La città nei piani regolatori della prima
metà del ‘900
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Il busto di Giuseppe Zanardelli in Piazza
XVIII Agosto |
Nel settembre 1902, in seguito alla visita a
Potenza da parte del capo del Governo, Giuseppe Zanardelli, nell’ambito del
suo viaggio mirante a constatare le lamentate condizioni di arretratezza
economica della Basilicata, si accesero le speranze di interventi volti alla
riqualificazione del tessuto urbano potentino ad un miglioramento delle
condizioni igienico-sociali della città.
Nel 1912, sulla base delle leggi 140/1904 e
445/1908, concernenti provvedimenti a favore della Basilicata e della
Calabria, venne prevista la compilazione di un progetto speciale di
risanamento della città nel rione Addone: a tale scopo fu redatta una pianta
dell’ abitato dall’ ingegnere Mancini. La questione venne affrontata dalla
Commissione Edilizia, che formulò un’ ipotesi di espropriazione degli
immobili per pubblica utilità in base alla legge speciale promulgata per
Napoli nel 1885. Ma la possibilità di risolvere l’annoso problema dei
sottani svanì ben presto e gli interventi di riqualificazione eseguiti sulla
base delle leggi suddette si limitarono alla creazione di un collettore
fognario, completato dopo circa vent’anni, ed alla pavimentazione di piazza
Prefettura e di alcune vie e vicoli della città. Nello stesso periodo fu
costruito l’ acquedotto di Fossa-Cupa, progettato dall’ingegnere comunale
Luigi Fonti ed approvato nel 1910, onde sopperire all’inadeguatezza del
vecchio impianto creato nel 1888, non più sufficiente ai bisogni
dell’aumentata popolazione.
Il 28 novembre 1914 l’ingegnere Stanislao De Mata
presentò al municipio di Potenza un progetto di massima di risanamento ed
ampliamento della città. Secondo l’autore l’agglomerato urbano si presentava
spoglio e privo di moderne attrezzature: egli prevedeva dunque all’ interno
del nucleo storico, interventi radicali, da eseguirsi mediante l’esecuzione
di una nuova maglia viaria, capace di soddisfare le esigenze di
ristrutturazione e miglioramento del traffico veicolare.
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Via San Luca prima della demolizione
selvaggia del centro storico |
Via Addone come si presentava una volta |
Nel piano era previsto l’ampliamento di alcune
strade esistenti, la demolizione di numerose abitazioni malsane e la
creazione di nuove case per le classi meno abbienti, da costruirsi fuori dal
centro storico, mentre all’interno sarebbero sorte abitazioni di lusso per i
ceti più elevati; operazione già precedentemente avviata, come abbiamo
visto, dall’ intendente Duca della Verdura.
L’asse principale di via Pretoria raggiungeva
soltanto in qualche punto la modesta ampiezza di quattro metri: nel progetto
De Mata, l’arteria, per finalità igieniche, di traffico e di commercio,
veniva intesa non più come un “budello storto ed antiestetico ma una via
larga, ampia e moderna, fiancheggiata da edifici”. Secondo il piano,
inoltre, in piazza Prefettura, avrebbe trovato posto un lussuoso e
rappresentativo edificio: la “Galleria Lucana”, ossia un complesso destinato
al commercio e a civili abitazioni, prospiciente la piazza con un porticato:
vedremo come l'idea sarebbe stata ripresa nei successivi programmi
urbanistici. Riguardo all’ampliamento, si intendeva dar vita ad un
insediamento definito da strade larghe ed agevoli, dove fosse possibile
svolgere la vita commerciale, con giardini pubblici ed edifici per
abitazioni, al fine di congiungere “l’economia del prezzo e la comodità d’
igiene”.
La città veniva suddivisa in zone, secondo la
concezione moderna basata su una specializzazione dei singoli distretti
destinati alle diverse classi sociali: l’ubicazione stessa dei nuovi
quartieri era dettata da una logica gerarchica e classista, che permarrà
nello spinto dei successivi programmi d’intervento per la città. Nuovi mezzi
di comunicazione avrebbero collegato le zone di espansione col centro
storico: una rete tranviaria elettrica avrebbe raggiunto le due stazioni
ferroviarie, con una sola fermata principale in piazza Prefettura, per
evitare così una nuova concentrazione delle linee nella città storica.
Nel contempo, l'idea di collegare le due stazioni
ferroviarie, in posizione quasi simmetrica rispetto all’abitato, si
concretizzò attraverso una convenzione stipulata il 25 gennaio 1911 per la
costruzione della linea Calabro-Lucana a scartamento ridotto: si voleva in
effetti trasformare la linea in una metropolitana, atta a servire i nodi
principali del traffico ferroviario e del centro cittadino; dieci anni più
tardi, però, il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici avrebbe approvato un
progetto diverso, relativo alla realizzazione delle linee ferroviarie sul
versante occidentale della vallata, che costituiranno i margini artificiali
dalla futura espansione. Quanto alla rete viaria, De Mata prevedeva
l’apertura di una grande arteria, costeggiata da nuovi edifici, che avrebbe
collegato il rione S. Rocco con il sistema viario a nord della città,
attaversando il colle di Montereale in cavalcavia, ove si sarebbe sviluppata
una zona sportiva e per fiere industriali, con ampie aree destinate a
giardini pubblici ed edifici di uso collettivo.
