PINO GENTILE
 - La Città delle scale
 

- Capitolo II -
Storia Moderna della Città

  1. Prima pietra per Biblioteca e Museo provinciali di Potenza
    1879: Nasce la ferrovia Rocchetta - S. Venere - Potenza

  2. Quanti siamo in Basilicata (F. Saverio Nitti)

  3. Nitti ricordato a Roma e a Potenza

  4. Città costruita secondo nessuna regola d'arte (Giovanni Ianora)

  5. Una goffa leggenda dal dardo maligno (Giacomo Racioppi)

  6. La trasformazione edilizia e civile (Sergio De Pilato)
    Risanamento e piano regolatore

  7. L'ospitalità dei lucani e l'influenza dei romani nel dialetto (L. Carlo Rutigliano)

  8. Da provincia a Capoluogo: le trasformazioni nell'ottocento (Alfredo Buccaro)

  9. Visita del Presidente del Consiglio Zanardelli (Il Lucano - 1907)

  10. La città nei piani regolatori nella prima metà del '900 (Alfredo Buccaro)
    Urbanistica e architettura del ventennio fascista

  11. Una "lettura" delle trasformazioni urbane (Antonio Motta - Vincenzo Perretti)

  12. Si è costruito in maniera frenetica e senza alcuna norma (Luciano Mastroberti)

  13. La città visibile (Luciano Mastroberti)

  14. Potenza che non c'è più (Tommaso Pedio)

  15. La città sorgeva sulle rive del Basento (Giuseppe Ricciuti)

La città nei piani regolatori della prima metà del ‘900

 

Il busto di Giuseppe Zanardelli in Piazza XVIII Agosto

Nel settembre 1902, in seguito alla visita a Potenza da parte del capo del Governo, Giuseppe Zanardelli, nell’ambito del suo viaggio mirante a constatare le lamentate condizioni di arretratezza economica della Basilicata, si accesero le speranze di interventi volti alla riqualificazione del tessuto urbano potentino ad un miglioramento delle condizioni igienico-sociali della città.

 

Nel 1912, sulla base delle leggi 140/1904 e 445/1908, concernenti provvedimenti a favore della Basilicata e della Calabria, venne prevista la compilazione di un progetto speciale di risanamento della città nel rione Addone: a tale scopo fu redatta una pianta dell’ abitato dall’ ingegnere Mancini. La questione venne affrontata dalla Commissione Edilizia, che formulò un’ ipotesi di espropriazione degli immobili per pubblica utilità in base alla legge speciale promulgata per Napoli nel 1885. Ma la possibilità di risolvere l’annoso problema dei sottani svanì ben presto e gli interventi di riqualificazione eseguiti sulla base delle leggi suddette si limitarono alla creazione di un collettore fognario, completato dopo circa vent’anni, ed alla pavimentazione di piazza Prefettura e di alcune vie e vicoli della città. Nello stesso periodo fu costruito l’ acquedotto di Fossa-Cupa, progettato dall’ingegnere comunale Luigi Fonti ed approvato nel 1910, onde sopperire all’inadeguatezza del vecchio impianto creato nel 1888, non più sufficiente ai bisogni dell’aumentata popolazione.

 

Il 28 novembre 1914 l’ingegnere Stanislao De Mata presentò al municipio di Potenza un progetto di massima di risanamento ed ampliamento della città. Secondo l’autore l’agglomerato urbano si presentava spoglio e privo di moderne attrezzature: egli prevedeva dunque all’ interno del nucleo storico, interventi radicali, da eseguirsi mediante l’esecuzione di una nuova maglia viaria, capace di soddisfare le esigenze di ristrutturazione e miglioramento del traffico veicolare.

Via San Luca prima della demolizione selvaggia del centro storico

Via Addone come si presentava una volta

Nel piano era previsto l’ampliamento di alcune strade esistenti, la demolizione di numerose abitazioni malsane e la creazione di nuove case per le classi meno abbienti, da costruirsi fuori dal centro storico, mentre all’interno sarebbero sorte abitazioni di lusso per i ceti più elevati; operazione già precedentemente avviata, come abbiamo visto, dall’ intendente Duca della Verdura.

 

L’asse principale di via Pretoria raggiungeva soltanto in qualche punto la modesta ampiezza di quattro metri: nel progetto De Mata, l’arteria, per finalità igieniche, di traffico e di commercio, veniva intesa non più come un “budello storto ed antiestetico ma una via larga, ampia e moderna, fiancheggiata da edifici”. Secondo il piano, inoltre, in piazza Prefettura, avrebbe trovato posto un lussuoso e rappresentativo edificio: la “Galleria Lucana”, ossia un complesso destinato al commercio e a civili abitazioni, prospiciente la piazza con un porticato: vedremo come l'idea sarebbe stata ripresa nei successivi programmi urbanistici. Riguardo all’ampliamento, si intendeva dar vita ad un insediamento definito da strade larghe ed agevoli, dove fosse possibile svolgere la vita commerciale, con giardini pubblici ed edifici per abitazioni, al fine di congiungere “l’economia del prezzo e la comodità d’ igiene”.

 

La città veniva suddivisa in zone, secondo la concezione moderna basata su una specializzazione dei singoli distretti destinati alle diverse classi sociali: l’ubicazione stessa dei nuovi quartieri era dettata da una logica gerarchica e classista, che permarrà nello spinto dei successivi programmi d’intervento per la città. Nuovi mezzi di comunicazione avrebbero collegato le zone di espansione col centro storico: una rete tranviaria elettrica avrebbe raggiunto le due stazioni ferroviarie, con una sola fermata principale in piazza Prefettura, per evitare così una nuova concentrazione delle linee nella città storica.

