Da provincia a capoluogo le trasformazioni
nell’ 800
Le vicende politiche ed amministrative
Dopo la prima
restaurazione borbonica, che aveva fatto seguito alla sfortunata repubblica
napoletana del 1799, con la nomina di Giuseppe Bonaparte a re di Napoli,
ebbe inizio il “decennio francese”. Il governo dei napoleonidi apportò
all’apparato amministrativo notevoli cambiamenti, primo fra tutti la nuova
suddivisione del territorio del Regno. La provincia lucana, con capoluogo a
Potenza, fu suddivisa nei tre distretti di Potenza, Matera e Lagonegro (cui
si sarebbe aggiunto quello di Melfi nel 1811) a loro volta divisi in
circondari, e questi ultimi in comuni; in ogni città o paese il Decurionato
sostituì i Pubblici Parlamenti ed il sindaco venne eletto con i voti dei
decurioni.
La scelta di Potenza quale capoluogo della
Basilicata, oltre ad essere motivata dalla più vantaggiosa posizione
geografica rispetto a Matera, sembrerebbe innanzitutto connessa al programma
di riordino amministrativo delle aree interne del Regno, auspicato già negli
ultimi anni del 700 nell’ambito del riformismo borbonico - si veda al
riguardo il ruolo svolto a Potenza dal vescovo Andrea Serrao - e fatto
proprio nel “Progetto per la formazione delle Intendenze Provinciali”
presentato dal Ministro Zurlo nel 1803, ma rimasto inattuato per i noti
eventi politici.
All’ avvento dei
Francesi la concordanza di interessi tra governo e ceto borghese moderato
permise la ripresa delle riforme già avviate, a partire dalla rivendicazione
dei diritti del pubblico sulle terre usurpate dai feudatari, con la
conseguente eversione della feudalità e il trasferimento della proprietà
fondiaria e del controllo del territorio nelle mani del ceto medio. In tal
senso la borghesia urbana potentina, diversa dal ceto radicale e riformatore
che aveva trovato la morte nella repressione del 1799, sarà autentica
protagonista, nel corso dell’800, delle scelte in materia di acquisizione e
gestione del territorio urbano e suburbano sottratto agli abusi feudali ed
ecclesiastici, facendo parte, sin dall’inizio, del Decurionato e del
Consiglio d’Intendenza.
Il regno di Gioacchino
Murat, ancorché per molti aspetti felice, fu purtroppo segnato, per quanto
concerne la Basilicata dal dilagare del brigantaggio, favorito dalla povertà
e dalla configurazione del paesaggio, boscoso ed impervio: la repressione
del fenomeno comportò un incremento delle spese dell’amministrazione
provinciale e conseguenti aggravi fiscali; nel frattempo, però, un notevole
miglioramento in questo ambito fu apportato attraverso le leggi contro la
feudalità, venendo abolite le antiche servitù baronali. Un’ altra importante
iniziativa del Murat fu l’ istituzione, nel 1809, del cosiddetto “catasto
provvisorio”, consistente nel rilevamento descrittivo, in vista di una
successiva graficizzazione, dei dati sulla consistenza immobiliare nei
comuni del Regno: gli “Stati di sezioni” relativi al patrimonio edilizio
potentino, redatti entro il 1813, rappresentano una fonte documentaria di
notevole interesse per la storia del tessuto abitativo.
Al ritorno di
Ferdinando di Borbone sul trono napoletano, nel 1815, i Potentini nominarono
una delegazione che si sarebbe recata a Napoli per presentare gli omaggi al
re. I successivi eventi politici nella città sono logicamente legati a
quelli napoletani: echi dei moti rivoluzionari del ‘21 si sentirono anche a
Potenza, dove si era formato un partito liberale e nel ‘32 si istituì un
piccolo nucleo di affiliati alla Giovine Italia. Questo fu il motivo
principale per cui Ferdinando Il, nel 1846, fu spinto a visitare, tra le
altre province del Regno, la Basilicata: la visita del sovrano a Potenza fu,
peraltro, uno sprone per alcune opere di abbellimento della città.
