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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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TEMPI DIFFICILI
 

Nel settanta cominciò l’impegno per la costruzione del complesso di via del Calice alle Capannelle.

Prima ancora, i fratelli Fradusco avevano completato i lavori per due palazzine a Vermicino, in via di San Matteo. L’iniziativa era stata caldeggiata fortemente da Giovanni, che ambiva fabbricare anche per sè e per Peppino senza finalità di vendita. Il progetto dell’ingegner Bonanni prevedeva di realizzare due stabili identici, uno per ognuno dei fratelli, composto di nove spaziosi appartamenti. Le palazzine si affacciavano verso la campagna digradante dalla parte della città offrendo agli inquilini che andarono ad abitarle la sensazione di dominare dall’alto i movimenti di tutta una metropoli.

Giovanni riservò per sé l’attico della sua proprietà, lo arredò con cura e lo abitò poi saltuariamente durante i fine settimana per molti anni. Accanto alle palazzine, nel sessantanove, avevano acquistato una vigna, cinquecento metri quadrati per ciascuno, che Giovanni curava personalmente, riempiendola di piante da frutto e coltivandola a melanzane, pomodori, peperoncini e patate. Al centro, con il suo breve vialetto per accedervi dalle palazzine, Giovanni per devozione aveva fatto innalzare un’edicola graziosa in onore di Sant’Antonio. A quel santo e alla Madonna del Divino Amore lui attribuiva la grazia ricevuta per essere uscito senza troppi danni da un pauroso incidente stradale accaduto davanti all’ufficio vendite di viale dei Consoli al Tuscolano: quando un automobile lo aveva preso in pieno mentre si apprestava ad attraversare i binari del tram, lo aveva scaraventato sopra il tettuccio e, di rimbalzo, in mezzo alla strada.

Di notte, nel buio della vigna e delle viuzze vicine, brillava la luce perenne davanti alla statua del miracoloso patrono di Palazzo San Gervasio.

Peppino ed io avevamo affrontato la trattativa per l’acquisto dell’ampio terreno tra via del Calice e la ferrovia prima dell’estate del sessantanove. Con fatica e con poco convincimento, perché la proprietà, derivata da una complessa successione, era nelle mani di diverse sorelle (e cognati), poco propense ad avere comportamenti univoci; e perché intanto, stavano esplodendo nella società civile situazioni di tensioni e di contrasti che avrebbero caratterizzato almeno altri dieci anni di crisi politica ed economica.

Il sessantotto con tutte le nuove paure lasciava già i primi segni. Ma a Peppino la volontà di tener fede ai suoi programmi imponeva di superare anche i dubbi e i rischi. Io tenni calde le trattative durante i giorni di un viaggio che Peppino fece in Spagna con Mariannina e i coniugi Bonanni.

Al ritorno dal soggiorno spagnolo l’impressione fu che durante il giro turistico avesse preso il sopravvento, più che l’interesse per i panorami e le bellezze di Barcellona, Madrid, Cordoba, Malaga e Siviglia, l’impostazione dei progetti e lo studio dei problemi tecnici, discussi a fondo tra Peppino e l’amico Claudio che avrebbe dovuto metterli sulla carta.

Si trattava di predisporre l’attuazione di un quartiere autonomo per quasi trecento famiglie, raccolte in un’ isola di convivenza, programmata per creare rapporti più umani, più disponibili e legati il meno possibile alla vita della città già lontana, con la frapposizione dei grandi spazi del Parco dell’Appio Claudio e per la vicinanza delle zone verdi dell’Appia antica.

Al rientro dalla Spagna Peppino, senza dichiarazioni esplicite, faceva capire la ragione di quella nuova impostazione urbanistica perché era rimasto colpito dall’organizzazione, conclusa ma libera, della comunità dei gitani che occupavano il Supramonte di Granata.

Stringemmo i tempi della trattativa per l’acquisto del terreno delle sorelle Cosmi; e predisponemmo il grande cantiere prima ancora che Claudio Bonanni avesse completato il  fascicolo del progetto e i calcoli per il cemento armato.

Ebbero inizio i lavori. Escavatori, bilici, martelli pneumatici, gru, muletti e quant’altro erano in movimento continuo. Ma ebbe inizio anche il periodo delle tensioni all’interno del cantiere, prima appena palpabili, poi scoperte e aspre.

La vastità dell’area su cui stava sorgendo il complesso edilizio dei sei fabbricati gemelli consentiva l’accavallarsi e il sovrapporsi delle lavorazioni, che si traducevano nella progressione rapida della produzione, che rendeva ogni settimana più soddisfatti Peppino e Giovanni. Il numero degli operai occupati cresceva ogni giorno. Ma, nel contempo, si allargava rapidamente l’adesione del personale alle iniziative di rivendicazioni e di lotte della categoria degli edili, portate avanti e sollecitate dalle organizzazioni sindacali. Era il frutto, che stava maturando, di una rivoluzione sociale partita da lontano, non compresa, mal governata e arrivata alle conclusioni.