 

Nel contempo, l'idea di collegare le due stazioni ferroviarie, in posizione quasi simmetrica rispetto all’abitato, si concretizzò attraverso una convenzione stipulata il 25 gennaio 1911 per la costruzione della linea Calabro-Lucana a scartamento ridotto: si voleva in effetti trasformare la linea in una metropolitana, atta a servire i nodi principali del traffico ferroviario e del centro cittadino; dieci anni più tardi, però, il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici avrebbe approvato un progetto diverso, relativo alla realizzazione delle linee ferroviarie sul versante occidentale della vallata, che costituiranno i margini artificiali dalla futura espansione. Quanto alla rete viaria, De Mata prevedeva l’apertura di una grande arteria, costeggiata da nuovi edifici, che avrebbe collegato il rione S. Rocco con il sistema viario a nord della città, attaversando il colle di Montereale in cavalcavia, ove si sarebbe sviluppata una zona sportiva e per fiere industriali, con ampie aree destinate a giardini pubblici ed edifici di uso collettivo.

 

Il Corpo Reale del Genio Civile all’ inizio si mostrò favorevole al piano De Mata, successivamente si oppose per il carattere monopolistico dell’ intera operazione. Inoltre il progetto, secondo il parere del Genio, non corrispondeva alle reali necessità della città, presentandosi “futurista” e sproporzionato: in esso, infatti, si prevedevano alloggi per 50.000 abitanti, per una città che ne ospitava solo 18.000, senza il supporto di strutture economiche capaci di trasformare sensibilmente l’ organizzazione sociale. Con delibera del 31 marzo 1915 il Comune adottò il piano, ma con riserva di chiedere il decreto reale di approvazione solo dopo la presentazione di un dettagliato programma finanziario da parte del progettista.

 

La guerra e la scarsa disponibilità di materie prime determinarono un grave ritardo nella risoluzione della questione: la Giunta comunale era giustamente preoccupata dell’ ampiezza dell’ operazione, sia per le difficili condizioni economiche che per il forte onere tributario che sarebbe ricaduto sulla cittadinanza. Intanto sin dal 1912, sul versante nord della città, erano stati posti in funzione alcuni padiglioni dello ospedale psichiatrico, realizzato dagli architetti Piacentini e Quaroni a S. Maria. Il suo insediamento, nei pressi della stazione superiore, segnò la prima reale espansione a settentrione, attestandosi lungo l’arteria provinciale diretta verso i centri abitati del Vulture. In questo periodo il rione S. Maria si configurò come nuova area “di supporto” per la città, grazie alla creazione di strutture ospedaliere ed assistenziali e di edifici di istruzione superiore.

 

All’avvento del fascismo circa 3.000 persone, ossia un 1/5 della popolazione, continuavano ad alloggiare nei sottani, in special modo nel rione Addone: nel 1927 gli abitanti del capoluogo avrebbero raggiunto il numero di 21.650, dovuto all’incremento delle nascite e all’ afflusso in città di funzionari, tecnici ed operai.

 

Una testimonianza dell'epoca: simpatizzanti della "Gil" in Piazza Mario Pagano.
Nel gruppo in piedi, penultimo da sinistra, Eugenio Brucoli, titolare dell'omonimo bar in Via Pretoria

I programmi del governo fascista tentarono di risolvere innanzitutto il problema dell’ ampliamento, proponendosi di rendere il capoluogo “centro” del suo hinterland ossia città attrezzata ai vari bisogni sociali, igienici, culturali ed economici della regione: la città fascista, infatti, si delinea concettualmente con funzione attiva di centro di scambi e non, quindi, gravante sulle energie nazionali; il mancato assetto economico del capoluogo lucano era stato determinato in buona parte proprio dall’assenza di industrie e dalla povertà dei commerci.

I nuovi provvedimenti del governo a favore dell’ agricoltura, delle trasformazioni fondiarie, del credito agrario, delle irrigazioni e delle bonifiche erano fattori determinanti per un incremento tecnicizzato della produzione agraria: anche per Potenza, quindi, si richiedevano nuove attrezzature ed industrie di trasformazione. Le opere effettuate nel capoluogo in questo periodo - il potenziamento della rete stradale, l’elettrificazione delle principali linee di trasporto, il completamento delle ferrovie Calabro-Lucane - intesero principalmente promuovere un impulso alla produzione attraverso l'incremento dei traffici.

 

La politica di antiurbanesimo e di valorizzazione dell’ambiente rurale costituì, sul piano ideologico, il tema fondamentale della visione fascista; laddove la costruzione di nuovi quartieri non significava richiamare nuove affluenze, bensì rispondere alle primarie esigenze della popolazione esistente. I piani regolatori focalizzeranno in questo periodo l’ attenzione sul nucleo storico della città: è infatti nelle intenzioni generali intervenire attraverso l’ abbattimento delle vecchie case, per circoscritti miglioramenti igienici da conseguirsi con interventi di diradamento, anche al prezzo di un’ alterazione ambientale; ciò avrebbe ovviamente comportato uno sfollamento della popolazione meno abbiente dalla città verso le aree di nuova espansione. Il centro cittadino si sarebbe quindi trasformato nel carattere e nelle funzioni, venendone accentuato il ruolo terziario.

