Potenza che non c’è più
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L'estroso e mai dimenticato
fotografo potentino Aldo La Capra |
“Saluti da Potenza” del dott. Luigi Luccioni è un
importante spaccato della città di Potenza che ci riporta indietro nel tempo
con interessanti dati storici del capoluogo lucano. Il volume (139 pagine
corredate da splendide foto), progetto grafico di Aldo La Capra, si avvale
della competente presentazione di Tommaso Pedio, una delle “penne” più
celebrate della Basilicata e non solo; presentazione che riportiamo per
capire il senso della vita ma anche il costume e la realtà della Potenza che
non c’è più.
Caro Aldo e Gigi, mi avete chiesto una
presentazione. Ma perché? L’idea è vostra, vostra la ricerca. E vostro deve
rimanere questo lavoro che è una manifestazione di affetto per la nostra
Potenza di cui diciamo sempre tanto male, ma che amiamo profondamente.
Le vostre cartoline mi hanno riportato in un mondo
che vive nella fantasia e nel ricordo.
Tanti anni fa, quando non vi era ancora la
televisione e quando per settimane e settimane intere dovevamo riempire
pagine e pagine di aste prima di scrivere la nostra prima a, vivevamo in un
mondo di fantasia. Si credeva allora ancora alle fate e all’ orco.
Giù, dopo i Gesuiti - allora non c’erano ancora i
due palazzi dell’Incis in corso Garibaldi e il “Palazzo degli Uffici” dava
sulla campagna - San Rocco era la meta delle passeggiate quotidiane con mio
padre. Ogni giorno, alla stessa ora, da via Meridionale - abitavo allora nel
Palazzo della Camera di Commercio - a San Rocco.
Vi erano tappe obbligate. La rimessa di Feliciello,
dove erano le carrozze “più eleganti” di Potenza e tra queste quella che
ogni anno portava noi bambini in una casa lontana, in mezzo ad un bosco. La
notte non si dormiva: bisognava alzarsi presto, essere pronti quando
arrivava la carrozza di Feliciello. Per l’ora di pranzo bisognava essere
dalle zie. E si partiva. Il viaggio, da allora, non finiva mai, si arrivava
sempre dopo l’ora prevista. Ed oggi quella casa si raggiunge in quaranta
minuti!
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"Premio Letterario" allo
Storico potentino Tommaso Pedio |
Siamo ancora in via Meridionale: c’è Paglialonga,
l’impresario del servizio postale. Anche lui ha una “rimessa” con cavalli e
carrozze. E poi, dopo i “Giardinetti”, dove era il monumento ai caduti, la
“solita” fermata da don Luigi: nel suo magazzino vi erano sempre tanti
sacchi di grano e di farina e tante, tante carrube, le “sciuscelle”. E poi
un altro Luigi.
Era sempre al lavoro quest’uomo. Era il più bravo
“carrozziere” di Potenza. Dalla sua bottega uscivano le più belle e le più
eleganti carrozze ed i carri più resistenti e più richiesti. Poi la campagna
e finalmente San Rocco.
Era allora San Rocco - per noi che riempivamo
ancora pagine di aste - un paese lontano dove, con due soldi, ogni giorno,
una vecchia donna - vecchia per noi bambini - ci dava un “osso di morto”, il
“tarallo” che oggi non ha più il sapore di un tempo.
Non sempre, ma qualche volta si proseguiva oltre.
Oggi c’è il ponte delle Calabro-Lucane, ma allora non vi era neppure
l’autorimessa dell’Anas.
La prima casa era quella di “Pascalotto”, il bar di
oggi era allora una stalla: alla mangiatoia erano due “vacche svizzere”, le
prime venute a potenza. E il loro latte era il più buono e il più richiesto.
Ogni giorno incontravamo degli amici di mio padre.
Un saluto e ognuno proseguiva nella sua passeggiata. Erano tutti avvocati.
Molti anni dopo seppi che erano i massoni della disciolta Loggia potentina.
Nel tornare verso casa Potenza, ci appariva tanto
lontana. Della città si distingueva soltanto il castello. I “grandi” lo
indicavano come l’ospedale, ma era veramente un castello così come appare
nelle vostre cartoline.
Oggi gli uomini che difendono il “centro storico”
lo hanno trasformato in un tozzo edificio in cemento armato. Non c’è più
nulla che faccia ricordare la presenza del castello dei Guevara. Case, case,
case aggrappate al colle. Allora, invece, il castello era ancora proteso
verso la valle e la nostra fantasia di bambini, che cominciavamo già a
dubitare delle fate, scorgeva, sul punto più alto della torre, un soldato
che scrutava l’orizzonte, vigile, a difesa della città contro ogni sorpresa.
Non erano le streghe, però, che minacciavano il castellano. Erano i
contadini - mi diceva mio padre - e la povera gente che si ribellavano alle
prepotenze del castellano.
Guardavo verso il castello e vedevo uomini laceri,
scalzi, affamati che, raggiunta la vetta, si arrampicavano sulle mura e
conquistavano il castello.