Giovanni viveva giorni furiosi nell’ambiente che non capiva e non sentiva più suo, da qualsiasi lato lo considerasse. Così in lui si fece strada un convincimento: che bisognava alzare steccati e difendere le posizioni della “proprietà” con l’irrigidimento, le contrapposizioni spinte, anche se questo avrebbe potuto portare al rischio dello scontro.

Da un paio di anni, tra maggio e giugno, io dovevo preoccuparmi, oltre che di inviare il contributo per la festa patronale a Palazzo San Gervasio, anche di rinnovare il porto d’armi per la Beretta 6.35 che Giovanni teneva costantemente nel cruscotto della sua auto. Quello che lui non sopportava era che persino qualche operaio di vecchia fedeltà verso l’impresa Fradusco ora fosse legato alle posizioni di protesta di chi fomentava la rivoluzione in cantiere. In questo lo spalleggiava senza troppa riflessione il rag. Zanni. Anche Peppino dentro di sé era una furia, ma la ragionevolezza e il senso d’equilibrio gli dettarono le regole da seguire.

Intanto bisognava considerare bene che cosa di giusto o di deteriore montava dalle rivendicazioni. E quale impatto esse avrebbero avuto per lo svolgimento della vita della gente e delle imprese. Perché una cosa era capire cosa c’era dietro la contestazione del movimento di Mario Capanna all’apertura del teatro “La Scala” a Milano e cosa nascondeva la pretesa del trenta garantito per le lauree collettive, oppure l’infittirsi delle rapine e l’inizio del fenomeno dei sequestri a cominciare di quello del giudice Sossi a Genova. Per questo eravamo impegnati a puntualizzare, a sezionare le richieste, a misurare le conseguenze degli atteggiamenti. Dopo di che fu lecito assumere posizioni elastiche e possibilistiche.

Peppino concluse che la strategia migliore doveva svilupparsi dalla partecipazione diretta ai dibattiti tra gli operai per avere idee chiare su quali rivendicazioni convenisse accettare e quali respingere: in un confronto a viso aperto, con l’intenzione di riportare l’equilibrio all’interno dell’azienda, cercando di togliere forza alle sollecitazioni esterne. La capacità di guidare l’impresa con giudizio partiva da quella posizione.

Ma lui non poteva esporsi di persona.

Per questo, per qualche tempo, io dovetti affrontare la fatica delle quindicinali assemblee di cantiere, con la presenza dei sindacalisti che venivano dalla sezione di Torpignattara. Era una sorta di invito a nozze, ma la sala per il pranzo degli sposi era lontana...: discussioni tese, aperture discrete, considerazioni pacate, promesse velate, posizioni ferme ma non rigide, richiami aperti ai lunghi anni di lavoro ininterrotto, prospettive di tranquillità, rifiuti e critiche, possibilità di soluzioni dirette...

Peppino prefigurava un abbozzo di concertazione aziendale in tempi nei quali le posizioni delle controparti — padronale e sindacale — erano soltanto antitetiche.

Alcuni amici costruttori lo rimproveravano per quella sua convinzione. Ma Peppino aveva in mente di vincere la sua battaglia a modo suo. Il dottor Serafino Cesare, ormai preso a riferimento dei problemi fiscali e d’indirizzo commerciale, forte di una esperienza lunghissima e d’intuizioni preziose, raccomandava a Peppino: “Non prendere mai il toro per le corna, se non ti ci costringono. Devi preferire di aggirare gli ostacoli per spianarti i percorsi’~ Le visite presso lo studio di via Cavour diventarono più frequenti e i consigli richiesti più assidui.

Quando fummo convinti che i dipendenti avrebbero aderito alle proposte pratiche che l’azienda aveva messo in campo nei loro confronti, Peppino accettò di incontrare di persona i sindacalisti nella sede dell’Ispettorato del Lavoro.

In attesa della riunione, ai piani alti del palazzo di via de Lollis, lui aveva la faccia tirata di uno pronto a lanciarsi all’attacco di una trincea; io ricordo bene di essere stato in una condizione di costante paura. Eppure avevo sostenuto tutta la preparazione di quel confronto ed ero convinto di aver seminato bene durante tutte le assemblee... ma c’era la novità di un tipo diverso di incontro dalle conseguenze imprevedibili!

Peppino aveva portato la copia del processo che i tedeschi gli avevano fatto a Dresda nel quarantaquattro. Fece capire bene alla controparte che il prigioniero che aveva tenuto testa al nemico in un campo di concentramento e aveva sfidato le conseguenze di una ribellione rischiando la fucilazione, anzi invocandola a petto scoperto, non era

disposto ad abbassare il livello di una battaglia nella quale lui era convinto che le ragioni della sua azienda dovevano essere difese anche per proteggere le condizioni di lavoro e di vita dei suoi operai. L’esito di quella battaglia, in quell’incontro infuocato, fu favorevole alle ragioni di Peppino. E in cantiere tornò un clima di possibile collaborazione, se non di serenità. Anche Giovanni si convinse che le trattative andavano affrontate con un certo spirito di liberalità, purché cessassero i motivi di una continua turbativa.