 

Nel giugno 1925 il Commissario prefettizio Antonio Antonucci decretò la compilazione di un piano regolatore di ampliamento della città, con l’avallo di Giovanni Giuriati, ministro dei Lavori Pubblici, che durante una visita effettuata nelle zone da risanare “riconobbe Purgenza dell’opera”. Il progetto venne redatto dall’ingegnere Vincenzo Ricciuti, tecnico comunale, e dall’ingegnere Emilio Simeoni del Genio Civile, con Camillo Tizzano nel ruolo di coordinatore. Il piano prevedeva principalmente interventi di “risanamento, consolidamento e di spostamento dell’abitato di Potenza”, tesi a migliorare le condizioni igienico-sanitarie, la rete viaria, l’edilizia e il volto stesso della città, nonché a promuovere l’ incremento delle industrie e del commercio, per delineare così il volto dinamico della città moderna.

 

Per il risanamento del centro storico Ricciuti e Simeoni, interpretando alla lettera lo spirito della “battaglia di regime” e gli indirizzi che già da tempo e da più parti tendevano verso una radicale soluzione del problema, prevedevano interventi di demolizione nelle zone malsane, principalmente nel rione Addone, con l’eliminazione dei sottani, la ricostruzione e l’ampliamento delle sedi stradali, l’apertura di nuove piazze. Per il decongestionamento di via Pretoria e per consentirne un uso esclusivamente pedonale, gli autori del piano, nell’ abbandonare l’idea del De Mata di un ampliamento della sede stradale dell’asse principale, optarono per l’apertura di due nuove arterie ad esso parallele.

 

La prima, da svilupparsi a nord, avrebbe comportato raddrizzamenti e allargamenti di alcune strade, in parte poi effettuati in tempi più recenti. Essa iniziava dal previsto mercato al rione Addone e terminava a Portasalza, attraversando piazza Prefettura ed il nuovo mercato nei pressi di S. Michele. La seconda, da crearsi exnovo, partiva da piazza Sedile congiungendosi presso Portasalza con l’asse superiore, in modo da consentire un circuito veicolare.

 

All’ interno del tessuto più degradato si prevedevano pure interventi di rettifica delle quintane, oltre alla regolarizzazione di piazza Prefettura secondo una forma rettangolare - resa tale tramite il “raddrizzamento” del fronte orientale la demolizione e la sostituzione edilizia del lato sud dello stesso invaso; infine si sarebbe proceduto all’abbattimento di alcune fabbriche nei pressi della chiesa di S. Francesco.

Lungo il versante settentrionale una grande arteria extramurale, già indicata nel piano Rosi ed auspicata dallo Ianora (1906), avrebbe ospitato l’ospedale S. Carlo con la strada provinciale Potenza-Spinazzola - l’attuale via Mazzini - giungendo all’ altezza di Portasalza e proseguendo con il nuovo viadotto di Montereale, che effettivamente realizzato intorno al 1937, mentre già dal 28 era stato inaugurato l’omonimo parco.

 

Portasalza in una foto del 1925

La nuova città si sarebbe estesa prevalentemente nella piana a mezzogiorno e sulle pendici circostanti, con diramazioni verso S. Rocco, Betlemme e S. Maria, e abitazioni distinte per categorie di lavoratori, ossia secondo la moderna definizione di città-giardino, con case civili, operaie e rurali, e con quattro villaggi agricoli a Betlemme e sulla collina “Destri”, insieme con quelli già realizzati a S. Maria e al Gallitello, ornati da spazi verdi e da un’ampia villa comunale.

 

Il progetto di massima del Piano Regolatore Edilizio e di ampliamento della città, adottato il 3 marzo 1928 dal Commissario straordinario, nonostante il consenso ministeriale, non venne mai approvato. Nel ‘34, invece, il Provveditorato alle Opere Pubbliche bandi un concorso per un piano regolatore di “Risanamento del Rione Addone connesse opere per la città di Potenza”. Nonostante la proclamazione dei vincitori, gli ingegneri Addone, Nicolosi e Roccatelli, il piano venne sospeso nello stesso nello stesso anno per l’impostazione restrittiva dell’intervento da realizzare, ritenendosi prioritario un progetto di sistemazione generale della città, cioè la formazione di un piano regolatore generale. Negli anni successivi, però, fu avviato e qualsiasi intervento fu basato, come vedremo, sul generico riferimento al Regolamento di Polizia Edilizia adottato nel 1933.

 

La chiesa di San Rocco, così come appariva nel 1907, libera dall'invadente cemento armato e con innanzi un vasto piazzale erboso, dove il popolo potentino, la sera del XVIII agosto di ogni anno, si riuniva per festeggiare il Santo, assistendo ai fuochi artificiali. Non si faceva economia in tali occasioni di abbondanti libagioni, sino a tarda notte

L’evento bellico, con i bombardamenti susseguitisi dall’ 8 al 22 settembre 1943, determinerà con la sua forza demolitrice l’urgenza di ricostruire l’abitato, gravemente danneggiato, e in particolare modo i rioni Addone e Rossano. Nel 1946 il provveditore alle Opere Pubbliche conferì l’incarico della compilazione di un “Piano di Ricostruzione” di Potenza all’ing. Vittorio Addone: nel progetto, oltre al programma di risanamento e ricostruzione, nonché di miglioramento della viabilità interna all’abitato, già delineati nel piano del ‘34, venne ripreso anche il tema dell’ampliamento della città.