Il Corpo Reale del Genio Civile all’ inizio si
mostrò favorevole al piano De Mata, successivamente si oppose per il
carattere monopolistico dell’ intera operazione. Inoltre il progetto,
secondo il parere del Genio, non corrispondeva alle reali necessità della
città, presentandosi “futurista” e sproporzionato: in esso, infatti, si
prevedevano alloggi per 50.000 abitanti, per una città che ne ospitava solo
18.000, senza il supporto di strutture economiche capaci di trasformare
sensibilmente l’ organizzazione sociale. Con delibera del 31 marzo 1915 il
Comune adottò il piano, ma con riserva di chiedere il decreto reale di
approvazione solo dopo la presentazione di un dettagliato programma
finanziario da parte del progettista.
La guerra e la scarsa disponibilità di materie
prime determinarono un grave ritardo nella risoluzione della questione: la
Giunta comunale era giustamente preoccupata dell’ ampiezza dell’ operazione,
sia per le difficili condizioni economiche che per il forte onere tributario
che sarebbe ricaduto sulla cittadinanza. Intanto sin dal 1912, sul versante
nord della città, erano stati posti in funzione alcuni padiglioni dello
ospedale psichiatrico, realizzato dagli architetti Piacentini e Quaroni a S.
Maria. Il suo insediamento, nei pressi della stazione superiore, segnò la
prima reale espansione a settentrione, attestandosi lungo l’arteria
provinciale diretta verso i centri abitati del Vulture. In questo periodo il
rione S. Maria si configurò come nuova area “di supporto” per la città,
grazie alla creazione di strutture ospedaliere ed assistenziali e di edifici
di istruzione superiore.
All’avvento del fascismo circa 3.000 persone, ossia
un 1/5 della popolazione, continuavano ad alloggiare nei sottani, in special
modo nel rione Addone: nel 1927 gli abitanti del capoluogo avrebbero
raggiunto il numero di 21.650, dovuto all’incremento delle nascite e all’
afflusso in città di funzionari, tecnici ed operai.
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Una testimonianza dell'epoca:
simpatizzanti della "Gil" in Piazza Mario Pagano.
Nel gruppo in piedi, penultimo da sinistra, Eugenio Brucoli, titolare
dell'omonimo bar in Via Pretoria |
I programmi del governo fascista tentarono di
risolvere innanzitutto il problema dell’ ampliamento, proponendosi di
rendere il capoluogo “centro” del suo hinterland ossia città
attrezzata ai vari bisogni sociali, igienici, culturali ed economici della
regione: la città fascista, infatti, si delinea concettualmente con funzione
attiva di centro di scambi e non, quindi, gravante sulle energie nazionali;
il mancato assetto economico del capoluogo lucano era stato determinato in
buona parte proprio dall’assenza di industrie e dalla povertà dei commerci.
I nuovi provvedimenti del governo a favore dell’
agricoltura, delle trasformazioni fondiarie, del credito agrario, delle
irrigazioni e delle bonifiche erano fattori determinanti per un incremento
tecnicizzato della produzione agraria: anche per Potenza, quindi, si
richiedevano nuove attrezzature ed industrie di trasformazione. Le opere
effettuate nel capoluogo in questo periodo - il potenziamento della rete
stradale, l’elettrificazione delle principali linee di trasporto, il
completamento delle ferrovie Calabro-Lucane - intesero principalmente
promuovere un impulso alla produzione attraverso l'incremento dei traffici.
La politica di antiurbanesimo e di valorizzazione
dell’ambiente rurale costituì, sul piano ideologico, il tema fondamentale
della visione fascista; laddove la costruzione di nuovi quartieri non
significava richiamare nuove affluenze, bensì rispondere alle primarie
esigenze della popolazione esistente. I piani regolatori focalizzeranno in
questo periodo l’ attenzione sul nucleo storico della città: è infatti nelle
intenzioni generali intervenire attraverso l’ abbattimento delle vecchie
case, per circoscritti miglioramenti igienici da conseguirsi con interventi
di diradamento, anche al prezzo di un’ alterazione ambientale; ciò avrebbe
ovviamente comportato uno sfollamento della popolazione meno abbiente dalla
città verso le aree di nuova espansione. Il centro cittadino si sarebbe
quindi trasformato nel carattere e nelle funzioni, venendone accentuato il
ruolo terziario.
Nel giugno 1925 il Commissario prefettizio Antonio
Antonucci decretò la compilazione di un piano regolatore di ampliamento
della città, con l’avallo di Giovanni Giuriati, ministro dei Lavori
Pubblici, che durante una visita effettuata nelle zone da risanare
“riconobbe Purgenza dell’opera”. Il progetto venne redatto dall’ingegnere
Vincenzo Ricciuti, tecnico comunale, e dall’ingegnere Emilio Simeoni del
Genio Civile, con Camillo Tizzano nel ruolo di coordinatore. Il piano
prevedeva principalmente interventi di “risanamento, consolidamento e di
spostamento dell’abitato di Potenza”, tesi a migliorare le condizioni
igienico-sanitarie, la rete viaria, l’edilizia e il volto stesso della
città, nonché a promuovere l’ incremento delle industrie e del commercio,
per delineare così il volto dinamico della città moderna.