I punti fondamentali
della Costituzione promulgata nel febbraio 1848 furono la creazione della
Guardia Nazionale e l’approvazione della legge elettorale, in base a cui la
Lucania avrebbe avuto tredici rappresentanti: cinque a Potenza, due a
Matera, tre a Melfi e tre a Lagonegro. Ma la Costituzione tardò ad essere
applicata, suscitando la rivolta napoletana del 15 maggio, giorno di
apertura del Parlamento: Potenza non insorse, ma vi si riunirono i
rappresentanti liberali delle province di Basilicata, Terra d’Otranto, Bari,
Capitanata e Molise: repressa la rivolta nella capitale furono spenti poco
dopo anche i focolai periferici venendo processati e giustiziati i
simpatizzanti rivoluzionari potentini.
Nel corso dell’ 800 la vita cittadina fu sconvolta
da flagelli come il colera - si ricordino l’epidemia del 1837 e quella del
‘54 - e i terremoti, di cui il più rovinoso del secolo fu quello del 16
dicembre 1857, che provocò gravi danni, specie nella zona di Portasalza.
L’amministrazione cittadina dovette quindi confrontarsi, anche dopo l’
Unità, con gli effetti di questi eventi, che si andarono a sommare ai non
lievi problemi di carattere socio-economico. Nel 1860 lo sbarco dei Mille
portò nuovo entusiasmo negli animi dei potentini, che proclamarono un
governo cittadino con la Pro-dittatura: il 5 settembre di quell’anno
Garibaldi si fermò ad Auletta, dove poté incontrare la deputazione di
Potenza, provvedendo alla nomina del governatore della provincia.
Le aspettative per i
cambiamenti che avrebbe dovuto portare l’Unità d’ Italia furono purtroppo
disattese: la povertà nelle campagne non era affatto diminuita, anzi era in
continuo aumento, mentre le scelte dei governatori creavano malcontento
nella cittadinanza: nell’aprile 1861 una rivolta, che coinvolse buona parte
della regione, fu repressa nel sangue.
Una delle prime
iniziative dell’ Italia unita fu quella di abolire gli ordini monastici ed i
capitoli delle chiese collegiate: con legge del 2 febbraio 1862 furono
quindi soppressi il monastero di S. Maria del Sepolcro, quello dei
cappuccini di S. Antonio La Macchia e il convento delle clarisse di S. Luca,
mentre il patrimonio suburbano di S. Gerardo, di S. Michele, della SS.
Trinità e di S. Luca, che comprendeva più di metà dell’ agro di Potenza, fu
venduto dopo essere stato suddiviso in grandi lotti; ciò fece sì che solo
ricchi possidenti potessero acquistarlo, venendosi a concentrare le
proprietà nelle mani della nuova borghesia capitalistica. La parte urbana
del patrimonio ecclesiastico fu invece più equamente suddivisa, consistendo
in piccole case che potevano essere acquistate dalla media e bassa
borghesia.
Tutto ciò comportò
sostanziali modifiche nell’ articolazione stessa dei ceti sociali: ad
esempio scomparvero i massari, mentre la classe contadina continuò ad
impoverirsi; tale fenomeno, unito alle facilitate comunicazioni con le
Americhe e all’ idea di lauti guadagni in quei luoghi, favorì fortemente la
crescita dell’emigrazione.
Intanto Potenza si
andava attrezzando per soddisfare le esigenze di una città moderna, anche
grazie alla costruzione di nuove strade e della ferrovia; quest’ultima, nel
gennaio 1881, permise al re Umberto I, con la regina Margherita e il
principe Amedeo, di giungere in visita in città: come era già avvenuto in
occasione dell’arrivo di Ferdinando II, fu dato impulso anche stavolta ad
una serie di lavori di ristrutturazione ed abbellimento della città. Alla
fine del secolo l’ambiente urbano aveva ormai acquisito i caratteri tipici
della cittadina borghese, che si conserveranno in buona parte fino alle
trasformazioni del secondo dopoguerra.