 

Il piano confermava la pedonalizzazione di via Pretoria e la realizzazione delle due arterie secondarie; il rione Addone sarebbe stato tagliato da un asse principale, largo 9 metri, che partendo da piazza Matteotti avrebbe raggiunto via Pretoria e poi piazza S. Carlo. Un’altra strada, invece, avrebbe avuto origine da piazza XVIII Agosto, nei pressi del Banco di Napoli, e per via Manhes e via Cipriani sarebbe giunta anch’essa a piazza S. Carlo, collegandosi pure ai rioni S. Carlo e Crispi. Anche per il rione Rossano, compreso fra le chiese della SS. Trinità e di S. Michele, vennero previsti interventi di sventramento per il passaggio delle due arterie carrabili.

 

Le zone di espansione erano localizzate nei rioni Libertà e S. Maria, ossia a sud e a nord dell’abitato. L’area meridionale si estendeva nella conca ai piedi della collina, fra la SS 95 e la via Marconi, collegamento della città storica con la stazione di Potenza Inferiore. In quest’area, dove erano già in costruzione tre lotti di tipo intensivo di edilizia popolare, la sistemazione urbanistica prevedeva un nucleo centrale delimitato da costruzioni pubbliche, dove a quote diverse erano previste alcune piazzette, con villini e palazzine circondati dal verde. Nella seconda zona di ampliamento vennero realizzate sei palazzine di edilizia economica e popolare, oltre agli edifici scolastici, al nuovo ospedale S. Carlo, all’ orfanotrofio e all’ampliamento della Caserma “Lucania”.

 

All'avvento del fascismo, circa 3000 persone (un quinto della popolazione di Potenza) alloggiava nei sottani. L'evento bellico (8-22 settembre 1943) determinerà l'urgenza di ricostruire l'abitato gravemente danneggiato

Il piano del ‘46 configurava, quindi, un nuovo assetto urbano di tipo monocentrico, localizzando nel centro storico le strutture direzionali e, secondo direttrici di supporto, a nord le attrezzature urbane e sul versante meridionale, verso la stazione, la zona di espansione.

 

 

 

 

Urbanistica e architettura del ventennio fascista

 

All’inizio del secolo alcuni eventi eccezionali, come la miseria dopo la Grande Guerra e la nascita della dittatura fascista, riuscirono ad animare in qualche modo le forze che si opponevano alle logiche conservatrici di chi, pur avendo accettato l’idea di una “città-regione”, su cui ancora si affannava a predicare il Commissario prefettizio Antonucci nel 1928, non era disposto al sacrificio dei propri interessi per il “bene della collettività” e soprattutto per il consolidamento del ruolo istituzionale affidato alla città agli inizi del decennio francese. “Potenza, se non ha ancora realizzato lo sviluppo ed il progresso adeguati ad un Capoluogo di Provincia e di Regione, non ha neanche raggiunto quel grado di civiltà e di decoro che in altre città, anche di minore importanza, è in continuo divenire”: così l’Antonucci iniziò il proprio discorso in occasione dell’adozione, nel 1928, del progetto di massima del citato Piano Regolatore Edilizio e di Ampliamento di Ricciuti e Simeoni.

 

Da tempo erano ormai cambiati gli scenari socio-politici, ma rimanevano intatte le problematiche principali, tra cui, prima tra tutte e comune a molte città che conservavano una struttura urbana medioevale, la precaria situazione igienico-sanitaria dell’abitato. Non essendosi di fatto realizzata l’ idea del Duca della Verdura di un allontanamento dei ceti meno abbienti, si era conservato un modello di divisione sociale di tipo “verticale” - i poveri nei sottani e i ricchi e la classe media nei “soprani” - cui si contrappose quello del De Mata: questi, nel descritto progetto del 1914, aveva immaginato uno schema socio-urbanistico radiocentrico, costituito da cinture residenziali civili, semi-civili, economiche e popolari che si sviluppavano a distanze crescenti dal nucleo abitato.

 

Festa in maschera 1903, in occasione delle "Colonie Climatiche" di Basilicata.
L'inedita immagine proviene dall'archivio di foto Giocoli, uno dei primi fotografi della città di Potenza (collezzione privata avv. Domenico Bonifacio)

Nel dibattito urbanistico degli anni 20 leggiamo tutte le frustrazioni e le speranze disilluse a causa della scarsa applicazione della legge del 1908, della lentezza secolare dei processi di trasformazione urbana, della lacerante esperienza bellica e del fallimento dell’utopia del “progetto totale” del De Mata. In un clima al contempo di delusioni e di nuove speranze, alimentate da una propaganda che faceva delle opere pubbliche un mezzo straordinario di consenso per il regime, nasceva nel 1928 il “Piano Antonucci”, che nonostante la sua mancata attuazione condizionò in maniera rilevante il successivo sviluppo della città. Alcune scelte attuate, come l’insediamento della zona industriale lungo il Basento, alcune omissioni o mancati approfondimenti, come la carente pianificazione dell’espansione a sud, costituirono i prodromi di quella frammentarietà e incompiutezza nei processi di trasformazione urbana ed ambientale tipiche del secondo dopoguerra.

Lo stesso tenore di frustrazioni era stato inizialmente alla base della favorevole, se non entusiastica, accoglienza del piano De Mata. Il progetto “audace e grandioso”, come molti politici e cronisti dell’epoca l’avevano definito, era sembrato l’unico strumento atto a creare un varco nel muro di “diffidenza”, di “accidia dei cittadini” e degli atteggiamenti ostativi precostituiti a causa di interessi privati che venivano intaccati ogni qualvolta si adombrassero ipotesi di rinnovamento urbano.