Per il risanamento del centro storico Ricciuti e
Simeoni, interpretando alla lettera lo spirito della “battaglia di regime” e
gli indirizzi che già da tempo e da più parti tendevano verso una radicale
soluzione del problema, prevedevano interventi di demolizione nelle zone
malsane, principalmente nel rione Addone, con l’eliminazione dei sottani, la
ricostruzione e l’ampliamento delle sedi stradali, l’apertura di nuove
piazze. Per il decongestionamento di via Pretoria e per consentirne un uso
esclusivamente pedonale, gli autori del piano, nell’ abbandonare l’idea del
De Mata di un ampliamento della sede stradale dell’asse principale, optarono
per l’apertura di due nuove arterie ad esso parallele.
La prima, da svilupparsi a nord, avrebbe comportato
raddrizzamenti e allargamenti di alcune strade, in parte poi effettuati in
tempi più recenti. Essa iniziava dal previsto mercato al rione Addone e
terminava a Portasalza, attraversando piazza Prefettura ed il nuovo mercato
nei pressi di S. Michele. La seconda, da crearsi exnovo, partiva da
piazza Sedile congiungendosi presso Portasalza con l’asse superiore, in modo
da consentire un circuito veicolare.
All’ interno del tessuto più degradato si
prevedevano pure interventi di rettifica delle quintane, oltre alla
regolarizzazione di piazza Prefettura secondo una forma rettangolare - resa
tale tramite il “raddrizzamento” del fronte orientale la demolizione e la
sostituzione edilizia del lato sud dello stesso invaso; infine si sarebbe
proceduto all’abbattimento di alcune fabbriche nei pressi della chiesa di S.
Francesco.
Lungo il versante settentrionale una grande arteria
extramurale, già indicata nel piano Rosi ed auspicata dallo Ianora (1906),
avrebbe ospitato l’ospedale S. Carlo con la strada provinciale
Potenza-Spinazzola - l’attuale via Mazzini - giungendo all’ altezza di
Portasalza e proseguendo con il nuovo viadotto di Montereale, che
effettivamente realizzato intorno al 1937, mentre già dal 28 era stato
inaugurato l’omonimo parco.
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Portasalza in una foto del
1925 |
La nuova città si sarebbe estesa prevalentemente
nella piana a mezzogiorno e sulle pendici circostanti, con diramazioni verso
S. Rocco, Betlemme e S. Maria, e abitazioni distinte per categorie di
lavoratori, ossia secondo la moderna definizione di città-giardino, con case
civili, operaie e rurali, e con quattro villaggi agricoli a Betlemme e sulla
collina “Destri”, insieme con quelli già realizzati a S. Maria e al
Gallitello, ornati da spazi verdi e da un’ampia villa comunale.
Il progetto di massima del Piano Regolatore
Edilizio e di ampliamento della città, adottato il 3 marzo 1928 dal
Commissario straordinario, nonostante il consenso ministeriale, non venne
mai approvato. Nel ‘34, invece, il Provveditorato alle Opere Pubbliche bandi
un concorso per un piano regolatore di “Risanamento del Rione Addone
connesse opere per la città di Potenza”. Nonostante la proclamazione dei
vincitori, gli ingegneri Addone, Nicolosi e Roccatelli, il piano venne
sospeso nello stesso nello stesso anno per l’impostazione restrittiva
dell’intervento da realizzare, ritenendosi prioritario un progetto di
sistemazione generale della città, cioè la formazione di un piano regolatore
generale. Negli anni successivi, però, fu avviato e qualsiasi intervento fu
basato, come vedremo, sul generico riferimento al Regolamento di Polizia
Edilizia adottato nel 1933.
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La chiesa di San Rocco, così come
appariva nel 1907, libera dall'invadente cemento armato e con innanzi un
vasto piazzale erboso, dove il popolo potentino, la sera del XVIII
agosto di ogni anno, si riuniva per festeggiare il Santo, assistendo ai
fuochi artificiali. Non si faceva economia in tali occasioni di
abbondanti libagioni, sino a tarda notte |
L’evento bellico, con i bombardamenti susseguitisi
dall’ 8 al 22 settembre 1943, determinerà con la sua forza demolitrice
l’urgenza di ricostruire l’abitato, gravemente danneggiato, e in particolare
modo i rioni Addone e Rossano. Nel 1946 il provveditore alle Opere Pubbliche
conferì l’incarico della compilazione di un “Piano di Ricostruzione” di
Potenza all’ing. Vittorio Addone: nel progetto, oltre al programma di
risanamento e ricostruzione, nonché di miglioramento della viabilità interna
all’abitato, già delineati nel piano del ‘34, venne ripreso anche il tema
dell’ampliamento della città.
Il piano confermava la pedonalizzazione di via
Pretoria e la realizzazione delle due arterie secondarie; il rione Addone
sarebbe stato tagliato da un asse principale, largo 9 metri, che partendo da
piazza Matteotti avrebbe raggiunto via Pretoria e poi piazza S. Carlo.
Un’altra strada, invece, avrebbe avuto origine da piazza XVIII Agosto, nei
pressi del Banco di Napoli, e per via Manhes e via Cipriani sarebbe giunta
anch’essa a piazza S. Carlo, collegandosi pure ai rioni S. Carlo e Crispi.
Anche per il rione Rossano, compreso fra le chiese della SS. Trinità e di S.
Michele, vennero previsti interventi di sventramento per il passaggio delle
due arterie carrabili.