Condizioni sociali e scelte urbanistiche
in età preunitaria
Al momento della
elevazione a capoluogo, Potenza era già uno dei principali centri urbani
della Basilicata, ma questa scelta, esaltandone la collocazione geografica
baricentrica nella nuova provincia, conferì alla città un ruolo direzionale
che non aveva mai avuto, introducendo così il tema centrale della sua storia
urbanistica in età preunitaria: la trasformazione da grosso insediamento
contadino in moderno centro amministrativo.
La città, ad eccezione
del borgo di Portasalza era ancora contenuta nel perimetro delle antiche
mura, con un tessuto estremamente compatto: nella piccola piazza del Sedile
si concentravano le funzioni fondamentali della vita collettiva: i pubblici
parlamenti, il mercato settimanale, le feste popolari e religiose. Erano
praticamente assenti infrastrutture a rete, dagli impianti idrici ai
condotti fognari, alla pubblica illuminazione. Per effetto del nuovo ruolo,
il vecchio centro urbano si trovò sottoposto ad una pressione crescente, che
finì ben presto per metterlo in crisi. L’incremento della popolazione, la
necessità di ospitare nuove istituzioni, gli accresciuti volumi di traffico
veicolare, l’espansione del commercio determinarono altrettante “emergenze”
da fronteggiare, prime tra tutte quelle abitativa e igienico-sanitaria.
Allo stesso tempo, un
nuovo sguardo impietoso cadde sulla struttura urbana e sulle forme di uso
dello spazio pubblico ereditate dal passato, percepite ormai come segni di
arretratezza: fu subito chiara la volontà delle nuove classi dirigenti, in
particolare degli intendenti, di adeguare la città ad un modello di capitale
rappresentato dai più evoluti capoluoghi del Regno. Ciò comportava la
trasformazione dell’impianto urbano ancora medievale di Potenza nell’ ottica
del funzionalismo neoclassico, con l’apertura di strade ampie e rettilinee,
piazze regolari specializzate, edifici pubblici e moderne reti
infrastrutturali, oltre ad una nuova interpretazione, in chiave borghese,
dello spazio pubblico come spazio astratto di classificazione funzionale e
sociale, non più "comune" estensione dell’ambiente domestico, scenario della
produzione collettiva, come erano stati, un tempo, i larghi e le quintane.
Se da un lato, quindi,
le scelte di politica urbanistica operate a Potenza in età preunitaria
furono volte a dotare la città di nuovi spazi ed impianti pubblici o a
stimolare la riqualificazione dell’edilizia privata, dall’altro, soprattutto
mediante i regolamenti di polizia urbana, si cercò di eliminare vecchie
forme di promiscuità, allontanando ad esempio dai luoghi più rappresentativi
presenze ed usi tradizionali legati all’economia e ai modi di vita della
popolazione contadina.
Il problema della
trasformazione della città investiva, dunque, la struttura socio-economica
non meno di quella edilizia: la scarsa consapevolezza di tale intreccio
rendeva a volte velleitaria la volontà di “miglioramento” espressa dagli
amministratori. La contraddizione fra il modello urbanistico adottato e il
sostanziale permanere della vecchia compagine sociale, in assenza di una
borghesia imprenditoriale capace di promuovere programmi urbanistici su
vasta scala, costituisce un nodo centrale nella storia ottocentesca di
Potenza: dalla sua mancata soluzione derivano le incertezze di un processo
di ristrutturazione urbana innescato da una scelta puramente
strategico-amministrativa.