 

Ma il carattere ambizioso e monopolistico dell’iniziativa e la situazione precaria delle casse comunali alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, avevano fatto desistere l’amministrazione comunale, e qundi l’architetto napoletano, dall’impresa, venendo meno la speranza di risolvere i problemi urbanistici della città in maniera radicale mediante un progetto che aveva avuto il grande limite di estromettere la comunità dai processi decisionali ed esecutivi di trasformazione urbana.

 

Intanto, a partire dal primo decennio del nuovo secolo, si erano avviate o concluse numerose opere, tra cui il già ricordato palazzo degli Uffici Governativi (1907-11) costruito sul preesistente impianto del Collegio dei Gesuiti, della metà dell’ 800, su progetto dell’ingegnere del Genio Civile Oreste Guercia di Barcucci; la nuova sede del Banco di Napoli (1896-1914); la Regia Scuola Industriale al Rione S. Maria (1922-29), sorta su progetto degli ingegneri Raffaele Cassano e Vincenzo Ricciuti costituita da un blocco principale in stile eclettico a forma di V in pianta e da un corpo “Officine”, destinato ai laboratori della scuola e mai realizzato; il Seminario Pontificio Regionale (1926-28), di G. Momo e T. Bianchi, infine il manicomio di S. Maria, progettato da Marcello Piacentini, insieme con Giuseppe Quaroni, su cui vale la pena di soffermarci per l’impatto che il complesso ebbe nel disegno dell’ area di espansione a settentrione della città.

 

 

 

 

Nasce un nuovo ospedale

 

Il manicomio, i cui lavori iniziarono nel 1912, si rese necessario a causa della precaria situazione dei folli della Basilicata, che venivano curati fuori regione, con notevole dispendio di risorse finanziarie da parte dell’amministrazione provinciale. Esso venne progettato in occasione del concorso bandito dalla Provincia nel 1906 e vinto dai citati progettisti. Per l’opera, destinata ad accogliere 300 pazienti, l’amministrazione committente mise a disposizione una vasta area a nord della città, su cui ormai già da tempo si puntava per un incisivo decentramento socio-economico. L’ampliata Caserma Basilicata, l’Orto Botanico, la Villa Comunale, il mattatoio (1906-9), costituivano i primi avamposti di questa nuova politica di espansione urbana...

 

La forte domanda di alloggi da parte di un sempre più “crescente stuolo di funzionari e di impiegati” fu alla base dell’istituzione di un ente come lo IACP che, “senza grovigli burocratici e con facili finanziamenti”, potesse assicurare “costruzioni rapide”. I forti interessi di proprietari di case che esigevano fitti esorbitanti non favorirono certo una veloce soluzione del problema, nonostante il cambiamento della normativa in materia di edilizia economica e popolare, che prevedeva una diretta partecipazione del Comune alle realizzazioni edilizie insieme con l’ente morale.

 

Solo nel 1925, mentre l'INCIS costruiva delle palazzine sull’area del giardino dell’ex convento dei Gesuiti e il Provveditorato alle Opere Pubbliche non aveva dato ancora inizio alla costruzione di villaggi agricoli, vennero accordati fondi per la creazione di abitazioni per gli impiegati attraverso lo IACP, realizzandosi gli edifici del rione S. Croce - piazza Crispi; venne inoltre intensificata la costruzione di alloggi per i meno abbienti, con la nascita dell’istituto di Case Economiche e Popolari, costituito sin dal 1919.

 

Nonostante gli “eroici sforzi” che il governo fascista compiva per “il miglioramento della razza e l’elevamento sociale della nazione”, alla fine degli anni ‘20 nei sottani abitavano ancora famiglie numerose e talvolta anche due o tre nuclei, come nelle case cosiddette a compagno, spesso insieme con gli animali da lavoro. Pertanto si invocava in maniera più forte che in passato quel “piccone demolitore” che sarebbe diventato l’approccio metodologico più diffuso per la risoluzione dei problemi urbanistici di Potenza, come di altre città italiane.

 

Gli ingegneri Ricciuti e Simeoni previdero nel 1928, come si è detto, la demolizione dell’ intero quartiere Addone e numerosi sventramenti puntuali e continui, finalizzati soprattutto alla creazione di un’efficiente rete viaria nel centro antico. Il piano costituì, di fatto, uno spartiacque nelle dinamiche sociali ed economiche che condussero alla terziarizzazione del vecchio nucleo e la conseguente fuoriuscita del ceto rurale. L’impianto urbano, liberatosi già da tempo della cinta muraria, doveva diventare sempre più il centro commerciale, amministrativo e politico della città; contemporaneamente esso si apriva verso sud e verso nord, per favorire il diradamento demografico.

 

Questo avvenne all’ inizio molto lentamente per le inevitabili spinte conservative e per la frequente reticenza, da parte del “popolo dei sottani”, ad abitare fuori della cerchia urbana, come ad esempio nei nuovi villaggi agricoli di Betlemme e Francioso. Il piano si trovò ad affrontare una realtà urbanistica extra moenia in lenta evoluzione, ma già disgregata e pertanto tutta da organizzare ed orientare. Gli autori del programma si sforzarono, innanzitutto, di ricucire quelle trasformazioni che in maniera spontanea o non pianificata si erano avviate a partire dalla seconda metà del secolo scorso, come i primi nuclei residenziali sotto il carcere di S. Croce. Qui l’espansione si era fermata prima per la pausa bellica, poi per la rinuncia del De Mata a costruire un quartiere a S. Rocco.