Le zone di espansione erano localizzate nei rioni
Libertà e S. Maria, ossia a sud e a nord dell’abitato. L’area meridionale si
estendeva nella conca ai piedi della collina, fra la SS 95 e la via Marconi,
collegamento della città storica con la stazione di Potenza Inferiore. In
quest’area, dove erano già in costruzione tre lotti di tipo intensivo di
edilizia popolare, la sistemazione urbanistica prevedeva un nucleo centrale
delimitato da costruzioni pubbliche, dove a quote diverse erano previste
alcune piazzette, con villini e palazzine circondati dal verde. Nella
seconda zona di ampliamento vennero realizzate sei palazzine di edilizia
economica e popolare, oltre agli edifici scolastici, al nuovo ospedale S.
Carlo, all’ orfanotrofio e all’ampliamento della Caserma “Lucania”.
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All'avvento del fascismo, circa 3000
persone (un quinto della popolazione di Potenza) alloggiava nei sottani.
L'evento bellico (8-22 settembre 1943) determinerà l'urgenza di
ricostruire l'abitato gravemente danneggiato |
Il piano del ‘46 configurava, quindi, un nuovo
assetto urbano di tipo monocentrico, localizzando nel centro storico le
strutture direzionali e, secondo direttrici di supporto, a nord le
attrezzature urbane e sul versante meridionale, verso la stazione, la zona
di espansione.
Urbanistica e architettura del ventennio
fascista
All’inizio del secolo alcuni eventi eccezionali,
come la miseria dopo la Grande Guerra e la nascita della dittatura fascista,
riuscirono ad animare in qualche modo le forze che si opponevano alle
logiche conservatrici di chi, pur avendo accettato l’idea di una
“città-regione”, su cui ancora si affannava a predicare il Commissario
prefettizio Antonucci nel 1928, non era disposto al sacrificio dei propri
interessi per il “bene della collettività” e soprattutto per il
consolidamento del ruolo istituzionale affidato alla città agli inizi del
decennio francese. “Potenza, se non ha ancora realizzato lo sviluppo ed il
progresso adeguati ad un Capoluogo di Provincia e di Regione, non ha neanche
raggiunto quel grado di civiltà e di decoro che in altre città, anche di
minore importanza, è in continuo divenire”: così l’Antonucci iniziò il
proprio discorso in occasione dell’adozione, nel 1928, del progetto di
massima del citato Piano Regolatore Edilizio e di Ampliamento di Ricciuti e
Simeoni.
Da tempo erano ormai cambiati gli scenari
socio-politici, ma rimanevano intatte le problematiche principali, tra cui,
prima tra tutte e comune a molte città che conservavano una struttura urbana
medioevale, la precaria situazione igienico-sanitaria dell’abitato. Non
essendosi di fatto realizzata l’ idea del Duca della Verdura di un
allontanamento dei ceti meno abbienti, si era conservato un modello di
divisione sociale di tipo “verticale” - i poveri nei sottani e i ricchi e la
classe media nei “soprani” - cui si contrappose quello del De Mata: questi,
nel descritto progetto del 1914, aveva immaginato uno schema
socio-urbanistico radiocentrico, costituito da cinture residenziali civili,
semi-civili, economiche e popolari che si sviluppavano a distanze crescenti
dal nucleo abitato.
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Festa in maschera 1903, in occasione
delle "Colonie Climatiche" di Basilicata.
L'inedita immagine proviene dall'archivio di foto Giocoli,
uno dei primi fotografi della città di Potenza (collezzione privata avv.
Domenico Bonifacio) |
Nel dibattito urbanistico degli anni 20 leggiamo
tutte le frustrazioni e le speranze disilluse a causa della scarsa
applicazione della legge del 1908, della lentezza secolare dei processi di
trasformazione urbana, della lacerante esperienza bellica e del fallimento
dell’utopia del “progetto totale” del De Mata. In un clima al contempo di
delusioni e di nuove speranze, alimentate da una propaganda che faceva delle
opere pubbliche un mezzo straordinario di consenso per il regime, nasceva
nel 1928 il “Piano Antonucci”, che nonostante la sua mancata attuazione
condizionò in maniera rilevante il successivo sviluppo della città. Alcune
scelte attuate, come l’insediamento della zona industriale lungo il Basento,
alcune omissioni o mancati approfondimenti, come la carente pianificazione
dell’espansione a sud, costituirono i prodromi di quella frammentarietà e
incompiutezza nei processi di trasformazione urbana ed ambientale tipiche
del secondo dopoguerra.
Lo stesso tenore di frustrazioni era stato
inizialmente alla base della favorevole, se non entusiastica, accoglienza
del piano De Mata. Il progetto “audace e grandioso”, come molti politici e
cronisti dell’epoca l’avevano definito, era sembrato l’unico strumento atto
a creare un varco nel muro di “diffidenza”, di “accidia dei cittadini” e
degli atteggiamenti ostativi precostituiti a causa di interessi privati che
venivano intaccati ogni qualvolta si adombrassero ipotesi di rinnovamento
urbano.
Ma il carattere ambizioso e monopolistico
dell’iniziativa e la situazione precaria delle casse comunali alla vigilia
dell’entrata in guerra dell’Italia, avevano fatto desistere
l’amministrazione comunale, e qundi l’architetto napoletano, dall’impresa,
venendo meno la speranza di risolvere i problemi urbanistici della città in
maniera radicale mediante un progetto che aveva avuto il grande limite di
estromettere la comunità dai processi decisionali ed esecutivi di
trasformazione urbana.