Il decennio francese fu
il periodo dei grandi progetti infrastrutturali. Le realizzazioni non furono
all’altezza delle intenzioni, ma molti interventi portati a termine negli
anni successivi vennero avviati o per lo meno individuati proprio in
quest’epoca. Con la Restaurazione gli obiettivi furono drasticamente
ridimensionati, subentrando una fase di gestione quotidiana della città e
delle opere pubbliche quasi sempre priva di una visione unitaria su vasta
scala; ma proprio in questo periodo “oscuro” mentre il vecchio centro
entrava progressivamente in crisi, cominciarono a configurarsi nuovi
equilibri, per effetto di una serie eterogenea di interventi urbanistici,
provvedimenti e norme regolamentari.
Il periodo che va dal
1842 al 1847, in cui la carica di Intendente fu ricoperta da Francesco Benzo
Duca della Verdura, nobile palermitano, rappresenta l’epoca di maggiore
consapevolezza della politica urbanistica preunitaria. Sullo sfondo di ogni
iniziativa dell’intendente vi fu sempre un progetto complessivo di
trasformazione urbana su cui egli riuscì a far convergere un ampio consenso,
alla base del quale erano un’idea precisa dei requisiti di un moderno
capoluogo e la lucida consapevolezza delle implicazioni economiche e sociali
degli interventi in atto. Con il Duca della Verdura, infatti, fu finalmente
posta la “questione urbana” nella sua globalità, non più come semplice
problema di opere pubbliche e di “polizia urbana”: se il suo progetto rimase
sostanzialmente inattuato, alcune linee strategiche in esso contenute
guidarono la politica urbanistica degli anni seguenti.
Peraltro, nel campo
delle opere pubbliche, il Duca della Verdura intervenne anche su iniziative
già in corso, imprimendo loro un nuovo impulso e, soprattutto, un’
impostazione radicalista e lungimirante. Negli anni ‘50 si tornò ad una fase
di lavoro quotidiano sulla città, ma sulla base delle acquisizioni del
decennio precedente: il Consiglio Edilizio, insediatosi nel 1844, e il
relativo regolamento approvato nel 1850, furono gli strumenti operativi
fondamentali per la gestione degli interventi sul patrimonio edilizio
privato, soprattutto dopo il terremoto del 1857.
In tutto questo periodo
gravi difficoltà finanziarie afflissero il Comune, allungando enormemente i
tempi di completamento di alcune importanti opere o impedendo di avviarne
altre. Fra amministratori comunali e intendente vi fu in genere unità di
intenti, pur con una differenza di prospettiva: gli unì erano più attenti
alla piccola gestione ed alla dimensione municipale, l’altro alle esigenze
rappresentative e funzionali della città capoluogo.
L’edilizia pubblica e le sedi delle nuove
istituzioni
Potenza, promossa
capoluogo di provincia, necessitava di nuove e più adeguate attrezzature,
come ad esempio le sedi degli uffici pubblici. L’amministrazione provinciale
si servì per questo degli ingegneri del Corpo di Ponti e Strade, istituito
per volontà di Gioacchino Murat nel 1808, secondo il modello del già
esistente corpo francese.
Il primo problema fu
l’ubicazione degli uffici dell’Intendenza, simbolo della nuova identità di
Potenza; sistemazione peraltro, sin dallo inizio, molto discussa. Si pensò
subito di accorpare l’Intendenza con i Tribunali, proponendosi all’uopo
l’utilizzo del convento dei francescani o del vecchio palazzo baronale; ma,
in merito a quest’ultimo, secondo il parere dell’ingegnere Policarpo
Ponticelli non vi si sarebbero potuti riunire entrambi gli uffici, dovendosi
utilizzare altri immobili limitrofi e non avendosi in tal modo l’opportunità
di un’unica sede pur con enorme profusione di fondi.