E mi piaceva sentire quel racconto e mio padre,
paziente, lo ripeteva, lo variava, lo rendeva sempre più interessante in
modo che io fossi dalla parte dei ribelli e non dalla parte del castellano.
Qualche volta - in realtà era una volta l’ anno -
nella nostra passeggiata si cambiava itinerario: la passeggiata era più
lunga. Non si doveva dire a nessuno dove andavamo. Non sapevo perché. Ma io
- non avevo ancora dieci anni - mantenevo il segreto e non dicevo a nessuno
che eravamo andati in una casa di campagna, da Raffaele.
Non c’ era nessun bambino, erano tutti “uomini
grandi”. Non erano come mio padre, ma erano suoi amici e, quindi, anche
amici miei.
Mio padre era astemio. A casa di Raffaele, però,
anche lui beveva un bicchiere di vino per partecipare al brindisi e anche io
bevevo mezzo bicchiere di vino.
Di quegli uomini non e’ è più nessuno! Siamo
rimasti forse soltanto in tre a ricordare quei “Primi Maggio” che vedevamo
insieme, in una casina a Betlemme, un cassiere di Banca, un professore di
liceo, un uomo “grosso grosso” che aveva il nome di un bambino e che a me
faceva ridere, si chiamava Nanà. E insieme c’erano un “signore anziano”, don
Antonio, c’erano Antonio e suo fratello; e, era “mastro Agostino” - come era
alto mastro Agostino -, c'era un pittore, un muratore e... ultimo io, il
figlio del professore.
Molti anni dopo, mio padre non c’era più, mi
ritrovai, in un pomeriggio di maggio, con alcuni dei “vecchi amici”. Questa
volta non eravamo in casa di Raffaele, ma sull’Acquedotto all’Epitaffio. Ed
eravamo più pochi, ma molto più accorti!
Molti anni prima, non avevo ancora cominciato a
scrivere le aste, andai alla scoperta della nostra città.
Ero a casa di mia nonna materna, giocavo nel
cortile con due cugine. Io ero il più grande ed ero io a decidere. Uscimmo
dal cortile in Largo Liceo. Non ci perdemmo d’animo. Ci inoltrammo in un
dedalo di vicoli e vicoletti. Era un paese nuovo per noi. Per entrare nelle
case non si salivano le scale, ma si scendevano. Non ne avevamo mai viste.
Ma erano tutte così. E quanta gente, quanti bambini come noi. Tutti nel
vicolo a rincorrersi. Ma a noi non si avvicinavano, non eravamo dei loro.
Una bambina soltanto - il ricordo è vivo - si avvicinò alla cugina mia più
piccola, Renata, non aveva ancora quattro anni, aveva con sé un vecchio
giocattolo, un residuo di bambola. E quel giocattolo aveva attirato l’
attenzione di una bambina del vicolo: “Me lo fai toccare?” Erano alti tempi
allora. Si “moriva di fame”, nei vicoli e nelle quintane di Potenza i
bambini non avevano i giocattoli, non avevano le bambine la loro bambola!
Ad un tratto, quasi improvvisamente, non vedemmo
più case intorno a noi. Eravamo soli... c’eravamo perduti. A salvarci furono
delle ragazze “grandi”. Tornavano da una passeggiata scolastica e... ci
riaccompagnarono a casa.
Un’ altra scoperta feci: il cinematografo! Ma ero
più.. .grande.
Ora a Potenza non c’è neppure un cinematografo in
funzione, né un teatro. Li hanno chiusi per...motivi di sicurezza perché non
hanno la doppia uscita. Così dicono, ma nessuno si preoccupa - neppure
l’assessore al turismo - di dare ai sessantamila potentini un locale dove
poter vedere un film. Povera Potenza a che punto si è ridotta!
Ma allora - forse avevo dieci anni - c'era il
cinematografo e c'era il teatro. Il teatro noi bambini lo vedevamo da fuori
quando il giorno di San Gerardo andavamo tutti, con padre, con madre e donna
di servizio, a prendere il gelato. Mio padre preferiva il caffè Larocca -
anche Larocca era un vecchio socialista - che aveva i suoi tavolini in
Piazza Prefettura.
Quanti tavolini c’erano allora in piazza
Prefettura! Il caffè Pergola, il caffè del Teatro, il caffè Larocca e, in
fondo, - dove il gelato costava meno - alti tavolini e sul centro della
piazza, su un palco riccamente illuminato la “banda” che era venuta da
Acquaviva delle Fonti o da uno dei tanti paesi di Terra d’Otranto.
Allora a Potenza c'era il cinematografo! Era in una
strada che a noi bambini sembrava veramente una strada. In realtà era una
semplice corte, una quintana. Oggi non c’è più. È stata demolita per far
posto al Palazzo dell’Ina.
Ma che era quel cinematografo! Tanti, tanti ragazzi
e tanti uomini grandi.
Non c'erano poltrone di velluto, ma sedie, semplici
sedie di legno. Ma che importava? Eravamo tutti presi a seguire il film.