 

 

 

 

La frammentarietà edilizia

 

La frammentarietà che aveva dominato fino a quel momento le realizzazioni edilizie, sia dal punto di vista tipologico-architettonlco che da quello più propriamente legato alla scelta dei siti, impose a Ricciuti e Simeoni l’esigenza di un nuovo disegno organico dell’ insediamento residenziale, con una particolare attenzione alla qualità ambientale ed urbana. Il quartiere doveva articolarsi in due aree, il rione Case Popolati di S. Croce, a monte, e quello di civili abitazioni a S. Rocco, a valle. Essi dovevano collegarsi direttamente al centro mediante la tanto agognata strada “orientale esterna7, di cui nel 1927 fu approvato il progetto di un primo tronco che partiva dal Banco di Napoli e arrivava all’imbocco della via delle Carceri. La strada sarebbe diventata il trait d’union tra la rete viaria urbana e le principali vie rotabili, come la comunale di collegamento con S. Rocco, la provinciale di circumvallazione e la nazionale che si innestava nella Appulo-Lucana.

 

Dei due quartieri suddetti solo il primo venne realizzato, ma con trasformazioni e ridimensionamenti che snaturarono quell’aspetto di città-giardino che negli intendimenti dell’ amministrazione doveva qualificare i nuovi insediamenti previsti sul pianoro che andava da Borgo S. Maria fino a Poggio Tre Galli, dalla “posizione salubre e ridente”: quivi prendeva sempre più corpo l’idea di una “città sanitaria”. La scelta, al di là di tante altre motivazioni addotte da sostenitori e promotori, sembrava l’unico modo per salvare il rione dal fallimento urbanistico del manicomio. In parte ciò venne realizzato: infatti, dopo la creazione del policlinico “Remigio Gianturco” e del tubercolosario di Verderuolo, nel 1939 l’ospedale S. Carlo si trasferì in alcuni padiglioni di quell’impianto.

 

Per rafforzare il polo urbano settentrionale serviva, però, un idoneo collegamento con la città e con la zona a sud verso il Basento. La proposta avanzata già nel 1923 di una linea tranviaria che partisse dalla stazione di Potenza Inferiore e giungesse a S. Maria non aveva avuto alcun esito positivo, nonostante le iniziali e promettenti trattative tra la Deputazione provinciale e la società Idroelettrica Lucana.

A questa proposta seguì quella rientrante nel progetto della tratta ferroviaria Potenza-Nova Siri delle Ferrovie Calabro-Lucane. Bisognava rendere carrabile e pedonale il tracciato, per buona parte in galleria, che andava dalla stazione Inferiore a quella Superiore; l’installazione di un ascensore, poi, avrebbe consentito il collegamento diretto tra il percorso ipogeo e piazza Prefettura. Ma le linee Calabro-Lucane attuarono solo parzialmente la variante di percorso proposta, impedendo la realizzazione di una metropolitana che collegasse in maniera efficace il centro con le espansioni a sud e a nord del crinale.

 

Dopo l’adozione del piano emersero subito i limiti di fattibilità dovuti soprattutto alle “ristrettezze economiche” del Comune; pertanto si individuarono delle priorità nelle scelte progettuali, escludendo la realizzazione dell’asse longitudinale a sud di via Pretoria, ridimensionando altri interventi, come l’allargamento della stessa via Pretoria solo nei tratti di maggiore flusso pedonale, e rinviandone altri ancora. Di fatto, si puntò soprattutto su interventi parziali di risanamento del centro antico e sulla realizzazione di alloggi per gli abitanti dei sottani.

 

Con riferimento al citato concorso del 1934, relativo al risanamento del rione Addone e allo studio della rete viaria del centro storico, il De Pilato osservò a ragione che l’amministrazione comunale avrebbe dovuto preventivamente “fissare la sistemazione generale della città, delimitandone le zone da abbattere, quelle da ricostruire, fissandone la destinazione, determinando le strade, le piazze, i giardini, i mercati coperti, il resto [...] per formare un Piano Regolatore della città [...]”: bisognava cioè fornire ai partecipanti al concorso un “pre-piano” regolatore. Il risultato fu, ancora una volta, l’assenza di uno strumento urbanistico, che non venne certo colmata con l’adozione, nel 1933, del Regolamento di Polizia Edilizia, che fece anzi da sponda ai disorganici processi di trasformazione degli anni ‘30 e successivi.

 

Un esempio fu il ridimensionamento del Rione “Tavolaro”, a causa, sia della mancata attuazione del Piano di Risanamento, sia della sopraggiunta crisi economica dagli anni che precedettero lo scoppio della seconda guerra mondiale fino a tutti i ‘40. Nell’attuale rione Italia, a sud-ovest delle palazzine costruite dall’Istituto Case Popolari, dovevano sorgere due lotti di case-ricovero per gli abitanti dei sottani da demolire, più un complesso di una quindicina di edifici previsti nel Piano di Risanamento. Di quest’ultimo, ancorché oggetto di una variante tendente ad una maggiore fattibilità, venne costruito un solo fabbricato e un edificio scolastico, mentre dei due lotti solamente il primo fu portato a termine.

