la solitudine, non più interamente compensata dalla passione per le lettere greche e latine che aveva fatto di lui un famoso conoscitore del mondo classico antico. Gli incontri con gli altri studiosi e il fervore intellettuale dei suoi scritti non riuscivano più a riempire il vuoto che ultimamente egli sentiva prepotente intorno a sé, come una minaccia, o come un male oscuro. Aveva una famiglia assai cara: tanti fratelli, sorelle, il padre, la madre; ma gli mancava l’amore. Ed ora la fine di zio Filippo. Gli sembrava di perdere una parte di se stesso. Si era formato al suo insegnamento, col suo esempio, guardandolo negli occhi. Il maestro, il consigliere, l’amico, più che padre. La sua vita aveva acquistato senso e valore per la presenza dello zio, una persona certamente fuori dal comune. Guardò il pastrano impolverato. Era già in viaggio da tre giorni e questo gli aveva causato non pochi disagi. Com’era lontano il suo paese! Com’era isolato dal fermento di vita e di nuove idee che agitava le grandi città! I monti, contrafforti naturali e maestosi, costituivano una barriera che era difficile valicare. Per fortuna, dopo l’ultima impervia salita, arrivò.
-Zio, per l’amor di Dio, fatevi forza. Superate il male, non permettete che esso vinca il vostro spirito. Non ci lasciate. Voi siete la nostra casa, la nostra famiglia. Nostro padre, voi lo sapete, è un onest’uomo e un gran lavoratore, ma si è sempre affidato a voi per le decisioni importanti che riguardavano la famiglia e la nostra educazione. Se lo vedeste, è come spaurito, senza guida e senza coraggio.
- Giuseppe, l’averti vicino mi è di grande conforto. Le tue parole di affettuosa riconoscenza mi riempiono di caldo il cuore, ma rendono più dolorose le ultime ore della mia esistenza. Dio sa se vorrei lasciarvi! Voi avete riempito le mie giornate, le mie ore. Avete dato uno scopo alla mia vita solitaria, al mio destino segnato dalla rinuncia a qualsiasi tipo di soddisfazione personale. Ora, però, sono stanco, desidero soltanto un sonno lungo che acquieti lo strazio che mi dà questa malattia.
-Non mi rassegno a vedervi così. Voglio parlare con il vostro medico curante. Forse un consulto con qualche luminare di Napoli, di Roma…
-La mia fine è ormai ineluttabile, Giuseppe. Ti consoli il pensiero che la morte mi libererà dalla sofferenza. Per quanto riguarda Nicola sono sicuro che farà bene, forse meglio, senza di me. Non so se sia stato un fatto positivo che io lo abbia sempre assistito. Ti raccomando tua madre: è stremata dalle tante gravidanze e dalle tante preoccupazioni che voi, così numerosi, le procurate. Non ti inganni il suo sorriso. E’ creatura dolcissima e mai farebbe pesare sugli altri un suo malessere. Ma, dimmi di Mario. Ti vedi con lui? E’ sempre così ardente di propositi?
-Oh! sì. E’ tuttora generoso di idee e di esempio, per i giovani in special modo. Ho sue notizie perché ci scriviamo ed abbiamo amici in comune. Ma da un bel po’ non mi incontro con lui, né sa della vostra malattia. Avete bisogno di qualcosa? Disponete pure di me; vi prego.
-Voglio che mi chiami il notaio. Finché sono lucido desidero che le mie volontà, che già hanno avuto il crisma della legalità, siano confermate.
-Sarà fatto. Ora riposatevi. Vi vedo molto affaticato.
Il nipote, accorato, lo lasciò. Aveva gli occhi pieni di lagrime. Si era reso conto che allo zio restavano pochi giorni da vivere.
In occasione dei funerali, ad officiare la messa funebre fu l’arcivescovo, assistito da quattro sacerdoti tra i quali il giovane don Saverio Glinni, uno dei tanti figli di Nicola, da pochi mesi sacerdote di Santa Madre Chiesa. Fu lui a pronunciare l’omelia. Erano presenti tutti i dignitari del Capitolo della Cattedrale di Acerenza, molti personaggi illustri giunti da città e paesi vicini. C’erano le orfanelle del Convento di Suor Maria Immacolata per il quale don Filippo era stato un benefattore molto generoso. Queste sfortunate creature erano costrette con ogni clima a seguire le processioni funebri recitando il rosario ed altre litanie, come se le loro preghiere fossero un viatico per l’anima del defunto. I numerosi nipoti Glinni e gli altri parenti, ognuno vestito di nero, occupavano ben sei file di banchi. Destava grande meraviglia la partecipazione silenziosa di tutto il paese. Don Filippo fu a lungo rimpianto.
Dopo la sua morte una palpabile tristezza regnava nella grande casa. Anche i più piccoli facevano a gara nell’essere più buoni. e risolvevano tra loro screzi e capricci per non dar fastidio ai grandi.
Alle dieci di un mattino di nebbia furono tutti convocati nella biblioteca per la lettura del testamento lasciato dall’arcidiacono.

 

Parte IV (Testamento) - Segue >>   

 

 

 

 

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