Capivamo ben poco: era muto allora il cinematografo e noi non riuscivamo
ancora a seguire le didascalie. Soltanto all’uscita, chi ci aveva
accompagnato, ci raccontava quello che noi avevamo visto.
In Piazza Sedile c'era il negozio di don Michele
Marino. Anche don Michele era amico di mio padre e, quindi, anche amico mio.
E un giorno da don Michele vidi quell’uomo “grosso grosso” che si chiamava
Nanà. Mi prese per mano e mi fece entrare nel caffè che era là dove ora è la
Banca d’ Italia: “Na bella caramella a stu vaglione!”. Era il caffè di
Tursi, dove c'erano due strani tavoli che io non avevo mai visto. Nanà mi
mise tra le mani un bastone lungo lungo. Fu il mio incontro con il
bigliardo! Povero e caro Nanà! Lo vidi tanti, tanti anni dopo. Ricordava
ancora il giorno in cui mi mise tra le mani la stecca del bigliardo, nel
caffè - precisava - dei... socialisti di allora.
Non avevo ancora dieci anni. Da via Meridionale,
per raggiungere la scuola si giocava di astuzia: bisognava... conquistare
“le scale di Vaccaro” per raggiungere più rapidamente la nostra scuola in
via Pretoria, di fronte alla Trinità.
Alle “scale di Vaccaro” ci era vietato l’accesso.
Bisognava trovare il momento in cui il vecchio calzolaio, che aveva il suo
deschetto nel portone in via Meridionale, fosse distratto. Ma fingeva quel
vecchio di essere distratto e noi convinti di averlo ingannato.
Via Meridionale! Allora, dove è oggi il “Palazzo
della Ravenna” erano pochi alberi di acacia. Ma per noi era... un bosco e
tra quegli alberi noi ragazzi passavamo interi pomeriggi giocando a guardie
e ladri.
Quei ragazzi di allora - ma quanti sono ancora tra
noi? - vivono in una città tanto diversa da quella della nostra
fanciullezza.
L’avevamo dimenticata. Oggi la riviviamo nelle
vostre cartoline e nelle vostre didascalie. Povera, cara Potenza?
Ma è ancora la Potenza della nostra fanciullezza?
“Porta Amendola” a due passi da Piazza Prefettura!
Ma dov’è ora “Porta Amendola”? Dove le sue torri aragonesi? Furono distrutte
prima del Castello. E porta San Giovanni? La torre è in parte scomparsa,
chiusa da una brutta costruzione che “lo Strazzariello” - ma chi lo
autorizzò? - ha costruito togliendo alla vecchia Potenza anche l’unica torre
che non è stata ancora abbattuta.
Tutti ora difendono il “centro storico”. Ma hanno
fatto coprire da un rivestimento in pietra quella iscrizione sulla facciata
della Trinità, in via Pretoria, nella quale era inciso il nome di Publio
Pletorio. Eppure in questa antica epigrafe romana un glottologo, intorno al
1950, aveva ravvisato il motivo per cui i potentini dettero il nome di
Pretoria alla strada principale, quella sventrata a metà dell’Ottocento
secondo il piano regolatore sollecitato dal Duca della Verdura, il nobile
siciliano venuto a Potenza Intendente di Basilicata nel 1842.
Della vecchia Potenza è rimasto ben poco. Il centro
seicentesco è scomparso. Rimane soltanto quella parte ricostruita a metà
Ottocento dopo il terremoto del 1857 e restaurata a fine secolo.
Ma la vecchia Potenza è scomparsa: i difensori del
“centro storico” l’hanno distrutta e trasformata e difendono soltanto quella
strada che gli innamorati del nostro paese indicavano come il “salotto di
Potenza”. Ma allora la città contava soltanto dodicimila abitanti!
Rimane ancora questa strada il punto di incontro
dei potentini, ma - siamo ormai sessantamila - è diventata un budello in cui
non è possibile muoversi: sembra che chi passeggia faccia la fila innanzi
allo sportello di un ufficio governativo.
Ma questa strada - non sappiamo perché - deve
rimanere così come fu costruita alla fine del secolo, non si vuole capire
cosa sia effettivamente il centro storico da tutelare e da salvare. Le
vostre cartoline denunziano un’opera di distruzione che non credo abbia
l’eguale in alti centri del Mezzogiorno.
Che sia di sprone questa vostra raccolta di vecchie
cartoline a meglio operare e che la vostra iniziativa non rimanga
espressione soltanto di un nostalgico passato. Che sia, invece, incitamento
ad un operoso e rapido avvenire possibile soltanto e - a Potenza -
riusciremo a superare piccole ambizioni, interessi personali e smuovere chi
ha il dovere di ben amministrare. Questo il mio augurio e, credo, il vostro
proposito.
Vostro Tommaso Pedio
Potenza, giugno 1983
Luigi Luccioni - "SoJud
da Potenza"- Tipografia La Buona Stampa - Napoli -
Novembre, 1983 |