 

 

 

 

Demolizioni e restauri in città

 

Intanto, all’ interno delle vecchie mura cittadine, nel 1929 venivano abbattute alcune fabbriche “pericolanti” tra il palazzo del Governo e la chiesa di S. Francesco, che già qualche anno prima aveva subito la demolizione di una cappella annessa alla sacrestia. L’intervento, che rientrava nei lavori di ampliamento della sede del Governo, avrebbe consentito un “un comodo accesso al nuovo Palazzo di Giustizia”: la ristrutturazione dell’ edificio ottocentesco costituiva, nelle aspettative generali dei primi anni ‘20, un tassello fondamentale della “trasformazione edilizia e civile di Potenza”.

"Metamorfosi di una città", Vincenzo Marsico, Lalli Editore - Poggibonsi, 1990

 

Nel 1936, inoltre, l’intero isolato di Porta Amendola venne raso al suolo: nell’ area di risulta, con “celerità fascista”, sarebbero iniziati i lavori di costruzione della sede dell’ INA (1938-40), il cui progetto di Mario De Renzi subì varie modifiche, sia nella distribuzione interna sia nel disegno del fronte principale. Fiancheggiato da due nuove strade e costruito per ospitarvi uffici ed alloggi e per “abbellire” la piazza su quel fronte, l’edificio risultò invece prevaricatore, sia per il linguaggio razionalista che per le proporzioni, fuori scala rispetto alle prospicienti cortine edilizie. L’intervento, criticato sin dall’ inizio, anche per aver eliminato un’utile barriera contro i venti dominanti, “sembra quasi pensato per creare una frattura, uno stacco evidente” con il tessuto urbano circostante.

 

Nella Piazza del Seggio, dopo i restauri della Casa Comunale (1924-28) e la demolizione del vecchio teatro, già chiesa di S. Nicola, per costruirvi la Casa del Fascio (1926-28), venne abbattuto l’adiacente palazzo Navarra, pregevole testimonianza di architettura civile sette-ottocentesca, per far posto alla nuova sede della Banca d’Italia (1934-38), in stile eclettico-monumentale. Il polo commerciale, che si sarebbe dovuto articolare, secondo il piano del ‘28, nei due mercati coperti previsti a oriente e a occidente del crinale, venne ridimensionato e collocato tra l'ex monastero di S. Luca e il Palazzo Bonifacio.

 

Il Rione Addone visse, invece, una storia più sofferta. Il risanamento iniziò negli anni ‘30, si interruppe a causa della mancanza di fondi negli anni di autarchia prebellica e riprese verso la fine degli anni ‘50, accelerato dalle distruzioni causate dai bombardamenti del ‘43: le prime demolizioni riguardarono alcune case nei pressi di Largo Liceo. Nel ‘34 vennero pure avviati i lavori di pavimentazione di via Pretoria e della parallela via Roma e l’espropriazione di un lotto di case nelle vicinanze dell’ospedale S. Carlo. Tre anni dopo, nel 1937, nell’ ambito del III lotto del risanamento, venne abbattuto il palazzo Stella-Morena, sede dell’Istituto delle Gerolomine, in luogo del quale si costruì, a partire dal 1938, il palazzo delle Poste progettato dall’architetto Ernesto Bruno La Padula...

 

Contemporaneamente si attivarono altre realizzazioni pubbliche, come la Biblioteca Provinciale (1937-39); sul fianco meridionale del colle sorsero la nuova sede della Società Lucana per le Imprese Idroelettriche (1938-40) e quelle della SITA e della FIAT, che con le Case degli Statali, poste a valle del palazzo degli Uffici, rappresentarono gli elementi di cucitura tra le ultime cortine dell’espansione extraurbana ottocentesca e il nascente quartiere residenziale di via Crispi-S. Rocco.

 

La mancata attuazione degli strumenti urbanistici, le conseguenti realizzazioni per stralci, i continui e repentini cambiamenti progettuali, insieme con la poco rassicurante situazione economica generale alla fine degli anni ‘30, favorirono disorganici processi di espansione a meridione. A tutto questo si aggiungano l’infelice idea di ubicare il campo sportivo a monte della Stazione Inferiore, che costituì, assieme alla stessa ferrovia, un ostacolo fisico allo sviluppo della città verso il Basento. La localizzazione dell’ area industriale e artigianale al di là della ferrovia compromise ogni possibilità di ampliamento verso valle, creando i presupposti per quell’“implosione” di insediamenti residenziali, tanto sviluppati in altezza intorno ai pendii del colle, da impedire persino la veduta da valle dei campanili delle chiese cittadine.

 

 

 

 

Scelte politiche e trasformazioni urbane del secondo dopoguerra agli anni '90

 

In conclusione del nostro studio, è opportuno tentare una ricostruzione della complessa vicenda urbanistica potentina degli ultimi decenni. Agli inizi degli anni ‘50, nonostante i descritti interventi operati nell’ambito del centro storico sulla base del piano di risanamento del 1934 e di quello di ricostruzione del 1946, non era ancora stato risolto il diffuso problema della fatiscenza delle abitazioni esistenti; quanto alla nuova espansione urbana, essa si era sviluppata, come abbiamo visto, secondo due direttrici contrapposte rispetto all’antico nucleo, interessando da un lato il versante meridionale del crinale, dall’altro il settore nord-est dell’ insediamento originario. Nel 1954, con decreto ministeriale, la città di Potenza fu compresa nell’elenco dei comuni obbligati alla redazione del Piano Regolatore Generale ai sensi della legge urbanistica del 1942. L’amministrazione comunale, entro il 1956, avrebbe dovuto adempiere alla redazione del PRG; il nuovo strumento urbanistico sarebbe entrato invece in vigore soltanto nel 1971.