Intanto, a partire dal primo decennio del nuovo
secolo, si erano avviate o concluse numerose opere, tra cui il già ricordato
palazzo degli Uffici Governativi (1907-11) costruito sul preesistente
impianto del Collegio dei Gesuiti, della metà dell’ 800, su progetto
dell’ingegnere del Genio Civile Oreste Guercia di Barcucci; la nuova sede
del Banco di Napoli (1896-1914); la Regia Scuola Industriale al Rione S.
Maria (1922-29), sorta su progetto degli ingegneri Raffaele Cassano e
Vincenzo Ricciuti costituita da un blocco principale in stile eclettico a
forma di V in pianta e da un corpo “Officine”, destinato ai laboratori della
scuola e mai realizzato; il Seminario Pontificio Regionale (1926-28), di G.
Momo e T. Bianchi, infine il manicomio di S. Maria, progettato da Marcello
Piacentini, insieme con Giuseppe Quaroni, su cui vale la pena di soffermarci
per l’impatto che il complesso ebbe nel disegno dell’ area di espansione a
settentrione della città.
Nasce un nuovo ospedale
Il manicomio, i cui lavori iniziarono nel 1912, si
rese necessario a causa della precaria situazione dei folli della
Basilicata, che venivano curati fuori regione, con notevole dispendio di
risorse finanziarie da parte dell’amministrazione provinciale. Esso venne
progettato in occasione del concorso bandito dalla Provincia nel 1906 e
vinto dai citati progettisti. Per l’opera, destinata ad accogliere 300
pazienti, l’amministrazione committente mise a disposizione una vasta area a
nord della città, su cui ormai già da tempo si puntava per un incisivo
decentramento socio-economico. L’ampliata Caserma Basilicata, l’Orto
Botanico, la Villa Comunale, il mattatoio (1906-9), costituivano i primi
avamposti di questa nuova politica di espansione urbana...
La forte domanda di alloggi da parte di un sempre
più “crescente stuolo di funzionari e di impiegati” fu alla base
dell’istituzione di un ente come lo IACP che, “senza grovigli burocratici e
con facili finanziamenti”, potesse assicurare “costruzioni rapide”. I forti
interessi di proprietari di case che esigevano fitti esorbitanti non
favorirono certo una veloce soluzione del problema, nonostante il
cambiamento della normativa in materia di edilizia economica e popolare, che
prevedeva una diretta partecipazione del Comune alle realizzazioni edilizie
insieme con l’ente morale.
Solo nel 1925, mentre l'INCIS costruiva delle
palazzine sull’area del giardino dell’ex convento dei Gesuiti e il
Provveditorato alle Opere Pubbliche non aveva dato ancora inizio alla
costruzione di villaggi agricoli, vennero accordati fondi per la creazione
di abitazioni per gli impiegati attraverso lo IACP, realizzandosi gli
edifici del rione S. Croce - piazza Crispi; venne inoltre intensificata la
costruzione di alloggi per i meno abbienti, con la nascita dell’istituto di
Case Economiche e Popolari, costituito sin dal 1919.
Nonostante gli “eroici sforzi” che il governo
fascista compiva per “il miglioramento della razza e l’elevamento sociale
della nazione”, alla fine degli anni ‘20 nei sottani abitavano ancora
famiglie numerose e talvolta anche due o tre nuclei, come nelle case
cosiddette a compagno, spesso insieme con gli animali da lavoro.
Pertanto si invocava in maniera più forte che in passato quel “piccone
demolitore” che sarebbe diventato l’approccio metodologico più diffuso per
la risoluzione dei problemi urbanistici di Potenza, come di altre città
italiane.
Gli ingegneri Ricciuti e Simeoni previdero nel
1928, come si è detto, la demolizione dell’ intero quartiere Addone e
numerosi sventramenti puntuali e continui, finalizzati soprattutto alla
creazione di un’efficiente rete viaria nel centro antico. Il piano costituì,
di fatto, uno spartiacque nelle dinamiche sociali ed economiche che
condussero alla terziarizzazione del vecchio nucleo e la conseguente
fuoriuscita del ceto rurale. L’impianto urbano, liberatosi già da tempo
della cinta muraria, doveva diventare sempre più il centro commerciale,
amministrativo e politico della città; contemporaneamente esso si apriva
verso sud e verso nord, per favorire il diradamento demografico.
Questo avvenne all’ inizio molto lentamente per le
inevitabili spinte conservative e per la frequente reticenza, da parte del
“popolo dei sottani”, ad abitare fuori della cerchia urbana, come ad esempio
nei nuovi villaggi agricoli di Betlemme e Francioso. Il piano si trovò ad
affrontare una realtà urbanistica extra moenia in lenta
evoluzione, ma già disgregata e pertanto tutta da organizzare ed orientare.
Gli autori del programma si sforzarono, innanzitutto, di ricucire quelle
trasformazioni che in maniera spontanea o non pianificata si erano avviate a
partire dalla seconda metà del secolo scorso, come i primi nuclei
residenziali sotto il carcere di S. Croce. Qui l’espansione si era fermata
prima per la pausa bellica, poi per la rinuncia del De Mata a costruire un
quartiere a S. Rocco.