Alfredo Buccaro “La città nella storia d’Italia”-
Potenza - Editori Laterza -
Bari, 1997
Potenza e
non Matera
Il concetto di Giuseppe
Bonaparte di trasportare il capoluogo di Matera a Potenza fu consigliato,
scrive sul numero unico de Il Lucano
- 1907 - il Rettore R. de Cesare, più che dalla
geografia della provincia, dalla necessità che la capitale fosse meno
lontana da Napoli e in posizione naturalmente forte. Potenza non è nel
centro della Provincia. Il centro sarebbe stato S. Mauro Forte o Accettura o
Stigliano. Ma Potenza aveva maggiore importanza di queste ed era
naturalmente più forte, perché più in alto e circondata da monti di oltre
mille metri sul mare. Il crudo clima non fu una difficoltà per il re
Giuseppe. Nondimeno si guadagnò tutto il Melfese, nonché la lunga zona
confinante con Salerno. Da Napoli si andava nel capoluogo in tre giorni, e,
più tardi, in due giorni e mezzo, mentre la parte meridionale della
provincia seguitò ancora per lunghi anni ad essere divisa dal capoluogo da
distanze inverosimili, neppure oggi superate.
Io ricordo il mio
viaggio a Potenza nel 1865. Partiti una sera di agosto da Salerno, abbiamo
viaggiato tutta la notte, e l’indomani ci siamo riposati nella famosa
taverna di Auletta, dove moriva di perniciosa un povero contadino,
inutilmente soccorso da don Peppino Cicciotti, mio compagno in quel viaggio,
ottimo uomo e fratello di Pasquale, allora Sindaco di Potenza, e personaggio
principale della città, amico della mia famiglia, e padre di Ettore, col
quale ebbi l’onore di uscire dalla Camera dei Deputati, lui di estrema
sinistra, ed io di estrema destra, combattuti dalle peggiori plebi
elettorali, assoldate ed imbestiate dal governo. Si viaggiò la notte
seguente senza chiudere occhio, fra le paure di essere aggrediti ad ogni
passo. Se il grande brigantaggio era stato represso, restavano le piccole
bande, non meno avide e sanguinarie. Quel viaggio attraverso la campagna
abbandonata, e quella taverna di Auletta, così tristemente caratteristica,
lo ricordo come se vi fossi stato ieri, e son passati 42 anni da allora.
"Il lucano pel centenario
di Potenza" - Tipografia Editrice Garramone-Marcheslello - Potenza, 1907
Potenza capoluogo della Basilicata
Con decreto
dell’Imperatore Napoleone il Grande, (30 marzo 1806), Giuseppe Bonaparte,
suo fratello, fu nominato re dei reami di Napoli e di Sicilia. L’invasione
dei francesi non diede né libertà, né indipendenza, ma apportò il nuovo
sistema di pubblica amministrazione, che segnò il principio della moderna
civiltà. Per tale ordinamento, Potenza acquistò il posto di città capitale
della Provincia. Con la legge organica della nuova circoscrizione, la
Provincia fu divisa nei quattro Distretti di Potenza, Melfi, Matera,
Lagonegro; i Distretti in Circondari, e questi in Comuni.
Prima del 1663 la Città
di Potenza era stata per breve tempo già sede del Preside e della Regia
Udienza di Basilicata, sotto il Viceré Duca di Medina, il quale istituì la
Regia Udienza di Basilicata e vi nominò a Preside D. Carlo Sanseverino Conte
di Chiaromonte. Fu fatta come residenza prima Stigliano, poi Tursi, Tolve,
Vignola, Potenza, Montepeloso, in ciascuna delle quali Città o Terre, il
Preside dimorò ben poco, fino a che, nel 1663, non fu stabilita la Regia
Udienza a Matera sotto il Viceré Gaspare. Allorché sotto il re Giuseppe
Bonaparte si riformò l’ordinamento amministrativo e giudiziario del Reame,
Potenza, invece di Matera, fu prescelta Capitale di Basilicata perché meglio
si prestava per la sua situazione ai bisogni di tali riforme, essendo la
città quasi nel centro della Provincia.
"Il lucano pel centenario
di Potenza" - Tipografia Editrice Garramone-Marcheslello - Potenza, 1907 |