 

Foto dei primi anni del '900 di Via del Popolo

Durante il lungo periodo di dibattiti consiliari sugli obiettivi e i contenuti del piano, la città continuò a svilupparsi spesso al di fuori di ogni logica urbanistica. Nel 1957 il Comune deliberò di dotarsi, sulla base di un concorso nazionale di idee, di uno schema di PRG; nel ‘58 i tre progetti presentati furono esaminati dalla commissione giudicatice, che attribuì il primo premio allo studio contraddistinto dal motto “Quintana Grande”, redatto dagli ingegneri Bonamico, Mascia e Piroddi, ai quali, nel 1959, venne affidato l’incarico di redigere il Prg collegandosi alla politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno, che proprio in quegli anni andava affermandosi, tutti i concorrenti proponevano per la città uno sviluppo di tipo industriale, grazie al quale Potenza avrebbe dovuto assumere il ruolo di centro produttivo di riferimento per l’intero territorio regionale; quanto invece alle attività terziarie e commerciali, nelle tre proposte progettuali si indicavano diverse ed alternative localizzazioni. In particolare, il progetto vincitore individuava come principale obiettivo il superamento dell’assetto urbano monocentrico , attraverso l’individuazione di nuove direttrici di espansione: le strutture direzionali sarebbero dovute sorgere in un area a ridosso della Stazione Inferiore, lungo le pendici meridionali a valle del centro storico, prevedendo per quest’ultimo la conservazione dei principali caratteri edilizi ed urbanistici ed il mantenimento della destinazione residenziale e commerciale. Inoltre, bloccando ogni possibilità di crescita della città in tutto il settore nord-orientale, nel progetto si individuarono quali esclusive aree di espansione i rilievi a nord-ovest dell’abitato.

 

Il piano conforme, nella prima stesura redatta dai tecnici incaricati, all’elaborato di concorso - fu adottato dal Consiglio Comunale soltanto nel 1962; in esso era compresa anche una pianificazione di dettaglio del centro storico (zona A), che mirava essenzialmente al risanamento del vecchio abitato: all’interno di quest’ultimo, grande importanza fu attribuita alla ristrutturazione generale della viabilità, che avrebbe dovuto consentire il traffico veicolare indotto dalle previste nuove attività terziarie, commerciali e residenziali. Lo schema circolatorio proposto era strutturato secondo anelli a senso unico, raccordati in alcuni punti nevralgici, individuati nelle piazze G. Matteotti e M. Pagano. Via Pretoria, il percorso di maggiore importanza, avrebbe conservato l’esclusivo uso pedonale.

 

Le aree a ridosso del vecchio nucleo urbano, sulle quali si concentravano le maggiori attese e pressioni speculative, erano incluse nella cosiddetta zona B, vincolata alla conservazione dei volumi esistenti. Riguardo poi alla nuova espansione della città, si prevedeva da un lato il completamento dello sviluppo edilizio già in atto nel settore meridionale e a nord dell’abitato, dall’altro l’individuazione di una vasta area di riserva localizzata nel settore nord-occidentale, che l’amministrazione avrebbe dovuto acquisire e destinare a futuri ampliamenti residenziali, nel rispetto delle esigenze della futura città.

 

Le vecchie abitazioni del lato sud di Piazza Prefettura che, demolite negli ultimi anni '30, fecero spazio al Palazzo INA ultimato nel 1941
("Saluti da Potenza" - Luigi Luccioni)

Per motivi morfologici e per la presenza di attrezzature (ospedali e cimitero) che richiedevano particolari zone di rispetto, nel PRG veniva invece bloccata l’espansione della città nel settore nord-orientale. Per quanto riguarda poi le aree da destinare all’insediamento delle attività industriali, nel 1961 era stato costituito il Consorzio per l’industrializzazione della valle del Basento che individuava, nelle zone di sedime del fiume attraversate dalle principali vie di comunicazione (la SS 94 e la ferrovia Napoli-Taranto), la localizzazione degli impianti produttivi.

 

Questa scelta, oltre a sottrarre vaste aree all’orticoltura, comporterà la perdita del rapporto della città con l’area fluviale, deturpata dalla cementificazione delle sponde e degradata nella qualità delle acque.

L’industrializzazione della valle del Basento costituirà inoltre un ostacolo alla spontanea espansione della città lungo le pendici meridionali del crinale.

Dal 1962, anno di prima adozione, al 1971, anno di definitiva approvazione, il piano regolatore della città fu più volte oggetto di discussioni in Consiglio comunale, in occasione delle quali fu sottoposto a varianti e modifiche, con l’aumento, ad esempio, degli indici volumetrici e dei limiti di altezza. Mentre si dilatavano i tempi dell’iter di approvazione del piano, la città continuava ad espandersi al di fuori di un disegno generale, anche per il ricorrere di periodi di cosiddetta vacatio legis, quando, cioè, trascorso il triennio posteriore all’ adozione del piano, per l’amministrazione cessava l’obbligo delle misure di salvaguardia.18

 

18) Alfredo Buccaro - "La città nei piani regolatori della prima metà del '900" - Editori Laterza - Bari,  1997

 

 

 

 

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