La frammentarietà edilizia
La frammentarietà che aveva dominato fino a quel
momento le realizzazioni edilizie, sia dal punto di vista
tipologico-architettonlco che da quello più propriamente legato alla scelta
dei siti, impose a Ricciuti e Simeoni l’esigenza di un nuovo disegno
organico dell’ insediamento residenziale, con una particolare attenzione
alla qualità ambientale ed urbana. Il quartiere doveva articolarsi in due
aree, il rione Case Popolati di S. Croce, a monte, e quello di civili
abitazioni a S. Rocco, a valle. Essi dovevano collegarsi direttamente al
centro mediante la tanto agognata strada “orientale esterna7, di cui nel
1927 fu approvato il progetto di un primo tronco che partiva dal Banco di
Napoli e arrivava all’imbocco della via delle Carceri. La strada sarebbe
diventata il trait d’union tra la rete viaria urbana e le principali
vie rotabili, come la comunale di collegamento con S. Rocco, la provinciale
di circumvallazione e la nazionale che si innestava nella Appulo-Lucana.
Dei due quartieri suddetti solo il primo venne
realizzato, ma con trasformazioni e ridimensionamenti che snaturarono
quell’aspetto di città-giardino che negli intendimenti dell’ amministrazione
doveva qualificare i nuovi insediamenti previsti sul pianoro che andava da
Borgo S. Maria fino a Poggio Tre Galli, dalla “posizione salubre e ridente”:
quivi prendeva sempre più corpo l’idea di una “città sanitaria”. La scelta,
al di là di tante altre motivazioni addotte da sostenitori e promotori,
sembrava l’unico modo per salvare il rione dal fallimento urbanistico del
manicomio. In parte ciò venne realizzato: infatti, dopo la creazione del
policlinico “Remigio Gianturco” e del tubercolosario di Verderuolo, nel 1939
l’ospedale S. Carlo si trasferì in alcuni padiglioni di quell’impianto.
Per rafforzare il polo urbano settentrionale
serviva, però, un idoneo collegamento con la città e con la zona a sud verso
il Basento. La proposta avanzata già nel 1923 di una linea tranviaria che
partisse dalla stazione di Potenza Inferiore e giungesse a S. Maria non
aveva avuto alcun esito positivo, nonostante le iniziali e promettenti
trattative tra la Deputazione provinciale e la società Idroelettrica Lucana.
A questa proposta seguì quella rientrante nel
progetto della tratta ferroviaria Potenza-Nova Siri delle Ferrovie
Calabro-Lucane. Bisognava rendere carrabile e pedonale il tracciato, per
buona parte in galleria, che andava dalla stazione Inferiore a quella
Superiore; l’installazione di un ascensore, poi, avrebbe consentito il
collegamento diretto tra il percorso ipogeo e piazza Prefettura. Ma le linee
Calabro-Lucane attuarono solo parzialmente la variante di percorso proposta,
impedendo la realizzazione di una metropolitana che collegasse in maniera
efficace il centro con le espansioni a sud e a nord del crinale.
Dopo l’adozione del piano emersero subito i limiti
di fattibilità dovuti soprattutto alle “ristrettezze economiche” del Comune;
pertanto si individuarono delle priorità nelle scelte progettuali,
escludendo la realizzazione dell’asse longitudinale a sud di via Pretoria,
ridimensionando altri interventi, come l’allargamento della stessa via
Pretoria solo nei tratti di maggiore flusso pedonale, e rinviandone altri
ancora. Di fatto, si puntò soprattutto su interventi parziali di risanamento
del centro antico e sulla realizzazione di alloggi per gli abitanti dei
sottani.
Con riferimento al citato concorso del 1934,
relativo al risanamento del rione Addone e allo studio della rete viaria del
centro storico, il De Pilato osservò a ragione che l’amministrazione
comunale avrebbe dovuto preventivamente “fissare la sistemazione generale
della città, delimitandone le zone da abbattere, quelle da ricostruire,
fissandone la destinazione, determinando le strade, le piazze, i giardini, i
mercati coperti, il resto [...] per formare un Piano Regolatore della città
[...]”: bisognava cioè fornire ai partecipanti al concorso un “pre-piano”
regolatore. Il risultato fu, ancora una volta, l’assenza di uno strumento
urbanistico, che non venne certo colmata con l’adozione, nel 1933, del
Regolamento di Polizia Edilizia, che fece anzi da sponda ai disorganici
processi di trasformazione degli anni ‘30 e successivi.
Un esempio fu il ridimensionamento del Rione
“Tavolaro”, a causa, sia della mancata attuazione del Piano di Risanamento,
sia della sopraggiunta crisi economica dagli anni che precedettero lo
scoppio della seconda guerra mondiale fino a tutti i ‘40. Nell’attuale rione
Italia, a sud-ovest delle palazzine costruite dall’Istituto Case Popolari,
dovevano sorgere due lotti di case-ricovero per gli abitanti dei sottani da
demolire, più un complesso di una quindicina di edifici previsti nel Piano
di Risanamento. Di quest’ultimo, ancorché oggetto di una variante tendente
ad una maggiore fattibilità, venne costruito un solo fabbricato e un
edificio scolastico, mentre dei due lotti solamente il primo fu portato a
termine.