Peppino Fradusco era diventato “don Peppino” per gli amici e “il commendatore” per i dipendenti, senza bisogno di investiture particolari sul campo... Anche i sindacalisti gli avevano teso la mano. Si rammaricava che uno di essi, quando Peppino gli chiese se poteva omaggiarlo con una bottiglia di Ballantine’s, pretese che gli fosse recapitata una confezione di Chivas Regal! “E’ di palato fino, l’amico...” commentava.

I sei fabbricati si alzavano, i rapporti erano tornati favorevoli. Ricordo con nostalgia le mie visite domenicali al cantiere fermo per il riposo settimanale, di mattina, quando c’era la sola presenza dell’anziano fedele guardiano Michele. In febbraio lui mi faceva trovare ogni volta un ramo fiorito di mimosa, da portare a mia moglie, colto dall’albero salvato tra le cataste di mattoni. In cantiere i lavori si protrassero sino alla fine del settantatre. Quando i fabbricati furono quasi pronti per essere abitati e si dovevano predisporre le opere per le sistemazioni esterne, si avvicinarono all’Impresa gli intrallazzatori e i politicanti. Andavano in giro fiutando odori di decomposizione o di impasti carognosi! Peppino non li sopportava e non accettava le loro azioni che sapevamo intraprese qua e là con l’accondiscendenza di molte aziende concorrenti. Don Erminio Laurora, il notaio di fiducia dell’Impresa, raccomandava:

“Don Peppì, non v’infognate...”

Si presentò un tizio all’ufficio vendite di viale dei Consoli, accompagnato da un mediatore di pochi scrupoli che conoscevamo da tempo.

La proposta, ventilata come un grosso affare, riguardava la possibile vendita in blocco dei sei manufatti di via del Calice alle Capannelle.

Peppino Fradusco non si sbilanciava mai in valutazioni affrettate, in richieste o offerte quantitative quando si profilavano trattative di una certa importanza: preferiva veder maturare lentamente le condizioni per valutare con più opportunità le conseguenze; soprattutto voleva capire bene chi stava dall’altra parte del tavolo da gioco. Era quasi l’ora di chiusura del nostro ufficio. Fu fissato un appuntamento, e Peppino mi incaricò di andare per un primo sondaggio.

A metà di un pomeriggio plumbeo, in un bar vicino a via della Conciliazione, rimasi un bel po’ in attesa, avendo davanti una cartella voluminosa con gli elaborati tecnici del complesso di via del Calice. Entrò con passo autoritario, stretto in un clerigman impeccabile, un prete, la stessa persona che ci aveva fatto visita vestito in borghese. Venne subito al dunque, senza dare neppure un’occhiata ai disegni. Aveva fretta di esporre, nel modo meno chiaro possibile, i termini dell’affare. In quei mesi, in città ribollivano vecchi sordi risentimenti e manifestazioni, persino in piazza del Campidoglio, di una marea di senza tetto e di sfrattati, che rischiavano di turbare l’ordine pubblico e le manovre del sottobosco politico della capitale.

C’erano possibilità di investimenti, da parte di un gruppo legato a una corrente di partito, per l’acquisto di case, da rivendere subito, e preordinatamente, al Comune, per assegnazioni veloci già concordate.

I palazzi di via del Calice erano adattissimi per concludere presto le trattative; e il fatto che fosse una sola persona — Peppino Fradusco — a decidere sulla richiesta e a chiudere la partita avrebbe senz’altro favorito gli accordi. Che dovevano prevedere un prezzo reale per l’Impresa e un ricarico molto, molto consistente per il gruppo degli investitori che, naturalmente, non sarebbero dovuti apparire.

Nell’accostarmi alle mene dei mestatori della politica ero stato sempre un ingenuo. Perciò salutai esterrefatto il Monsignore, promettendo di riferire con molta cura, e subito, al mio principale.

Già nel tragitto di ritorno verso l’ufficio presagivo la sfuriata di Peppino. Perché sapevo bene che non accettava il parassitismo e la sporcizia.

- “‘N culo a stì fetienti!!!” - L’invettiva chiudeva ogni possibilità di intesa.

- “Preferisco che le case rimangano vuote a marcire per anni... -

Fu la conclusione delle sue considerazioni intervallate dagli improperi più atroci usciti dalla sua bocca.

In presenza della grave crisi del settore edilizio di quel periodo, il complesso delle Capannelle fu affittato a duecentosessanta famiglie e a venti commercianti.

Così rimase per otto anni; fin quando. in un clima di altre epiche battaglie verbali contro sindacati, sedicenti cooperative e troppo zelanti politici, resistendo a tutti costoro, furono realizzate, a prezzi molto convenienti per chi acquistò, le vendite frazionate degli appartamenti e dei negozi. Il settanta per cento degli inquilini si fece così la casa.

Da questa operazione venne a galla una palese riconoscenza per l’impresa e una grande stima da parte degli acquirenti verso Peppino Fradusco. Lui diceva poi:

- “Ci saremo fatti qualche nemico in alto loco, ma sono sicuro che molti di più ci saranno grati!” -

 

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