Demolizioni e restauri in città
Intanto, all’ interno delle vecchie mura cittadine,
nel 1929 venivano abbattute alcune fabbriche “pericolanti” tra il palazzo
del Governo e la chiesa di S. Francesco, che già qualche anno prima aveva
subito la demolizione di una cappella annessa alla sacrestia. L’intervento,
che rientrava nei lavori di ampliamento della sede del Governo, avrebbe
consentito un “un comodo accesso al nuovo Palazzo di Giustizia”: la
ristrutturazione dell’ edificio ottocentesco costituiva, nelle aspettative
generali dei primi anni ‘20, un tassello fondamentale della “trasformazione
edilizia e civile di Potenza”.
"Metamorfosi di una città", Vincenzo Marsico, Lalli
Editore - Poggibonsi, 1990
Nel 1936, inoltre, l’intero isolato di Porta
Amendola venne raso al suolo: nell’ area di risulta, con “celerità
fascista”, sarebbero iniziati i lavori di costruzione della sede dell’ INA
(1938-40), il cui progetto di Mario De Renzi subì varie modifiche, sia nella
distribuzione interna sia nel disegno del fronte principale. Fiancheggiato
da due nuove strade e costruito per ospitarvi uffici ed alloggi e per
“abbellire” la piazza su quel fronte, l’edificio risultò invece
prevaricatore, sia per il linguaggio razionalista che per le proporzioni,
fuori scala rispetto alle prospicienti cortine edilizie. L’intervento,
criticato sin dall’ inizio, anche per aver eliminato un’utile barriera
contro i venti dominanti, “sembra quasi pensato per creare una frattura, uno
stacco evidente” con il tessuto urbano circostante.
Nella Piazza del Seggio, dopo i restauri della Casa
Comunale (1924-28) e la demolizione del vecchio teatro, già chiesa di S.
Nicola, per costruirvi la Casa del Fascio (1926-28), venne abbattuto
l’adiacente palazzo Navarra, pregevole testimonianza di architettura civile
sette-ottocentesca, per far posto alla nuova sede della Banca d’Italia
(1934-38), in stile eclettico-monumentale. Il polo commerciale, che si
sarebbe dovuto articolare, secondo il piano del ‘28, nei due mercati coperti
previsti a oriente e a occidente del crinale, venne ridimensionato e
collocato tra l'ex monastero di S. Luca e il Palazzo Bonifacio.
Il Rione Addone visse, invece, una storia più
sofferta. Il risanamento iniziò negli anni ‘30, si interruppe a causa della
mancanza di fondi negli anni di autarchia prebellica e riprese verso la fine
degli anni ‘50, accelerato dalle distruzioni causate dai bombardamenti del
‘43: le prime demolizioni riguardarono alcune case nei pressi di Largo
Liceo. Nel ‘34 vennero pure avviati i lavori di pavimentazione di via
Pretoria e della parallela via Roma e l’espropriazione di un lotto di case
nelle vicinanze dell’ospedale S. Carlo. Tre anni dopo, nel 1937, nell’
ambito del III lotto del risanamento, venne abbattuto il palazzo
Stella-Morena, sede dell’Istituto delle Gerolomine, in luogo del quale si
costruì, a partire dal 1938, il palazzo delle Poste progettato
dall’architetto Ernesto Bruno La Padula...
Contemporaneamente si attivarono altre
realizzazioni pubbliche, come la Biblioteca Provinciale (1937-39); sul
fianco meridionale del colle sorsero la nuova sede della Società Lucana per
le Imprese Idroelettriche (1938-40) e quelle della SITA e della FIAT, che
con le Case degli Statali, poste a valle del palazzo degli Uffici,
rappresentarono gli elementi di cucitura tra le ultime cortine
dell’espansione extraurbana ottocentesca e il nascente quartiere
residenziale di via Crispi-S. Rocco.
La mancata attuazione degli strumenti urbanistici,
le conseguenti realizzazioni per stralci, i continui e repentini cambiamenti
progettuali, insieme con la poco rassicurante situazione economica generale
alla fine degli anni ‘30, favorirono disorganici processi di espansione a
meridione. A tutto questo si aggiungano l’infelice idea di ubicare il campo
sportivo a monte della Stazione Inferiore, che costituì, assieme alla stessa
ferrovia, un ostacolo fisico allo sviluppo della città verso il Basento. La
localizzazione dell’ area industriale e artigianale al di là della ferrovia
compromise ogni possibilità di ampliamento verso valle, creando i
presupposti per quell’“implosione” di insediamenti residenziali, tanto
sviluppati in altezza intorno ai pendii del colle, da impedire persino la
veduta da valle dei campanili delle chiese cittadine.
Scelte politiche e trasformazioni urbane
del secondo dopoguerra agli anni '90
In conclusione del nostro studio, è opportuno
tentare una ricostruzione della complessa vicenda urbanistica potentina
degli ultimi decenni. Agli inizi degli anni ‘50, nonostante i descritti
interventi operati nell’ambito del centro storico sulla base del piano di
risanamento del 1934 e di quello di ricostruzione del 1946, non era ancora
stato risolto il diffuso problema della fatiscenza delle abitazioni
esistenti; quanto alla nuova espansione urbana, essa si era sviluppata, come
abbiamo visto, secondo due direttrici contrapposte rispetto all’antico
nucleo, interessando da un lato il versante meridionale del crinale,
dall’altro il settore nord-est dell’ insediamento originario. Nel 1954, con
decreto ministeriale, la città di Potenza fu compresa nell’elenco dei comuni
obbligati alla redazione del Piano Regolatore Generale ai sensi della legge
urbanistica del 1942. L’amministrazione comunale, entro il 1956, avrebbe
dovuto adempiere alla redazione del PRG; il nuovo strumento urbanistico
sarebbe entrato invece in vigore soltanto nel 1971.
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Foto dei primi anni del '900 di Via del
Popolo |
Durante il lungo periodo di dibattiti consiliari
sugli obiettivi e i contenuti del piano, la città continuò a svilupparsi
spesso al di fuori di ogni logica urbanistica. Nel 1957 il Comune deliberò
di dotarsi, sulla base di un concorso nazionale di idee, di uno schema di
PRG; nel ‘58 i tre progetti presentati furono esaminati dalla commissione
giudicatice, che attribuì il primo premio allo studio contraddistinto dal
motto “Quintana Grande”, redatto dagli ingegneri Bonamico, Mascia e Piroddi,
ai quali, nel 1959, venne affidato l’incarico di redigere il Prg
collegandosi alla politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno, che
proprio in quegli anni andava affermandosi, tutti i concorrenti proponevano
per la città uno sviluppo di tipo industriale, grazie al quale Potenza
avrebbe dovuto assumere il ruolo di centro produttivo di riferimento per
l’intero territorio regionale; quanto invece alle attività terziarie e
commerciali, nelle tre proposte progettuali si indicavano diverse ed
alternative localizzazioni. In particolare, il progetto vincitore
individuava come principale obiettivo il superamento dell’assetto urbano
monocentrico , attraverso l’individuazione di nuove direttrici di
espansione: le strutture direzionali sarebbero dovute sorgere in un area a
ridosso della Stazione Inferiore, lungo le pendici meridionali a valle del
centro storico, prevedendo per quest’ultimo la conservazione dei principali
caratteri edilizi ed urbanistici ed il mantenimento della destinazione
residenziale e commerciale. Inoltre, bloccando ogni possibilità di crescita
della città in tutto il settore nord-orientale, nel progetto si
individuarono quali esclusive aree di espansione i rilievi a nord-ovest
dell’abitato.
Il piano conforme, nella prima stesura redatta dai
tecnici incaricati, all’elaborato di concorso - fu adottato dal Consiglio
Comunale soltanto nel 1962; in esso era compresa anche una pianificazione di
dettaglio del centro storico (zona A), che mirava essenzialmente al
risanamento del vecchio abitato: all’interno di quest’ultimo, grande
importanza fu attribuita alla ristrutturazione generale della viabilità, che
avrebbe dovuto consentire il traffico veicolare indotto dalle previste nuove
attività terziarie, commerciali e residenziali. Lo schema circolatorio
proposto era strutturato secondo anelli a senso unico, raccordati in alcuni
punti nevralgici, individuati nelle piazze G. Matteotti e M. Pagano. Via
Pretoria, il percorso di maggiore importanza, avrebbe conservato l’esclusivo
uso pedonale.
Le aree a ridosso del vecchio nucleo urbano, sulle
quali si concentravano le maggiori attese e pressioni speculative, erano
incluse nella cosiddetta zona B, vincolata alla conservazione dei volumi
esistenti. Riguardo poi alla nuova espansione della città, si prevedeva da
un lato il completamento dello sviluppo edilizio già in atto nel settore
meridionale e a nord dell’abitato, dall’altro l’individuazione di una vasta
area di riserva localizzata nel settore nord-occidentale, che
l’amministrazione avrebbe dovuto acquisire e destinare a futuri ampliamenti
residenziali, nel rispetto delle esigenze della futura città.
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Le vecchie abitazioni del lato sud di
Piazza Prefettura che, demolite negli ultimi anni '30, fecero spazio al
Palazzo INA ultimato nel 1941
("Saluti da Potenza" - Luigi Luccioni) |
Per motivi morfologici e per la presenza di
attrezzature (ospedali e cimitero) che richiedevano particolari zone di
rispetto, nel PRG veniva invece bloccata l’espansione della città nel
settore nord-orientale. Per quanto riguarda poi le aree da destinare
all’insediamento delle attività industriali, nel 1961 era stato costituito
il Consorzio per l’industrializzazione della valle del Basento che
individuava, nelle zone di sedime del fiume attraversate dalle principali
vie di comunicazione (la SS 94 e la ferrovia Napoli-Taranto), la
localizzazione degli impianti produttivi.
Questa scelta, oltre a sottrarre vaste aree
all’orticoltura, comporterà la perdita del rapporto della città con l’area
fluviale, deturpata dalla cementificazione delle sponde e degradata nella
qualità delle acque.
L’industrializzazione della valle del Basento
costituirà inoltre un ostacolo alla spontanea espansione della città lungo
le pendici meridionali del crinale.
Dal 1962, anno di prima adozione, al 1971, anno di
definitiva approvazione, il piano regolatore della città fu più volte
oggetto di discussioni in Consiglio comunale, in occasione delle quali fu
sottoposto a varianti e modifiche, con l’aumento, ad esempio, degli indici
volumetrici e dei limiti di altezza. Mentre si dilatavano i tempi dell’iter
di approvazione del piano, la città continuava ad espandersi al di fuori di
un disegno generale, anche per il ricorrere di periodi di cosiddetta
vacatio legis, quando, cioè, trascorso il triennio posteriore all’
adozione del piano, per l’amministrazione cessava l’obbligo delle misure di
salvaguardia.18
18) Alfredo Buccaro - "La città nei piani regolatori
della prima metà del '900" - Editori Laterza - Bari, 1997 |